IL TRIBUNALE

    A scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza in data
13 settembre 2000, nel procedimento promosso da Martini Angiolo (Avv.
Cerrai e Bartalena) contro I.N.P.S. (Avv. Pinto e Perani)

                            O s s e r v a

    Angiolo  Martini  e'  titolare di rendita Inail rapportata ad una
percentuale  inabilitante pari al 25% avendo contratto una tecnopatia
derivante  dalla  esposizione  lavorativa  ad  anilina  aromatica; in
considerazione  della medesima patologia egli era anche titolare, dal
1993,  dell'assegno ordinario di invalidita' a carico dell'Inps, oggi
soppresso  ai  sensi  dell'art. 1, comma 43, della legge n. 335/1995,
secondo cui "le pensioni di inabilita', di reversibilita' o l'assegno
ordinario   di   invalidita'  a  carico  dell'assicurazione  generale
obbligatoria   per   l'invalidita',  la  vecchiaia  e  i  superstiti,
liquidati   in  conseguenza  di  infortunio  sul  lavoro  o  malattia
professionale, non sono cumulabili con la rendita vitalizia liquidata
per  lo  stesso  evento  invalidante  a  norma  del testo unico delle
disposizioni per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie  professionali  approvato  con  decreto del Presidente della
Repubblica  30 giugno 1965, n. 1124, fino a concorrenza della rendita
stessa".
    La  ratio della disposizione (oggi modificata per quanto concerne
il  cumulo  delle  pensioni  di  reversibilita'  con  la  rendita  al
superstite  dall'art. 73  della  legge n. 338 del 2000) risiede nella
necessita' di impedire che, per il medesimo evento invalidante, siano
corrisposte  piu'  prestazioni  a  carico  di  enti diversi (cosi' in
motivazione Cass. 22 dicembre 2000, n. 16135), ancorche' si tratti di
forme  distinte  di  assicurazione  obbligatoria,  aventi finalita' e
natura diversa (risarcitoria quella gestita dall'Inail, previdenziale
quella gestita dall'Inps: v. Cass. n. 16135 cit.).
    Come  e'  noto, poi, le due provvidenze obbediscono a distinti (e
cumulati)  sistemi  di  finanziamento,  la  rendita  presupponendo il
pagamento  del  premio  e  la pensione o l'assegno il pagamento della
contribuzione,  sicche'  il  divieto  di  cumulo  in caso di medesimo
evento  invalidante finisce per connotare di inutilita' soggettiva il
versamento della contribuzione previdenziale.
    Sul  punto il giudice di legittimita' (Cass. ult., cit.) cosi' si
esprime:  "Cio'  risponde  ad  una  scelta  del legislatore, ispirata
essenzialmente  ad  un  notevole  rigore  finanziario  e giustificata
dall'esigenza di contenimento della spesa previdenziale, accentuatasi
all'epoca   della   riforma  pensionistica.  In  mancanza  di  questa
previsione  espressa opererebbe normalmente il cumulo, trattandosi di
due  assicurazioni  distinte  (...  omissis)  alimentate  da distinte
contribuzioni, tantopiu' che le prestazioni a carico dell'Inail hanno
una   connotazione   marcatamente   risarcitoria,  che  non  hanno  i
trattamenti  di  inabilita'  a  carico dell'Inps. Pero' in un momento
contingente di difficolta' della finanza pubblica il legislatore puo'
porre  la  regola  secondo cui il lavoratore assicurato e parimenti i
suoi  superstiti  possono,  per  cosi'  dire,  spendere  l'inabilita'
conseguente  ad  infortunio sul lavoro o a malattia professionale una
sola volta, senza che da quella inabilita' derivino, come conseguenze
sul  piano  previdenziale,  due distinte attribuzioni patrimoniali in
senso   lato  compensative  della  medesima  riduzione  di  capacita'
lavorativa e di guadagno".
    Dunque  e'  chiaro  che  la ragione del divieto di cumulo risiede
esclusivamente  nella esigenza di contenimento della finanza pubblica
previdenziale.  E'  chiaro,  cioe', che un diritto costituzionalmente
garantito   (art. 38)  viene  sacrificato  all'esigenza  di  limitare
l'esborso previdenziale. Non vi e' altra motivazione.
