IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE

    Letti  gli  atti  del  procedimento  in epigrafe rileva e osserva
quanto segue.
                        Antefatti processuali
    1. - Il  presente  processo  e'  stato  avviato  con richiesta di
rinvio  a giudizio depositata il 30 aprile 1998 nella cancelleria del
giudice per l'udienza preliminare.
    Nel  corso  del  processo  veniva  disposta  e espletata perizia.
All'udienza  del 1o giugno 2000 il pubblico ministero formulava e sue
conclusioni.  I difensori iniziavano le loro richieste ma, non ancora
conclusesi  le  medesime,  a  seguito  di  rinvio ad altra udienza, i
sopravvenuti mutamenti normativi conducevano il giudice per l'udienza
preliminare  a  rilevare la sua incompatibilita' a decidere per avere
egli  in  precedenza  svolto  funzioni  di  giudice  per  le indagini
preliminari nello stesso processo.
    2. - Successivamente,  all'udienza  del  15 marzo 2001, davanti a
questo  giudice  per  l'udienza preliminare, le difese sollevavano la
presente questione di costituzionalita'.
    Pertanto - ex art. 18.1 lettera B codice di procedura penale - si
separava  la  trattazione  delle questioni - le quali venivano decise
con  separata  sentenza  - inerenti ai capi di imputazione diversi da
quelli  interessati  dalla  questione  di legittimita' costituzionale
dall'esame della presente questione.
    Tale  questione  riguarda gli imputati e le (residue) imputazioni
sottoindicate.
    Bonaventura   Ambrogio,   Sinatra  Innocenzo,  Nicotra  Giovanni,
Castrogiovanni Francesco, imputati:
        A)  del  delitto  di  bancarotta  fraudolenta  p.  e p. dagli
artt. 110,  81,  216 n. 1, 223, comma 2 n. 1 in relazione al disposto
dell'art. 2621  codice  civile,  perche', in concorso tra loro, nella
qualita'   il   Bonaventura,   di   Presidente   del   consiglio   di
amministrazione  dal  1987  al  1992,  il  Sinatra, nella qualita' di
Presidente  fino  al  1986  e  di  consigliere  delegato  e direttore
generale  dal  1987 al 1989, il Nicotra nella qualita' di consigliere
delegato  dal  27 dicembre  1989  all'aprile  1990, il Castrogiovanni
nella  qualita'  di  consigliere  dal  1988  al  1992  della Societa'
regionale  idrotermale  S.p.a.,  posta in amministrazione controllata
dal  5 aprile  1990, dichiarata fallita in data 12 novembre 1992, con
piu'  atti esecutivi della medesima risoluzione criminosa, negli anni
in  cui ricoprivano le cariche sopraindicate, nei bilanci concernenti
gli  anni 1986, 1987, 1988, 1989, 1990, nelle relazioni e nelle altre
comunicazioni   sociali,   fraudolentemente   esponevano   fatti  non
rispondenti  al  vero  sulle  condizioni  economiche  della  societa'
procedendo,  nel bilancio relativo all'anno 1989, a rivalutazioni non
giustificate   del   terreno  acquistato  dalla  SRI  S.p.a  in  data
23 settembre  1988  dai  coniugi  Leonardi  -  De  Maria indicando in
bilancio  un  valore  del terreno pari a 4.171.176.689 a fronte di un
valore   del   terreno   pari   a  lire  980.000.000,  nel  contempo,
nascondevano  in  tutto  o in parte le condizioni medesime consumando
una notevole parte del patrimonio della societa' S.R.I. in operazioni
di  grave  imprudenza  -  quali  l'acquisto  di  beni  strumentali di
cospicuo    valore    inadeguati   alle   esigenze   dell'azienda   e
sproporzionati  rispetto  alle possibilita' economiche della stessa -
astenendosi  dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento e
concorrevano  a  cagionare  od  aggravare  il dissesto della societa'
mediante  l'inosservanza  degli  obblighi loro imposti dalla legge, e
segnatamente, astenendosi dal deliberare la riduzione del capitale ai
sensi dell'art. 2447 codice civile nonostante che si fosse verificata
la perdita di oltre un terzo del capitale.
    A  tale  scopo  criminoso provvedevano a redigere i bilanci della
societa' in modo tale che:
        1. risultavano   contabilizzati   al   libro  cespiti,  nella
medesima categoria, i beni ammortizzati con aliquote diverse;
        2. per  i  cespiti  alienati  non  provvedevano a stornare la
rivalutazione del costo storico del fondo ammortamenti;
        3. omettevano di effettuare un inventario fisico dei cespiti;
        4. capitalizzavano   quali  oneri  pluriennali  le  spese  di
pubblicita'   sostenute   per  il  mantenimento  dell'immagine  della
societa',  per  gli  abbuoni  passivi  concessi  ai clienti nel corso
dell'esercizio, i premi su vendita concessi ai clienti;
        5. valorizzavano i prodotti finiti al prezzo di mercato senza
tenere  conto del principio civilistico secondo il quale le rimanenze
devono  essere  valutare al minore valore tra il prezzo d'acquisto ed
il ricavo della vendita;
        6. valorizzavano   le  materie  prime  all'ultimo  prezzo  di
acquisto;
    In   Acireale,  dal  1986  fino  alla  sentenza  dichiarativa  di
fallimento del 12 novembre 1992
    Zangara Antonino, Torchia Salvatore, Algozzini Rosario:
        C.1) del reato p. e p . dagli artt. 110, 40 c.p.v. c.p., 223,
comma 2 n. 1 in relazione al disposto dell'art. 2621 c.c L.F. perche'
in  concorso  tra  loro,  nella qualita' di Presidente, Zangara, e di
componenti, gli altri, del Collegio Sindacale non impedendo, mediante
l'esercizio  dei  poteri loro spettanti, la commissione del reati cui
al  capi A)  da  parte  degli  organi  societari della S.R.I. S.p.a.,
concorrevano nella commissione dei predetti reati.
