ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 261, 271 e
272  del  codice  penale  militare  di pace e dell'art. 2 della legge
7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare
di  pace),  promosso  con  ordinanza  emessa  il  14 luglio  2000 dal
tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico di G. A.,
iscritta  al  n. 574  del  registro ordinanze 2000 e pubblicata nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n. 42,  prima serie speciale,
dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 maggio 2001 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che con ordinanza emessa il 14 luglio 2000 (r.o. n. 574
del  2000)  nel  corso  di  un  procedimento  penale nei confronti di
persona  imputata  del  reato  di  mancanza  alla  chiamata aggravata
(artt. 151  e  154  n. 1  del  codice  penale  militare  di pace), il
tribunale militare di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
primo  comma, 97, primo comma, e 111 della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 261 del codice penale militare
di  pace  e  dell'art. 2 della legge 7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche
all'ordinamento  giudiziario  militare  di  pace),  "come richiamato"
dagli  artt. 271  e  272  del  predetto  codice,  nella parte in cui,
rispettivamente,  non  comprendono  fra le disposizioni del codice di
procedura   penale   applicabili   nel  rito  militare  anche  quelle
concernenti  il  procedimento  davanti  al  tribunale in composizione
monocratica  e  non  prevedono  che il tribunale militare giudichi in
composizione   monocratica  sugli  stessi  reati  per  i  quali  tale
composizione e' stabilita in rapporto al tribunale ordinario;
        che  il  giudice  a  quo  rileva, in via preliminare, come la
Corte   di   cassazione   abbia   escluso   che  la  nuova  normativa
ordinamentale  e  processuale introdotta dal d.lgs. 19 febbraio 1998,
n. 51  e  dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - la quale prevede, da
un  lato,  che il tribunale giudichi in composizione monocratica, ove
la  legge  non  disponga  altrimenti  (art. 48  r.d. 30 gennaio 1941,
n. 12,  come  sostituito  dall'art. 14  d.lgs.  n. 51  del  1998), e,
dall'altro, che davanti al tribunale penale monocratico si osservi il
rito   disciplinato   dagli   artt. 549  ss.  cod.  proc.  pen. (come
modificati   dalla   citata   legge   n. 479   del   1999)   -  possa
automaticamente trasferirsi nel rito militare;
        che  a  tale  estensione  sarebbero  infatti  di  ostacolo le
speciali disposizioni dettate dall'art. 2 della legge n. 180 del 1981
(richiamate   dall'art. 271  del  codice  penale  militare  di  pace,
nonche',  quanto  ai  requisiti formali della sentenza e del processo
verbale,  dagli  artt. 371 e 374 dello stesso codice), in forza delle
quali  il  tribunale  militare giudica esclusivamente in composizione
collegiale  mista,  e cioe' con l'intervento, a fianco di due giudici
"togati", di un membro "laico" (ufficiale delle Forze armate);
        che,  in  tal  modo,  si  sarebbe venuto peraltro a creare un
quadro  normativo contrastante con il principio di ragionevolezza, in
quanto  situazioni  del  tutto  simili  riceverebbero  un trattamento
inspiegabilmente  differenziato:  l'appartenente  alle  Forze  armate
imputato   di  un  reato  militare,  omogeneo  per  titolo  e  regime
sanzionatorio  a  quelli per i quali il tribunale ordinario opera con
rito  ed  in  composizione  monocratici, continua, infatti, ad essere
giudicato da un tribunale in composizione collegiale;
        che  ulteriori  profili  di  compromissione dell'art. 3 della
Costituzione  deriverebbero  dalla  disciplina  della connessione tra
reati  comuni e reati militari: giacche', qualora l'appartenente alle
Forze  armate sia imputato di un reato militare connesso con un reato
comune  piu'  grave,  ma  comunque compreso tra quelli per i quali e'
prevista  la  composizione  monocratica  del tribunale, egli verrebbe
giudicato,  in  forza  dell'art. 13  cod.  proc.  pen.,  non piu' dal
giudice militare collegiale, ma dal giudice ordinario, con rito ed in
composizione monocratici;