    E',  allora,  compito  di  questo  giudice, cosi' stando le cose,
verificare  se  la ragione di contenimento della spesa pubblica possa
immediatamente  colpire  provvidenze costituzionalmente garantite che
appartengono  all'impianto fondamentale del nostro ordinamento, posto
che  "l'Italia  e'  una  Repubblica  democratica  fondata  sul lavoro
(art. 1  Cost.),  "richiede  l'adempimento dei doveri inderogabili di
solidarieta'..,  economica e sociale (art. 2 Cost.) e deve assicurare
ai  lavoratori  i  mezzi  adeguati  "in caso di infortunio, malattia,
invalidita'...  "  (art. 38  Cost.);  o se l'incidere su attribuzioni
patrimoniali  ispirate  a  criteri  di  tutela del reddito in caso di
invalidita',  solidarieta'  sociale,  non  debba  piuttosto ritenersi
quale extrema ratio.
    Il  nostro  ordinamento costituzionale e', come e' noto, ispirato
ai  principia  del  c.d.  stato sociale, ancorche' una trascorsa mala
gestio  degli  strumenti  di  tutela  abbia posto in crisi, nei tempi
attuali,  tale  assetto; gli operatori del diritto conoscono le molte
vicende che hanno portato ad imporre rilevantissimi sacrifici proprio
alle categorie piu' deboli (cioe' ai pensionati ed agli invalidi): la
vicenda  della  c.d.  cristallizzazione e dell'integrazione al minimo
affidata  all'autorevole  interpretazione  della Corte costituzionale
(nn. 240/1993  e  495/1994) ha visto una conclusione amara realizzata
attraverso l'estinzione dei giudizi in corso, la limitazione di parte
del   diritto   affermato   dalla   giurisprudenza   consolidata,  la
rateizzazione  delle spettanze; la vicenda dei c.d. falsi invalidi (a
parte   la   catastrofe  giudiziaria)  ha  visto  una  indiscriminata
operazione   di   vera  e  propria  bonifica  in  danno  di  soggetti
debolissimi;   la  stessa  interpretazione  fornita  dall'Inps  sulla
questione  del  divieto  di  cumulo che ci occupa ha visto sopprimere
tutte  le  pensione  di reversibilita' sul presupposto - smentito dai
giudici  di  merito ed oggi anche dalla S.C. (v. loc. ult.cit.) - che
la  "morte"  fosse da ritenere "il medesimo evento invalidante" anche
nei confronti di chi avesse maturato in vita il diritto alla pensione
di vecchiaia.
    Insomma  tutto converge verso il convincimento che il risanamento
della   finanza   pubblica   sia  affidato  quasi  esclusivamente  al
legislatore  della  previdenza  e dell'assistenza ed in danno di quei
soggetti che, per ragioni di salute o di eta', non sono in condizioni
di produrre redditi sufficienti.
    Non  sfugge  a questo giudice che la Corte costituzionale in piu'
occasioni  (da  ultimo  Corte costituzionale n. 495/2000) ha ritenuto
legittimo  un  tale  tipo di intervento, sempre sul presupposto della
impellente  necessita'  di governare correttamente la spesa pubblica;
ma  non  sfugge  neppure  che  le  descritte  operazioni  di profonda
chirurgia  hanno  finito  per riguardare quasi sempre i soggetti piu'
deboli,  quelli  dotati  di  minore capacita' di resistenza, colpendo
dove  colpire e' piu' semplice. Tutti, infatti, ricordiamo che quando
l'applicazione  delle due note sentenze della Corte costituzionale in
tema  di  integrazione  al minimo e ricalcolo della reversibilita' si
diceva  comportasse  un  esborso  di circa trentaseimila miliardi, si
sapeva anche che l'evasione fiscale ammontava a duecentocinquantamila
miliardi:  qui  il  legislatore  di  uno  stato sociale - quale e' il
nostro  -  non  avrebbe  dovuto aver alcun dubbio su dove ricavare la
provvista per risanare i conti pubblici. Ma, come sappiamo, la scelta
e' caduta ancora una volta sui pensionati, probabilmente sull'onda di
istanze di tipo produttivistico che oggi tendono ad emarginare sempre
di piu' chi, per eta' o salute, non e' piu' competitivo od efficiente
(ancorche'  abbia  per  molti  anni  adempiuto,  per  un  salario  di
sopravvivenza, al dovere "di svolgere secondo le proprie possibilita'
e  la  propria  scelta, una attivita' od una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della societa'" (Art. 4 Cost.)
