F a t t o Con decreto pronunciato ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 286/1998, il prefetto di Pistoia disponeva l'espulsione, con accompagnamento alla frontiera, nei confronti dello straniero Cela Skender (nato in Albania il giorno 20 aprile 1974. Tale decreto prefettizio veniva notificato alla persona interessata in data 12 dicembre 2000. Con decreto del questore di Milano, poi, veniva disposto il "trattenimento" di tale persona nel centro di via Corelli in Milano, poiche' il questore aveva ritenuto sussistente il presupposto relativo alla mancanza di vettore, alla necessita' di accertamenti ulteriori e di acquisire un documento per l'espatrio. Questo decreto veniva notificato in data 12 gennaio 2001. Gli atti relativi alla notifica dei sopra menzionati provvedimenti amministrativi venivano infine depositati presso la cancelleria del tribunale in data 13 gennaio alle ore 11,40. Questo giudice, a norma dell'art. 14 del d.lgs. citato, e' ora ora chiamato a convalidare il provvedimento di "trattenimento", in esito a un'udienza camerale, trattata secondo il rito disciplinato dagli artt. 737 e ss. c.p.c. (espressamente richiamati dall'art. d.lgs. n. 286/1999) . Il procedimento come attualmente disciplinato dalla legge suscita tuttavia gravi dubbi di legittimita' costituzionale di questo giudizio di convalida, segnatamente rispetto ai poteri del giudice e delle garanzie della persona "trattenuta". La legge in tema di immigrazione e di condizione delle persone straniere, per esempio all'art. 13, comma 8, d.lgs. n. 286/1998, sancisce solennemente che la persona straniera "comunque presente . . . nel territorio dello Stato" (e quindi anche a chi vi soggiorni in modo non conforme alle leggi) gode di tutti i diritti fondamentali dell'essere umano, come espressamente stabilito anche dall'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 286/1998; "allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princi'pi di diritto internazionale generalmente riconosciuti". Cio' e' stato confermato anche dalla recente sentenza 8-16 giugno 2000, n. 198, di codesta onorevole Corte. Muovendo dalla condizione giuridica dello straniero anche irregolarmante soggiornante nel territorio italiano, considerando la natura reale del "trattenimento", esaminando poi le norme costituzionali rilevanti in materia, si potranno forse meglio delineare i dubbi di legittimita' costituzionale della normativa che dovrebbe essere oggi applicata dallo scrivente. La giurisprudenza costituzionale, sin dalla sentenza n. 120 del 1967, ha affermato che "se e' vero che l'articolo 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, e' anche certo che il principio di uguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare [...] diritti fondamentali". Anche altre recenti pronunce, pur dichiarando la non fondatezza dei dubbi prospettati in quanto alle lamentate lacune si sarebbe dovuto sopperire con una diversa interpretazione da parte dei giudici di merito, hanno riaffermato che anche in capo alla persona straniera comunque presente sul territorio italiano vanno riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana, e in particolare quello di difesa ex art. 24 Costituzione. Infatti, la sentenza 8-22 giugno 2000, n. 227, ha affermato che la persona straniera ha sempre diritto a conoscere, nella sua lingua, i provvedimenti coercitivi o comunque pregiudizievoli adottati nei suoi confronti (nella specie, il provvedimento prefettizio di espulsione), trattandosi fra l'altro di un diritto garantito, oltre che implicitamente dall'art. 24 della Costituzione, anche dall'art. 1 del protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo dall'Italia con la legge 9 aprile 1990, n. 98; dall'art. 13 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, fatto a New York il 19 dicembre 1966, ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881). La sentenza 8-16 giugno 2000, n. 198, aveva precedentemente enunciato affermazioni analoghe, fornendo una interpretazione adeguatrice dell'art. 13, comma 8 del d.lgs. n. 286/1998, e rinnovando espressamente l'affermazione che "lo straniero (anche irregolarmente soggiornante) gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana, fra i quali quello di difesa, il cui esercizio effettivo implica che il destinatario