        che,  inoltre,  avendo  il  citato art. 13 cod. proc. pen. un
ambito applicativo limitato ai casi di connessione oggettiva, laddove
del medesimo reato militare risultino imputati, in concorso tra loro,
un  estraneo  alle  Forze armate ed un militare, quest'ultimo sarebbe
giudicato  dal  tribunale militare in composizione collegiale, mentre
l'estraneo verrebbe sottoposto con "rito monocratico" al giudizio del
tribunale ordinario in composizione monocratica;
        che,  per  altro verso, in conseguenza delle norme impugnate,
la  procedura  militare  risulterebbe "appesantita", al termine delle
indagini   preliminari,   dalla  necessita'  di  celebrare  l'udienza
preliminare,   e,   nella  fase  dibattimentale,  dalla  composizione
collegiale  del  tribunale,  e  cio' indipendentemente dal titolo del
reato o dal trattamento sanzionatorio;
        che  sarebbe  quindi  violato  anche  il  principio  del buon
andamento  dei  pubblici  uffici,  sancito dall'art. 97, primo comma,
Cost.:  principio  "tanto  piu' rilevante" ove interpretato alla luce
del   nuovo   testo   dell'art. 111  Cost.,  introdotto  dalla  legge
costituzionale  23 novembre  1999,  n. 2, in forza del quale la legge
deve  assicurare  la  ragionevole  durata  del  processo, non potendo
dubitarsi che, "ragionevolmente", la durata dei procedimenti devoluti
al giudice militare debba rispondere, quanto meno, agli stessi canoni
di celere definizione stabiliti in rapporto al rito ordinario;
        che  il  rimettente  segnala,  infine,  quanto alla rilevanza
della  questione,  come  nel  procedimento a quo l'imputato sia stato
tratto  a  giudizio  dal  pubblico ministero con citazione diretta ai
sensi  dell'art. 550  cod. proc. pen.: con la conseguenza che, ove la
questione  di  costituzionalita'  fosse  respinta,  detta citazione -
consentita  solo nell'ambito del "rito monocratico" - dovrebbe essere
dichiarata  nulla a norma degli artt. 178, comma 1, lettera b), e 179
cod. proc. pen; laddove invece, in caso di suo accoglimento, il reato
di  mancanza alla chiamata, contestato all'imputato, rientrerebbe nel
novero  di  quelli sui quali il tribunale militare dovrebbe giudicare
in composizione e con rito monocratici;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il quale ha concluso per la
declaratoria di infondatezza della questione;
        che  l'Avvocatura  erariale  osserva, in particolare, come il
legislatore  abbia  "ritagliato" la disciplina di cui al d.lgs. n. 51
del  1998 sui tribunali ordinari, escludendo intenzionalmente dal suo
ambito  applicativo i tribunali militari, e cio' in ragione sia della
peculiare  composizione  di  questi ultimi che del particolare status
dei cittadini chiamati alle armi;
        che,   in  tale  prospettiva,  l'eventuale  estensione  della
disciplina  sul giudice monocratico al rito militare richiederebbe un
riassetto   complessivo   del   sistema,  tale  da  involvere  scelte
discrezionali riservate al legislatore.
    Considerato  che,  secondo  la  costante giurisprudenza di questa
Corte,   le   scelte   concernenti   la  composizione,  collegiale  o
monocratica,   dell'organo  giudicante  rientrano  nell'ambito  della
discrezionalita'  del  legislatore,  e come tali non sono sindacabili
sul terreno della costituzionalita', ove effettuate in base a criteri
non  irragionevoli(v.  ordinanze n. 240 del 2000; n. 423 e n. 139 del
1997; n. 257 del 1995);
        che, per quanto attiene in particolare ai tribunali militari,
la  previsione  di  una  composizione  (esclusivamente)  collegiale e
"mista", con la partecipazione di un membro "laico" proveniente dalle
Forze armate, pur non rappresentando una soluzione costituzionalmente
obbligata  (v.  sentenza  n. 460  del  1994), non puo' nemmeno essere
qualificata come scelta legislativa affatto irragionevole;
        che  l'intervento di detto membro "laico", connettendosi alla
stessa  origine e ratio storica dei tribunali militari, mira, infatti
-  come  piu'  volte  affermato  da  questa Corte - ad assicurare una
migliore  comprensione,  utile  ai  fini  del  giudizio, della vita e
dell'ambiente  militare  nei quali i fatti illeciti sono commessi (v.
