IL TRIBUNALE

    A  scioglimento della riserva formulata all'udienza del 10 aprile
2001  nel  procedimento  n. 369/00  r.g. promosso da: Mariotti Anice,
avv. Maria Paola Angellieri, ricorrente;
    Contro:   Poste   Italiane  S.p.a.,  avv.  Cantelli  e  Sciascia,
convenuto;
    Ha pronunciato la presente ordinanza, osservando quanto segue in

                           Fatto e diritto

    Con  ricorso del 4 febbraio 2000 diretto al giudice del lavoro di
Parma,  la  sig.ra Anice Mariotti, dopo aver premesso di essere stata
dipendente  di  Poste  Italiane  dal  1988 al 1997, osservava che, in
applicazione  dell'art. 25  comma 4, del decreto del Presidente della
Repubblica  4 agosto  1990, n. 335 (che prevedeva aumenti stipendiali
legati  all'anzianita' di servizio per il triennio 1988/1990), le era
stata  riconosciuta una maggiorazione stipendiale di L. 214.000 annue
a  far  data  dal  1  gennaio  1989; tale accordo di comparto era poi
prorogato  fino  al  31 dicembre 1993 (art. 7, comma 1, decreto-legge
19 settembre  1992, n. 384, convertito nella legge n. 438/1992), data
entro  la  quale  la  sig.ra  Mariotti  aveva maturato cinque anni di
anzianita' di servizio, che le davano titolo a percepire, ex comma 5,
art. 25,  d.P.R.  cit., l'ulteriore aumento di L. 140.000 annue a far
tempo  dal  25 gennaio  1993  (data  di compimento del quinto anno di
servizio);  tale  aumento  era  pero'  negato  da  Poste Italiane. La
societa'  si  costituiva  chiedendo il rigetto del ricorso poiche' il
tenore  letterale e logico dell'art. 25, decreto del Presidente della
Repubblica  4 agosto  1990, n. 335, e' nel senso di pattuire un unico
aumento   nel   corso   del  triennio  contrattuale  di  riferimento,
rapportato  all'anzianita'  di  servizio  a  quel momento maturata; e
dunque  deve  -  come e' stato correttamente fatto - essere applicato
una  sola  volta,  nell'ambito  del  periodo  1988/1990,  non  avendo
carattere "dinamico" o comunque in tal senso prorogabile.
    Nel corso del giudizio la legge n. 388 del 23 dicembre 2000 (c.d.
legge  finanziaria  per  il 2001) pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 302  del  29 dicembre 2000, all'art. 51, comma 3, ha introdotto la
seguente   "interpretazione   autentica":  "L'art. 7,  comma  1,  del
decreto-legge    19 settembre    1992,    n. 384,   convertito,   con
modificazioni,  dalla  legge  14 novembre 1992, n. 438, si interpreta
nel senso che la proroga al 31 dicembre 1993 della disciplina emanata
sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983,
n. 93,  relativi  al  triennio  1  gennaio 1988-31 dicembre 1990, non
modifica  la  data  del  31 dicembre  1990,  gia'  stabilita  per  la
maturazione  delle  anzianita'  di  servizio prescritte ai fini delle
maggiorazioni  della retribuzione individuale di anzianita'. E' fatta
salva l'esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della
presente legge".
    Sulla  base  di  tale  intervento  normativo  il  ricorso sarebbe
pertanto  da  decidersi  in  senso  negativo;  la  ricorrente solleva
tuttavia eccezione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, comma
3,  legge  n. 388  del 23 dicembre 2000. Ritiene il giudicante che le
questioni   di   legittimita'   costituzionale   sollevate  non  sono
manifestamente infondate.
    Va  premesso  che la normativa cui fare riferimento e' l'art. 25,
commi  4  e  5,  del decreto del Presidente della Repubblica 4 agosto
1990,  n. 335,  e  l'art. 7,  comma 1, del decreto-legge 19 settembre
1992, n. 384.