    In  Acireale,  dal 18 dicembre 1986 alla sentenza dichiarativa di
fallimento del 12 novembre 1992.
                   Sulla rilevanza della questione
    1. - Nella  richiesta  di  rinvio  a  giudizio  si  contesta agli
imputati  (capo A  delle  imputazioni) di avere concorso con le false
comunicazioni  sociali  indicate nel capo di imputazione a "cagionare
od aggravare il dissesto della societa'".
    1.1. - Il  perito  nominato dal giudice per l'udienza preliminare
ha  escluso  - sulla base di adeguate argomentazioni - l'esistenza di
un  nesso  di  causalita'  tra  le  ipotesi  di  falsita' nei bilanci
contestate al capo A della rubrica ed il fallimento della societa'.
    1.1.1. - Con  riguardo  alla rivalutazione del terreno contestata
la  relazione del perito conclude "non esiste alcuna correlazione tra
il  dissesto aziendale e le rivalutazioni in oggetto. L'effetto delle
rivalutazioni e' stato quello unicamente di esporre a bilancio minori
perdite  (e  cioe' maggiori componenti positivi nel conto economico e
maggiori  attivita' nello stato patrimoniale per un importo pari alla
somma delle due rivalutazioni e cioe' lire 3.800.000.000".
    1.1.2. - In  generale  il  perito  conclude:  "Le valutazioni non
corrette   del  patrimonio  sopra  richiamate  non  sono  in  diretta
correlazione  col dissesto e le relative cause dello stesso" (pag. 23
della relazione).
    1.2. - E'   stata  affermata  in  dottrina  la  necessita'  della
esistenza  di  un nesso di condizionamento tra falsita' nei bilanci e
dissesto della societa'.
    1.2.1. - Secondo   alcuni   autori,  nel  delitto  di  bancarotta
fraudolenta  il  quid  novi rispetto al reato societario va ravvisato
nel  dissesto  della  societa',  vale  a  dire  nel grave pregiudizio
all'impresa,  che  la dichiarazione di fallimento contribuisce a fare
emergere.
    Tale  grave  pregiudizio  dovrebbe  intendersi  come  causato dal
pregresso  reato societario secondo le consuete regole applicabili in
via  generale  in  tema di causalita', al di fuori qualsiasi criterio
presuntivo.
    In  questa  stessa  prospettiva il disegno di legge di riforma di
reati  societari (cd. progetto Mirone), mira (art. 10) a "riformulare
le  norme  sui  reati  fallimentari  che  richiamano reati societari,
prevedendo  che la pena si applichi alle sole condotte integrative di
reati   societari  che  concorrono  a  cagionare  il  dissesto  della
societa'".
    1.2.2. - Secondo  altri  autori,  pur  richiedendosi  il nesso di
causalita' tra reato societario e dissesto, si perverrebbe, invece, a
una  inversione  dell'onore  della  prova,  con  la  conseguenza  che
dovrebbe  essere l'imputato a dimostrare l'insussistenza del nesso di
causalita'.
    1.3. - Deve  tuttavia  registrarsi  che  la  giurisprudenza della
Corte di cassazione (sentenze nn. 242781, 6094/86, 5073/87 e (sez. 5,
n. 854  del  18 marzo  1999,  c.c.  18 febbraio 1999) e' orientata in
senso contrario.
    Infatti  afferma che per la sussistenza del delitto di bancarotta
in  esame  non e' richiesta la presenza di un nesso eziologico tra la
condotta  degli  amministratori  o  degli altri soggetti indicati dal
n. 1  dell'art. 2621  cod. civ. - che, nelle relazioni, nei bilanci o
in  altre comunicazioni sociali, espongano fraudolentemente fatti non
rispondenti  al  vero  in  ordine  alla  costituzione della societa',
ovvero  nascondano  -  in  tutto  o  in  parte - fatti concernenti le
condizioni medesime - e il successivo fallimento.
    Non   emergono   persuasive   argomentazioni  per  sostenere  una
interpretazione  delle  disposizioni  normative  citate  nei  capi di
imputazione  che  sia  diversa  da  quella  seguita  dalla  Corte  di
cassazione  nelle  sentenze  sopra  citate,  cosi' da pervenire a una
reinterpretazione dei loro contenuti di tali disposizioni che conduca
a  ritenerle  sicuramente compatibili con il principio costituzionale
che si va a considerare sub C.