    E'  nozione  certamente  acquisita  quella  secondo  la  quale  i
principia  affermati  dalla  nostra  costituzione  si pongano secondo
criteri   di   priorita'   e  sicuramente  al  vertice  dell'impianto
costituzionale si collocano quelle regole rubricate nella parte prima
("principia   fondamentali"):   la   valenza   della   partecipazione
lavorativa,  il  dovere  di  solidarieta'  sociale  ed i principio di
eguaglianza  "di fatto" connotano indubbiamente il nostro ordinamento
e  lo qualificano come "stato sociale", nel senso di valorizzare come
assolutamente  prioritarie  le  esigenze  di  intervento  concreto in
favore dei soggetti piu' deboli.
    Ne'  tale  impianto  puo',  oggi,  essere  posto  in dubbio dalle
incalzanti  istanze aziendalistiche e produttivistiche che pretendono
di  suggerire diverse chiavi di lettura della nostra costituzione: la
scelta   del  costituente,  infatti,  originata  dalla  necessita  di
equilibrare  le  ragioni  dell'impresa  con  quelle  del lavoratore (
art. 41  Cost.), di assicurare comunque al lavoratore una vita libera
e  dignitosa  (art. 36 Cost.), di approntare i mezzi di sopravvivenza
all'invalido  (art. 38  Cost.),  anche  attraverso  la tutela diretta
della  salute (art. 32 Cost.), e' chiara nel senso indicato e connota
i  suoi fondamenti, fra l'altro, nel ripudio esplicito (art. 1 Cost.)
di  forme di governo inspirate a criteri di puro liberismo. Il che si
traduce  nella  affermazione  "forte"  della necessita' di assicurare
comunque  ai  soggetti  deboli  i  mezzi  necessari per una dignitosa
partecipazione alla vita sociale.
    In  tale  contesto  procurarsi  la  provvista  finanziaria per le
necessita'  di  bilancio  pubblico attingendo indiscriminatamente nel
settore tutelato dagli artt. 2, 3 e 38 della Costituzione rappresenta
indubbiamente  una operazione costituzionalmente scorretta, quando il
legislatore  non  dimostri  di  aver  escusso inutilmente anche altri
settori della economia pubblica.
    Se  dobbiamo  credere ai dati diffusi dai mezzi di comunicazione,
l'ammontare  annuo  dell'evasione  fiscale, per esempio, basterebbe a
confezionare piu' di una finanziaria (o di una riforma pensionistica)
solo che il legislatore prendesse atto della sussistenza del fenomeno
e  della  possibilita'  di  recuperare  quanto l'evasore sottrae alla
collettivita'  ed  in particolare a quei soggetti deboli (pensionati,
lavoratori  dipendenti, pubblici impiegati) che sono sottoposti ad un
regime rigido e severo di trattenuta alla fonte.
    Ma  a fronte di questa enorme provvista (il fenomeno e' sotto gli
occhi  di  tutti  ed appartiene alla nostra esperienza quotidiana) il
nostro  "stato  sociale"  rincorre  -  con  provvedimenti sempre piu'
ablativi  -  trattamenti pensionistici inferiori al milione al mese e
derivanti   addirittura   da   infortunio   sul   lavoro  o  malattia
professionale,  conseguenza  cioe' di un pregiudizio fisico cagionato
dalla  partecipazione  del  soggetto alla vita lavorativa collettiva.