    L'art. 25 cit. stabilisce testualmente:
        "4.  A  decorrere  dal  1  ottobre 1990, al personale che nel
triennio   contrattuale  abbia  maturato  cinque  anni  di  effettivo
servizio   continuativo  nella  stessa  amministrazione  competono  i
seguenti importi annui, da inserire nella retribuzione individuale di
anzianita': [segue importi].
    5.   I   suddetti  importi  al  compimento  del  decimo  anno  si
raddoppiano,  al  compimento  del  quindicesimo  anno  si triplicano,
ecc.".
    L'art. 7,  comma  1,  del  decreto-legge  n. 384/1992 (convertito
nella  legge  14 settembre  1992,  n. 438)  ha  prorogato  la vigenza
dell'accordo di comparto ora citato, stabilendo che:
        "1.   Resta  ferma  sino  al  31 dicembre  1993,  la  vigente
disciplina  emanata  sulla base degli accordi di comparto di cui alla
legge   29 marzo   1983,   n. 93,   e   successive   modificazioni  e
integrazioni. I nuovi accordi avranno effetto dal 1 gennaio 1994. Per
l'anno  1993  al  personale  destinatario  dei  predetti  accordi  e'
corrisposta  una  somma  forfettaria di L. 20.000 mensili per tredici
mensilita'. [omissis].
    3. Per l'anno 1993 non trovano applicazione le norme che comunque
comportano  incrementi  retributivi in conseguenza sia di automatismi
stipendiali,  sia  dell'attribuzione  di  trattamenti  economici, per
progressione  automatica  di  carriera,  corrispondenti  a  quelli di
funzioni superiori, ove queste non siano effettivamente esercitate".
    Dal  testo  letterale  della norma sembra potersi argomentare che
l'accordo  di  comparto  continua  a  valere  anche per il triennio 1
gennaio   1991-31 dicembre   1993,   pur   restando  per  cosi'  dire
"congelata"  la decorrenza dei miglioramenti economici conseguenti ad
automatismi  stipendiali  anche  legati a progressioni automatiche di
carriera  (come  per esempio il caso in esame, ovvero l'indennita' di
contingenza  o  di  vacanza  contrattuale):  in  questi casi lo Stato
riconosce   forfettariamente   ai   propri  dipendenti  la  somma  di
L. 20.000.
    Tuttavia   il   legislatore   introduce   una   norma   che   pur
qualificandosi   come   di   interpretazione  autentica,  in  realta'
introduce una vera e propria modifica legislativa che pare ledere sia
il  principio  di cui all'art. 3 della Costituzione di ragionevolezza
ed   uguaglianza  di  trattamento,  sia  gli  artt. 101,  102  e  104
interferendo  con  funzioni  costituzionalmente  riservate  al potere
giudiziario,  sia l'art. 24 della Costituzione nel senso di creare un
discrimine nella tutela giudiziaria riservata a tutti i cittadini.
    Va  osservato  anzitutto  che  in  ordine all'interpretazione del
citato  art. 7, comma 1, decreto-legge n. 384/1992 non esiste (ne' e'
esistito)   contrasto   giurisprudenziale.   La   giurisprudenza  sia
ordinaria   (Corte   d'Appello   di   Bologna   31 maggio  2000)  che
amministrativa  (tra  le  ultime  Consiglio  di  Stato  n. 1857/1999,
n. 446/2000,  n. 2675/2000)  ha  sempre  ritenuto  che  la proroga al
31 dicembre  1993 riguardasse l'intera disciplina contrattuale di cui
agli  accordi  di  comparto  relativi  ai  vari  settori del pubblico
impiego, e, di conseguenza, anche delle norme dei singoli accordi che
regolamentano la maturazione della maggiorazione R.I.A.