di un provvedimento, variamente restrittivo della liberta' di autodeterminazione, sia messo in grado di comprenderne il contenuto e il significato". Cosi' pure aveva stabilito codesta onorevole Corte con la sentenza 12-19 gennaio 1993, n. 10, respingendo l'eccezione gia' allora sollevata dall'Avvocatura di Stato, secondo cui il rispetto del principio di uguaglianza non impone una assoluta identita' di trattamento normativo per situazioni oggettivamente diversificate; in tale occasione la Corte aveva anche ricordato che "il diritto dell'imputato ad essere immediatamente e dettaglia'tamente informato nella lingua da lui conosciuta della natura e dei motivi dell'imputazione contestata gli dev'esser considerato un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile", ricordando altresi' il principio della effettiva partecipazione dell'imputato allo sviluppo della sequenza procedimentale come intrinsecamente connesso al diritto di difesa di cui all'art. 24 Costituzione, e sottolineando che tale principio va riferito a tutte le fasi del processo. Pertanto, qualunque essere umano, e dunque anche ogni persona straniera, comunque presente nel territorio italiano, come ha espressamente proclamato codesta onorevole Corte, "gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana". Trattandosi di misura notevolmente afflittiva, il cui contenuto e' assolutamente comparabile alla custodia in carcere, appare evidente che anche al "trattenimento" presso i cosiddetti centri di prima accoglienza devono applicarsi le garanzie previste dai diritti fondamentali della persona umana. Dunque, dovendosi riconoscere per gli argomenti innanzi svolti, che il principio di eguaglianza vale anche per tutti gli stranieri, e' inevitabile individuare nel regime penalistico, per esempio dell'arresto, il tertium comparationis necessario ai fini del controllo di ragionevolezza e di uguaglianza, in relazione all'art. 3 Costituzione. Sorgono pertanto i seguenti dubbi di legittimita' costituzionale. L'art. 14, comma 4, t.u. n. 286/1998 dispone che il giudice debba osservare per la convalida la procedura di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c.. Tale procedura si applica normalmente, e per la sua stessa natura, a oggetti sostanziali che non incidono su diritti o non incidono in posizione di contrasto, tanto che e' destinata a concludersi con provvedimenti strutturalmente revocabili modificabili e quindi inidonei a passare in giudicato. Queste caratteristiche strutturali danno origine a procedimenti camerali semplificati rispetto ai quali risulta ragionevole la forte attenuazione delle garanzie del contraddittorio e delle prove cosi' come l'impugnabilita' attraverso semplice reclamo. Ebbene, in tale parte il menzionato art. 14, comma 4, pare essere in contrasto con gli artt. 3, 10, 13 e 24 Costituzione, poiche' deve dubitarsi che una simile procedura "leggera", possa consentire, in modo efficace e concreto, il riconoscimento della dignita' della persona trattenuta (anche se straniera) e la esplicazione dei suoi diritti di piena difesa, diritti previsti anche dalla Convenzione europea 4 novembre 1950 per i diritti dell'uomo e le liberta' fondamentali, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, oltre che dal protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo dall'Italia con la legge 9 aprile 1990, n. 98) e dal patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, fatto a New York il 19 dicembre 1966, (ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881), e dunque oggetto di doverosa applicazione in forza dell'art. 10 Costituzione. D'altro canto gli artt. 3 e 13 vengono in considerazione per il fatto che la Costituzione impone che la convalida (di atti restrittivi della liberta' personale) da parte dell'autorita' giudiziaria assuma ragionevoli forme procedimentali al fine di rendere effettiva l'inviolabilita' della medesima liberta' al di fuori dei tassativi casi di legge. Lo stesso art. 14, comma 4, t.u. risulta inoltre in contrasto con gli artt. 3, 10 e 111 della Costituzione (per ragioni analoghe a quelle gia' illustrate) nella parte in cui non consente al giudice procedente di svolgere autonomi e approfonditi accertamenti sulla concreta sussistenza delle ragioni che sole giustificano, a norma del medesimo art. 14 t.u., il "trattenimento". La assoluta genericita' delle motivazioni addotte dal questore mediante la barratura di riquadri accanto a parafrasi dell'art. 14, comma 1, t.u., invero, esclude che il giudice possa seriamente valutare la fondatezza e la permanente sussistenza dell'impossibilita' di accompagnamento immediato. Per esempio, mancando ogni elemento circa il vettore concretamente scelto, il giudice non potra' apprezzare se la discrezionalita' amministrativa abbia avuto qualche ruolo nella durata della indisponibilita' del vettore medesimo. In proposito, mette conto sottolineare che, in tema di misure custodiali, la giurisprudenza costituzionale ha piu' volte affermato che esse devono ancorarsi a una rigorosa gamma di presupposti (gravi indizi di colpevolezza relativi a delitti puniti con pene superiori a precisi limiti edittali; solo allora possono aver rilievo le esigenze cautelari, comunque nei limiti dettati dai princi'pi di proporzionalita' e adeguatezza). Gia' con la sentenza n. 39/1970, per esempio, codesta onorevole Corte ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 220 TULPS, che prevedeva l'arresto in flagranza per reati puniti con la sola pena pecuniaria. Anche con la sentenza n. 1/1980 - pronunciata dunque in anni che poi si sarebbero detti di piombo - si sono individuati limiti di contenuto per la legislazione in materia di coercizione personale, ed e' legittima la sensazione che la Corte intendesse allora escludere la possibilita' di dar corso alla privazione della liberta' personale in ambiti diversi dal processo penale. Nel caso del "trattenimento", per converso, la fattispecie di base (l'illecito amministrativo rappresentato dall'ingresso illegale in Italia) risulta sicuramente caratterizzata da un disvalore giuridico e sociale parecchio minore rispetto a quello dei delitti che consentono l'applicazione di misure coercitive. Risulta percio' difficile sussumere nel precetto costituzionale della ragionevolezza un istituto, come la detenzione amministrativa in esame, che non solo si fonda su presupposti di gravita' espressamente valutata minore dal legislatore (si tratta, come detto, di un mero illecito amministrativo) ma per giunta consente che tali presupposti siano unicamente enunciati in forma per lo piu' affatto generica nel decreto che dispone il "trattenimento" medesimo, senza possibilita' di riscontro da parte del giudice. Ancora, l'art. 14, comma 4, t.u. risulta inoltre in contrasto con l'art. 3 e con l'art. 111. della Costituzione nella parte in cui non consente al giudice procedente di svolgere autonomi accertamenti sulla concreta sussistenza di allegate ragioni che legalmente (come per esempio nel caso di una donna in stato iniziale di gravidanza o nel caso di chi abbia richiesto la sanatoria), escludono sia pure temporaneamente l'espellibilita' e dunque sarebbero tali da travolgere anche il "trattenimento" che su quel presupposto si fonda (poiche', disapplicato quel decreto prefettizio, anche il decreto questorile risulterebbe caducato). L'art. 14, comma 3, del medesimo t.u., e del pari l'art. 20 del regolamento (d.P.R. n. 394/1999) omettono di imporre che il questore (contestualmente alla trasmissione degli atti alla cancelleria del giudice della convalida) provveda anche a informare dell'avvenuto inizio del "trattenimento" (ossia dell'inizio della detenzione amministrativa) il difensore di fiducia eventualmente nominato dallo straniero o quello di ufficio desumibile dagli elenchi appositi. Cio' pare in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, poiche' l'omissione del tempestivo avviso non consente alla parte afflitta dalla misura di approntare le opportune difese col suo patrono con adeguata ponderazione. In proposito, non e' inutile ricordare che all'iniziale mancata previsione di assistenza obbligatoria di difensore si e' posto rimedio solo col decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del novembre 1999, norme di attuazione del testo unico sull'immigrazione. Tuttavia, l'articolo 20 del regolamento dispone (diversamente dall'art. 386, comma 2, c.p.p.) che solo lo straniero venga avvisato che nell'udienza di convalida sara' assistito da un difensore d'ufficio. Ma cio' significa che il difensore d'ufficio sara' designato solo successivamente, dal giudice, e avvisato piu' tardi