sentenze  n. 460  del  1994  e  n. 49  del 1989; ordinanza n. 151 del
1992);
        che,  in  tale  ottica,  la disciplina della composizione del
tribunale  militare risponde dunque a finalita' analoghe a quelle cui
e'   ispirata   la  previsione  di  organi  giudicanti  specializzati
collegiali  -  organi  chiamati  a  giudicare  anche  su  reati  o su
controversie civili aventi, di per se', limitata rilevanza (si pensi,
per tutti, al tribunale per i minorenni ed alle sezioni specializzate
agrarie)  -  i  quali  si caratterizzano per la presenza, a fianco di
giudici  "togati",  di  soggetti  estranei alla magistratura idonei a
fornire,  per  il  possesso  di  particolari  requisiti  culturali  o
professionali,  un  qualificato  contributo  alla  comprensione delle
vicende oggetto del giudizio (v. sentenza n. 49 del 1989);
        che,  sempre  alla luce della giurisprudenza di questa Corte,
il   carattere  ampiamente  discrezionale  delle  scelte  legislative
inerenti  alla composizione dell'organo giudicante non viene meno per
il  fatto  che tali scelte abbiano riflessi sul piano processuale, in
termini  di maggiore  o  minore  complessita'  del  procedimento  (v.
ordinanze  n. 139  e  n. 423 del 1997): riflessi che, nell'ipotesi in
esame,  si  risolvono  peraltro  in  un  rafforzamento delle garanzie
dell'imputato  nel  procedimento  militare,  cui  e'  in  particolare
assicurato, in ogni caso, il "filtro" dell'udienza preliminare;
        che,   quanto   alle  denunciate  disparita'  di  trattamento
correlate al regime della connessione tra reati comuni e militari, la
disciplina  in  questione  - in forza della quale, fra reati comuni e
reati   militari,   la   connessione   di  procedimenti  opera  entro
circoscritti  limiti  (e  cioe'  solo  quando il reato comune e' piu'
grave  di  quello  militare),  con  attribuzione della competenza per
tutti  i  reati  al  giudice  ordinario - si configura anch'essa come
frutto  di  una  scelta discrezionale del legislatore non eccedente i
limiti   della   ragionevolezza,   in   quanto   espressiva   di   un
"bilanciamento"  tra  le  esigenze  proprie  del  giudizio  sui reati
militari  e  quelle  cui  risponde, in via generale, l'istituto della
connessione;  e cio' a prescindere dal rilievo che tali disparita' di
trattamento vanno ascritte non alle norme oggi impugnate, ma a quelle
che  regolano  gli  effetti  della  connessione stessa (segnatamente,
l'art. 13, comma 2, cod. proc. pen.);
        che   per   quanto   concerne   poi   l'asserita   violazione
dell'art. 97,  primo  comma,  Cost.,  e'  costante  giurisprudenza di
questa  Corte  che  il  principio  del  buon andamento della pubblica
amministrazione,   pur   essendo   riferibile   anche   agli   organi
dell'amministrazione  della  giustizia,  attiene  esclusivamente alle
leggi  concernenti  l'ordinamento  degli  uffici giudiziari e il loro
funzionamento  sotto  l'aspetto  amministrativo,  mentre e' del tutto
estraneo   all'esercizio  della  funzione  giurisdizionale,  che  nel
frangente viene in rilievo (cfr., ex plurimis ordinanze n. 30, n. 152
e n. 490 del 2000);
        che  deve  altresi'  escludersi  la  violazione dell'art. 111
Cost.:  il  principio  della ragionevole durata del processo, sancito
dalla norma costituzionale invocata a seguito delle modifiche operate
dall'art. 1  della  legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, deve
essere  infatti  letto - alla luce dello stesso richiamo al connotato
di  "ragionevolezza",  che  compare  nella  formula  normativa  -  in
correlazione   con   le   altre   garanzie   previste   dalla   Carta
costituzionale,  a cominciare da quella relativa al diritto di difesa
(art. 24 Cost.);
        che  il  legislatore conserva, quindi, ampia discrezionalita'
nella  definizione  della disciplina processuale, salvo il divieto di
scelte  prive  di  valida  ragione giustificativa, ora anche sotto il
profilo della durata dei processi (v. ordinanza n. 32 del 2001);
        che,   in   tale   prospettiva,   non  puo'  essere  ritenuta
contrastante  con  il  parametro  costituzionale  in  discorso ne' la
previsione  della  composizione  comunque  collegiale  del  tribunale
militare, trattandosi di scelta suggerita dall'accennata finalita' di
"migliore  comprensione"  dei  fatti  oggetto  di  giudizio;  ne'  la
correlata  previsione,  nel  rito  militare, dell'udienza preliminare
anche in rapporto a reati di limitata gravita', avendo detta udienza,
di per se', la valenza di una garanzia per l'imputato;
        che,  pertanto, la questione di costituzionalita' deve essere
dichiarata manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.