    La Corte costituzionale ha anch'essa interpretato l'art. 7, comma
1,  decreto-legge n. 384/1992 affermando: "l'art. 7, primo comma, del
decreto-legge  n. 384  del  1992  prevede  una  deroga  eccezionale e
temporanea  alla  regola della ordinaria successione della disciplina
derivante dagli accordi di comparto nel pubblico impiego stipulati ai
sensi  della  legge  n. 93  del  1983.  Piu'  precisamente, la regola
ordinaria  ora  considerata  e' posta dall'art. 13 della legge-quadro
sul  pubblico  impiego  (riprodotta  testualmente nell'art. 4, ultimo
comma,  della  legge regionale 25 giugno 1984, n. 33: Norme attuative
della  legge quadro sul pubblico impiego), il quale, nel prevedere la
durata triennale degli accordi (primo comma), pone, a garanzia di una
ordinata  successione  nel  tempo  della disciplina contrattuale, una
norma  di chiusura per la quale l'efficacia degli accordi applicabili
in  un dato momento va conservata in via provvisoria sino all'entrata
in  vigore  dei  nuovi accordi, fermo restando che questi ultimi, una
volta stipulati e resi efficaci, "si applicano dalla data di scadenza
dei  precedenti  accordi"  (secondo  comma). Per ragioni attinenti al
perseguimento  di una rigorosa politica di contenimento del disavanzo
finanziario  nel  settore pubblico, tale ultrattivita' dell'efficacia
degli  accordi  di  comparto,  prevista  dall'art. 13 come situazione
provvisoria  in  attesa dell'applicabilita' dei successivi contratti,
viene  imposta  come situazione stabile sino al 31 dicembre 1993, con
riferimento  a  tutti  i  rapporti  di  lavoro dipendente del settore
pubblico,  in  virtu'  dell'art. 7,  primo  comma,  del decreto-legge
n. 384 del 1992.
    In  altri  termini,  l'articolo  da ultimo menzionato prevede una
sospensione  della  regola  posta dall'art. 13 della legge-quadro sul
pubblico  impiego,  stabilendo un regime derogatorio secondo il quale
"la  vigente  disciplina"  derivante dagli accordi di comparto "resta
ferma  sino  al  31 dicembre  1993"  con  la conseguenza che "i nuovi
accordi avranno effetto dal 1 gennaio 1994".
    In  tal modo, muovendo dal presupposto di fatto, corrispondente a
realta',  riguardo  al  non ancora avvenuto rinnovo generalizzato dei
contratti   nazionali  del  pubblico  impiego  relativi  al  triennio
1991-1993  e,  quindi,  partendo dalla corretta considerazione che al
momento   gli  accordi  vigenti  erano  quelli  relativi  al  periodo
1988-1990,  l'art. 7,  primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992
ha   disposto   per  questi  ultimi  la  stabilizzazione  della  loro
ultrattivita'  sino  al  31 dicembre  1993  e,  conseguentemente,  ha
spostato ex lege l'inizio di efficacia degli accordi nuovi" (rispetto
a  quelli  relativi  al  periodo  1988-1990) al 1ogennaio 1994. Cosi'
interpretata,   tale   norma   eccezionale,   dettata  dall'emergenza
economica,   e'   coerente   con   le  altre  disposizioni  contenute
nell'art. 7 del ricordato decreto-legge, le quali concorrono con essa
a  realizzare  una  finalita'  di  sostanziale  cristallizzazione del
globale trattamento economico in atto dei dipendenti pubblici.
    A  tale scopo, infatti, sono diretti: il blocco per tutto il 1993
degli  incrementi  retributivi  derivanti  da automatismi stipendiali
(art. 7,  secondo  e  terzo  comma),  il  contenimento  dei  fondi di
incentivazione  relativi al 1993 entro i limiti degli stanziamenti di
bilancio   stabiliti   per   il   1991  (art. 7,  quarto  comma),  il
congelamento  sui  valori  sussistenti nel 1992 delle indennita', dei
compensi  e delle gratifiche che (art. 7, quinto comma) e, infine, la
variazione  delle  indennita'  di missione e di trasferimento entro i
limiti  coincidenti  con  il  tetto programmato d'inflazione (art. 7,
sesto comma).