Dunque  la  scelta  del legislatore del 1995 e' caduta sul lavoratore
invalido, su quel soggetto, cioe', che lavorando ha perso parte della
sua capacita' di produrre un reddito.
    Per  cio'  solo  l'art. 1,  comma  43. della legge 8 agosto 1995,
n. 335,  e'  sospetto  di  incostituzionalita'  con  riferimento agli
artt. 2, 3, 38 Cost.
    Ma  vi  e'  di  piu'.  Perche'  la  norma  e'  connotata  da  una
macroscopica irrazionalita'.
    Il divieto di cumulo, infatti, opera solo se l'invalidita' deriva
dal  medesimo  evento,  non  opera  se  gli  eventi  invalidanti sono
distinti.
    Immaginiamo,  allora,  che  un  soggetto  assicurato  subisca  un
infortunio   sul   lavoro  da  cui  derivi  una  inabilita'  al  100%
determinata  dalla  perdita  di  capacita' motoria ed immaginiamo che
questo stesso soggetto sia titolare di un assegno di invalidita' Inps
per una patologia cardiaca extralavorativa. Questo soggetto cumulera'
le due prestazioni.
    Immaginiamo, invece, che un diverso soggetto in conseguenza di un
grave  infortunio  perda  completamente la capacita' lavorativa: egli
non  avra'  diritto  al trattamento Inps perche' l'invalidita' deriva
dal medesimo evento invalidante.
    Si avranno due soggetti entrambi privi di capacita' lavorativa ai
quali  saranno  attribuiti trattamenti quantitativamente diversi solo
perche'  in  un  caso  gli  eventi  invalidanti  sono stato diversi e
nell'altro si e' trattato di un unico evento.
    L'irrazionalita'  di una norma che affida praticamente al caso la
misura del trattamento previdenziale e', dunque, agli occhi di tutti.
    Vi  e',  poi,  un ultimo argomento che evidenzia altri aspetti di
asistematicita'.
    L'art. 73  della  legge  n. 338  del  2000 (legge finanziaria) ha
stabilito  che  "a decorrere dal 1o luglio 2001. Il divieto di cumulo
di  cui  all'art. 1, comma 43, della legge 8 agosto 1995, n. 335, non
opera    tra    il    trattamento    di   reversibilita'   a   carico
dell'assicurazione   generale   obbligatoria  per  l'invalidita',  la
vecchiaia e i superstiti, nonche' delle forme esclusive esonerative e
sostitutive  della  medesima,  e  la  rendita  ai  superstiti erogata
dall'Istituto  nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro  o malattia professionale (Inail) spettante in caso di decesso
del  lavoratore  conseguente  ad  infortunio  sul  lavoro  o malattia
professionale  ai sensi dell'art. 85 del decreto del Presidente della
Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124".
    Qui  il  legislatore  della  finanziaria, probabilmente prendendo
atto  della evoluzione interpretativa fornita dai giudici di merito e
di  legittimita',  ha  escluso  il  divieto di cumulo fra pensione di
reversibilita'  e  rendita  al  superstite  e lo ha fatto tout court,
senza  conferire  piu'  alcun  rilievo  alla sussistenza del medesimo
evento  invalidante. In tal modo il dante causa di chi in vita avesse
goduto  dei  due  trattamenti cumulati (perche' decorrenti ante legge
n. 335)  continuera'  a percepire i due trattamenti di reversibilita'
ancorche'  attribuiti  al de cuius in conseguenza del medesimo evento
invalidante.
    Vero  e'  che  si  tratta di una regola "ad esaurimento", poiche'
vigendo  il  divieto di cumulo in vita fra qualche anno non si porra'
piu'  il  problema del cumulo della reversibilita', ma e' altrettanto
vero  che in attesa che il sistema operi "a regime" si viene a creare
una  evidente  disparita'  di trattamento fra soggetti che si trovino
nelle   medesime   condizioni,   privilegiando   il   trattamento  di
reversibilita' rispetto a quello diretto.
    La  rilevanza  della questione e' in re ipsa essendo pacifico che
il  ricorrente  avesse  maturato i due trattamenti in conseguenza del
medesimo evento invalidante.