dalla cancelleria, all'ultimo momento, come pure quello di fiducia. Appare allora evidente che il difensore non ha potuto colloquiare preventivamente con il suo assistito, ne' ha potuto predisporre un ricorso contro l'espulsione che, pur in presenza dei presupposti, avesse una qualche possibilita' di accoglimento. Il "trattenuto" vede percio' frustrata l'esperibilita' dell'unico rimedio che abbia qualche chance di utilita', ossia appunto il ricorso contro l'espulsione. Grave risulta percio' la menomazione concreta del diritto di difesa sotto il profilo della effettivita' . L'art. 14, comma 5, del medesimo t.u. omette di prevedere un termine massimo del "trattenimento" o detenzione amministrativa, in quanto esclude che il giudice possa accertare se la stessa persona trattenuta, in forza del medesimo decreto di espulsione, sia gia' stata "trattenuta" in precedenza per il periodo massimo di venti giorni, eventualmente prorogati. Cio' pare violare l'art. 3 della Costituzione. L'art. 14 inoltre impone al giudice di provvedere, con un unico atto, a convalidare il "trattenimento" e autorizzare il protrarsi di tale detenzione amministrativa fino al limite di venti giorni, prorogabili poi di altri dieci. Cio' rende evidente che al giudice, in contrasto con gli artt. 3, 13 e 111 della Costituzione, e' precluso di apprezzare nel caso concreto quale sia la durata, secondo una ragionevole stima, dell'allegata impossibilita' di accompagnamento immediato alla frontiera. Reputa invece il remittente che una norma rispettosa dei diritti costituzionali fondamentali non possa che devolvere al giudice della fattispecie la relativa valutazione, onde consentire il migliore possibile contemperamento, nel caso concreto, delle esigenze di tutela delle frontiere da un lato, e del sacrificio della liberta' personale della persona "trattenuta" dall'altro. Si osservi in proposito che un periodo di venti giorni di detenzione amministrativa e' pari al quadruplo del minimo edittale della (analogamente afflittiva) pena dell'arresto. Le questioni sopra sollevate risultano rilevanti per la decisione sulla convalida del "trattenimento", in quanto: l'adozione di una diversa procedura, e segnatamente di quella prevista dal codice di procedura penale per l'analogo caso dell'arresto, garantirebbe alla persona trattenuta la possibilita' di svolgere compiutamente le proprie difese, dopo un approfondito esame della situazione da parte della persona "trattenuta" e del suo difensore; cio' non e' invece attualmente possibile; la piena esplicazione del diritto di difesa, da un lato, e i poteri istruttori d'ufficio del giudice, consentirebbero a quest'ultimo di estendere il proprio controllo a elementi ulteriori rispetto alle mere enunciazioni contenute negli atti amministrativi sottoposti al suo vaglio solo formale ed estrinseco nonche' alle allegazioni della persona "trattenuta"; cio' non e' invece attualmente possibile; l'immediato avviso al difensore avrebbe consentito il previo incontro di costui con la persona "trattenuta" e quindi il libero e pieno esercizio di ogni ragionevole difesa; cio' non e' invece attualmente possibile; l'esistenza di un limite massimo di cumulo di periodi anche successivi di "trattenimento" consentirebbe al giudice di verificarne il concreto rispetto nel caso presente; cio' non e' invece attualmente possibile; il potere di determinare con prudente apprezzamento il tempo dell'allegata impossibilita' di accompagnamento coattivo consentirebbe al giudice di contenere in un termine anche inferiore ai venti giorni la durata massima del "trattenimento"; cio' non e' invece attualmente possibile. Qualora venisse riconosciuta fondata anche una sola delle censure qui illustrate, sarebbe allora possibile accertare l'insussistenza delle condizioni necessarie per la convalida e per il mantenimento della detenzione amministrativa, e nell'ultimo caso sarebbe inoltre possibile limitare il sacrificio della liberta' personale della persona "trattenuta". Accertata la non manifesta infondatezza delle questioni e considerata la loro rilevanza ai fini della decisione, vanno pertanto adottati i provvedimenti di cui alla parte dispositiva. Inoltre, non potendosi procedere alla convalida del "trattenimento", deve disporsi il rilascio immediato della persona "trattenuta".