    L'art. 7 contiene, in altri termini, una serie di norme diretta a
colpire  tutti  gli  elementi significativi del trattamento economico
dei  dipendenti  pubblici  e  tutti  i  contratti  che  a  questi  si
riferiscono"  (Corte  costituzionale  1  luglio  1993,  n. 296, e con
analogo contenuto Corte costituzionale 31 dicembre 1993, n. 496).
    La  Corte  costituzionale dunque ha gia' avuto modo di esprimersi
sul  citato  articolo  proprio  nel  senso di considerarne la globale
ultrattivita';  e  da  cio'  discende  che  non  vi era nessuna reale
necessita'  di  una  norma  di interpretazione autentica dell'art. 7,
primo comma   cit.,  e  percio'  in  realta'  la  disposizione  della
finanziaria   2001   introduce   una   nuova  regolamentazione  della
fattispecie dedotta in giudizio.
    Una  legge  di  interpretazione  autentica dovrebbe infatti avere
l'unico compito di chiarire il senso delle norme preesistenti, ovvero
di  imporre una delle possibili variabili di senso compatibili con il
tenore  letterale  della norma interpretata, sia al fine di eliminare
incertezze  interpretative,  sia  per  rimediare  ad  interpretazioni
giurisprudenziali  divergenti  con  la  linea di politica del diritto
perseguita  dal legislatore; di talche' "il legislatore puo' adottare
norme  che precisino il significato di altre disposizioni legislative
non    solo    quando   sussista   una   situazione   di   incertezza
nell'applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali,
ma  anche  in  presenza  di  un  indirizzo  omogeneo  della  Corte di
cassazione,  quando  la  scelta  imposta  dalla  legge rientri tra le
possibili varianti di senso del testo originario, con cio' vincolando
un significato ascrivibile alla norma anteriore (v., tra le altre, le
sentenze  n. 311  del 1995 e n. 397 del 1994 e l'ordinanza n. 480 del
1992)" (Corte costituzionale 22 novembre 2000, n. 525).
    Ma  tale  strumento  deve essere usato con estrema oculatezza, in
quanto  incide sul principio di certezza del diritto, dal momento che
il  cittadino  vede  modificarsi retroattivamente (avendo le norme di
interpretazione  autentica  efficacia  ex tunc) una situazione che lo
riguarda.
    "In  proposito  questa  Corte  ha individuato, oltre alla materia
penale,  altri  limiti,  che  attengono  alla  salvaguardia  di norme
costituzionali (v., ex plurimis, le citate sentenze n. 311 del 1995 e
n. 397 del 1994), tra i quali i principi generali di ragionevolezza e
di  uguaglianza,  quello della tutela dell'affidamento legittimamente
posto   sulla  certezza  dell'ordinamento  giuridico,  e  quello  del
rispetto   delle  funzioni  costituzionalmente  riservate  al  potere
giudiziario  (cio' che vieta di intervenire per annullare gli effetti
del  giudicato o di incidere intenzionalmente su concrete fattispecie
sub iudice).
    In    questa    sede    occorre    in   particolare   soffermarsi
sull'affidamento  del  cittadino nella sicurezza giuridica; principio
che,  quale  elemento  essenziale  dello  Stato  di diritto, non puo'
essere   leso   da   norme   con  effetti  retroattivi  che  incidano
irragionevolmente  su  situazioni regolate da leggi precedenti (v. le
sentenze  n. 416  del 1999 e n. 211 del 1997)". (Corte costituzionale
22 novembre 2000, n. 525).
    Proprio con riferimento a tali principi l'art. 51, comma 3, della
legge  n. 388  del  23 dicembre  2000  introduce non gia' una diversa
interpretazione,   ma   proprio   una  diversa  disciplina  giuridica
dell'istituto  della  "RIA",  ponendosi  in  contrasto  con  principi
costituzionali  di  ragionevolezza  ed  eguaglianza di cui all'art. 3
della Costituzione.
    Inoltre,  nel  fare salve le pronunce giurisdizionali emesse alla
data   di   entrata  in  vigore  della  norma,  crea  una  disparita'
ingiustificata  di  trattamento  tra  coloro  che  hanno  gia'  adito
l'autorita'  giudiziaria  ottenendo  una  pronuncia  favorevole  alla
rivalutazione  (e dunque nel concreto maggiori emolumenti economici),
e  coloro  che  sono sub iudice in questo momento, ovvero non l'hanno
ancora adito.