    1.4. - Sulla  base  di  quanto  suesposto  sorge  questione - nei
termini  che si vanno ad esporre sub C - se - interpretato secondo la
giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  - il combinato disposto
dell'art. 223.2  n. 1  del  regio  decreto  16  marzo  1942  n. 267 e
dell'art. 2621  del codice civile sia compatibile con l'art. 27 della
Costituzione  -  e,  stante quanto precisato sub B.1.1 e sub B.1.3..,
tale  questione e' rilevante al fine di decidere il caso in esame nel
presente   processo   penale   poiche'   inerisce  alla  legittimita'
costituzionale della fattispecie normativa incriminatrice.
          Sulla non manifesta infondatezza della questione
    La questione di legittimita' costituzionale che si va a sollevare
non  appare  manifestamente  infondata alla luce delle considerazioni
che seguono.
    1. - La  Corte  costituzionale  con  le  sentenze  n. 364/1988  e
n. 1085/1988 Corte costituzionale (ma gia' sentt. nn. 3/56, 54/64, 20
e  21/71,  364/88  e  vedasi  anche  Corte  di  cassazione penale, I,
3 luglio   1995),   ha  chiarito  il  significato  del  principio  di
personalita'  della  responsabilita'  penale  veicolato  dall'art. 27
della Costituzione.
    Nella  sentenza  n. 364/1988 ha affermato, in particolare, che il
principio  di  colpevolezza  sarebbe indispensabile "per garantire al
privato  la  certezza  di  libere  scelte di azione: per garantirgli,
cioe',  che sara' chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da
lui  controllabili  e  mai  per  comportamenti che solo fortuitamente
producono conseguenze penali vietate".
    1.1. - Una  prima  implicazione  di tale principio e' evidenziata
dalla  suindicata sentenza, dove precisa che "il comma 1 dell'art. 27
Cost.  contiene  un  tassativo  divieto  di responsabilita' per fatto
altrui".
    1.2. - Una seconda, piu' ampia, implicazione di tale principio e'
costituita dalla esclusione della responsabilita' penale per un fatto
proprio  incolpevole  e  viene  cosi'  esplicitata  dalla Corte: "per
quanto  si  usino  le  espressioni  fatto proprio e fatto altrui, che
possono  indurre in errore, in realta', in tutti i lavori preparatori
relativi  al  comma 1 dell'art. 27 Cost., i costituenti mirarono, sul
piano  dei  requisiti  d'imputazione  del  reato, ad escludere che si
considerassero   costituzionalmente   legittime  ipotesi  carenti  di
elementi  subiettivi  di  collegamento  con  l'evento  e,  sul  piano
politico,  a  non  far  ricadere  su  estranei  colpe altrui (...) il
comma 1   dell'art   27   Cost.  contiene  un  tassativo  divieto  di
responsabilita'  per  fatto  altrui (...) cio' deriva dall'altro, ben
piu' civile principio, di non far ricadere su di un soggetto, appunto
estraneo  al  fatto  altrui,  conseguenze  penali  di colpe a lui non
ascrivibili.  Come  e'  da  confermare  che  si  risponde  penalmente
soltanto  per  il  fatto  proprio  purche'  si  precisi che per fatto
proprio  non  si  intende  il fatto collegato al soggetto, all'azione
dell'autore, dal mero nesso di causalita' materiale... ...ma anche, e
soprattutto,  dal  momento  subiettivo,  costituito in presenza della
prevedibilita'  ed  evitabilita'  del risultato vietato, almeno dalla
colpa in senso stretto".
    2. - L'idea  soggiacente  alle  due  suesposte  implicazioni  del
principio  di  personalita'  e' che una previsione di responsabilita'
richiede  che,  per  quel  che  riguarda  soggetto  imputato, via sia
"almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi significativi
della fattispecie tipica".
    3. - Nella  fattispecie  normativa  in  esame  il  dissesto (o il
fallimento) della societa' e' un elemento che:
        (a)  contribuisce  a delineare il disvalore della fattispecie
di bancarotta fraudolenta;
        (b)   produce   un  aggravamento  della  pena  rispetto  alla
fattispecie incriminatrice delineata nell'art. 2621 codice civile.
    4. - Pertanto non pare ingiustificato assumere che la fattispecie
incriminatrice  in  esame configura una responsabilita' per fatto non
proprio  ponendo  a  carico del soggetto (con effetti di aggravamento
della  pena  o  di  applicazione di una diversa fattispecie normativa
astratta  incriminatrice)  un  evento  pur  in  assenza  di  un nesso
eziologico fra tale evento la condotta dello stesso soggetto.
    In   altri   termini,  si  profila  un  caso  nel  quale  non  e'
individuabile  una  definita correlazione fra grado di colpevolezza e
specifica  responsabilita'  penale,  e l'agente appare esposto ad una
reazione  punitiva  determinata  da  qualcosa  di  diverso  dalla sua
azione.