    Sotto quest'ultimo aspetto, poi, la normativa sopra menzionata si
pone  in  contrasto  con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, poiche'
viene sostanzialmente vanificato il diritto del cittadino alla tutela
giurisdizionale.
    In  questo  caso  infatti  lo  ius  superveniens  non soddisfa le
richieste   degli   interessati   e   si   pone   in   contrasto  con
l'interpretazione giurisprudenziale ad essi favorevole, stabilendo di
fatto l'estinzione dei processi in corso (ovvero la soccombenza negli
stessi),  e  si  opera cosi' da parte del legislatore una sostanziale
vanificazione  della  via giurisdizionale, intesa quale mezzo al fine
dell'attuazione  di un preesistente diritto; e' percio' da ravvisarsi
la  violazione  del  diritto  di  azione,  di  cui  all'art. 24 della
Costituzione  (cfr.  Corte  costituzionale  n. 123/1987; n. 103/1995,
cit.  e  Cass.  2 maggio  1996,  ord.  in  Gazzetta  Ufficiale, serie
speciale del 18 dicembre 1996). Sotto i profili, teste' enunciati, e'
possibile  anche  ritenere  la  sussistenza  della  violazione  degli
artt. 35,  secondo comma,  e  36,  primo comma,  ove  viene  di fatto
eliminata dall'ordinamento la norma che premiava in termini economici
l'anzianita'  di  servizio  del  lavoratore  pubblico  incentivandone
l'elevazione   professionale,  e  rapportando  la  retribuzione  alla
"qualita'" del lavoro svolto dallo stesso.
    Sotto  altro  profilo,  il dubbio di costituzionalita' investe la
normativa  censurata  per  quanto  concerne l'estinzione di fatto dei
giudizi pendenti, cui deve conseguire la compensazione delle spese, o
peggio, la condanna del ricorrente.
    Il  contrasto  si  pone  non  solo con riguardo agli artt. 3 e 24
della  Costituzione,  ma  anche  rispetto  agli artt. 102 e 113 della
Costituzione,  poiche'  l'estinzione  necessariamente  automatica  di
tutti  i  giudizi  pendenti  con la compensazione delle spese (ovvero
addirittura  con la condanna del ricorrente, in quanto ex lege non si
e'  avuto  il  riconoscimento  del  diritto  e quindi una soccombenza
virtuale  delle  Poste, ma, al contrario, una negazione dello stesso,
con  soccombenza  virtuale  del lavoratore), realizza una illegittima
interferenza  del potere legislativo nella sfera della giurisdizione,
non  potendo il giudice neanche accertare, pur sotto il profilo della
soccombenza  virtuale,  se  sussistono  i presupposti per la relativa
declaratoria,  tenuto  conto  che  la dichiarazione di estinzione del
giudizio  per  cessazione della materia del contendere e' un fenomeno
di  carattere  sostanziale e non meramente processuale che il giudice
deve   poter  valutare  anche  sotto  il  profilo  della  soccombenza
virtuale.
    D'altro  lato,  non  potendo  il  giudice decidere sulle spese in
senso  favorevole  al  ricorrente  (in  quanto soccombente), la legge
finisce col sopprimere il diritto dell'interessato, anche per il caso
di  fondatezza  della  sua  domanda,  a  vedersi  tenuto  indenne dal
pagamento,  al  proprio difensore, delle spese processuali sostenute,
anche  se  anticipate all'avvocato, con la conseguente violazione del
principio  che  le  spese  non  possano  gravare  sulla  parte che ha
ragione,  (come  nel  caso  delle spese gia' anticipate) e che non ha
dato causa al giudizio.
    Per  quanto sopra, non sembra lecito dubitare che la questione di
legittimita'  come  sollevata e' rilevante nel presente giudizio, sul
quale e' destinata ad operare direttamente.