Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato della camera di deputati, in persona del Presidente On. prof. Luciano Violante, come da deliberazioni dell'Ufficio di Presidenza n. 253 del 6 novembre 2000 e della Camera dell'8 novembre 2000, e giusta mandato per notar Silvestro in Roma, 23 novembre 2000, Rep. n. 63.907, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Massimo Luciani ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via Bocca di Leone, n. 78; Contro la Corte di Assise di primo grado di Reggio Calabria, in persona del Presidente pro tempore, in ragione e per l'annullamento dell'ordinanza 16 novembre 1998, emessa nel corso del procedimento n. 10/98 RG Assise, poi riunito al procedimento n. 15/98 RG Assise, nei confronti, dell'on. Amedeo Gennaro Matacena, con la quale e' stata rigettata la richiesta della difesa dell'on. Matacena di giustificare l'assenza dell'imputato all'udienza in ragione di impedimento parlamentare e si e' disposto procedersi, dichiarando la contumacia dell'imputato, e per la statuizione che non spetta alla Corte di Assise di primo grado di Reggio Calabria stabilire che non costituisce impedimento assoluto della partecipazione del deputato alle udienze penali, eppercio' causa di giustificazione della sua assenza, il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in Assemblea. F a t t o All'udienza del 16 novembre 1998, celebratasi, innanzi la Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, nel corso di un procedimento penale nei confronti dell'on. Amedeo Gennaro Matacena, la difesa chiedeva di giustificare l'assenza dell'imputato all'udienza medesima, motivando detta richiesta con l'impedimento parlamentare dello stesso on. Matacena, attestato da un telegramma del Presidente della Camera dei deputati. La Corte di Assise rigettava con ordinanza la richiesta e disponeva di doversi procedere, dichiarando la contumacia dell'imputato. L'ordinanza veniva emessa all'esito di una brevissima camera di consiglio (risulta dal verbale di udienza - doc. n. 6 - che la Corte si e' ritirata in camera di consiglio alle h. 10.25 ed e' rientrata alle h. 10.40). La stringata motivazione faceva leva su cio' che l'on. Matacena aveva giustificato la propria assenza "adducendo la concomitanza di lavori parlamentari", ma non aveva specificato se "partecipera' a detti lavori o se la sua presenza per eventuali votazioni o interpellazioni prenotate sia oggi indispensabile in Parlamento". Con deliberazione in data 6 novembre 2000 (doc. n. 1), l'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, in considerazione della natura lesiva della riferita ordinanza, ha deliberato di proporre alla Camera di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in riferimento alla stessa. Con deliberazione in data 8 novembre 2000 (doc. n. 2), la Camera, approvando la proposta dell'Ufficio di Presidenza, ha deliberato in conformita'. L'ordinanza in epigrafe risulta lesiva delle attribuzioni costituzionali della ricorrente Camera dei deputati per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Preliminarmente, quanto all'ammissibilita' del ricorso. Sull'ammissibilita' del presente ricorso non possono sussistere dubbi. Quanto alla legittimazione processuale, pacifica e' quella passiva della Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria. E' principio consolidato, infatti, che "i singoli organi giurisdizionali, nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, possono in genere essere parti nei conflitti di attribuzione" (cosi' ord. n. 150 del 1980, ma v. gia' prima ordd. nn. 228 e 229 del 1975; successivamente, ex plurimis, ordd. nn. 250 e 261 del 1998; 319 del 1999; 102 del 2000). Non meno evidente e' la legittimazione della ricorrente Camera dei deputati. La legittimazione attiva di questa, infatti, e' stata ripetutamente riconosciuta, in quanto essa puo' esprimere "definitivamente la volonta' del potere che essa rappresenta" (sentt. nn. 265 del 1997; 379 del 1996; 1150 del 1988; 129 del 1981; ord. n. 150 del 1980; cui adde, per il Senato, sent. n. 129 del 1996). Nella specie, inoltre, non viene in considerazione solo la potenziale titolarita' della facolta' di esprimere definitivamente la volonta' del potere di appartenenza, ma anche l'esercizio in concreto di tale facolta', atteso che la volonta' della Camera (e quindi quella del potere cui essa appartiene) e' stata definitivamente manifestata con la programmazione dei lavori e l'approvazione del relativo calendario. Inoltre, in un caso largamente analogo, e' stato esplicitamente affermato che "la Camera dei deputati e' legittimata a sollevare conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, quale organo competente a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartiene" (ord. n. 102 del 2000, cit.). Non dubbia e' anche la sussistenza di requisiti oggettivi del conflitto di attribuzione. Vi e', infatti, conflitto risolvibile ai sensi degli artt. 134 Cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87, quando (senza che necessariamente vi sia vindicatio potestatis: cfr. gia', ad es., sentt. nn. 110 del 1970 e 129 del 1981) si controverte sulla delimitazione della sfera delle attribuzioni costituzionali di due poteri dello Stato. Nella specie, e' evidente che oggetto della presente controversia e', appunto, la delimitazione dei confini tra le attribuzioni costituzionali d'uno dei soggetti del potere legislativo e quelle del potere giudiziario. Costituzionalmente garantito, invero, e' il potere del magistrato di procedere nel giudizio pendente innanzi a lui. Per quanto riguarda la Camera dei deputati, a sua volta, il provvedimento del giudice penale che non riconosca al deputato l'impedimento a partecipare a un'udienza in ragione della necessita' di adempiere alle sue funzioni di parlamentale incide direttamente sulle attribuzioni costituzionali dell'organo rappresentativo. La dimostrazione di questa affermazione (di per se' - peraltro - autoevidente) verra' data qui appresso, quando si svolgeranno le necessarie argomentazioni in ordine al merito della controversia. Come accade frequentemente nei giudizi innanzi a codesta Ecc.ma Corte (v., per il giudizio sulle leggi, i rilievi di C. Mezzanotte, irrilevanza e infondatezza per ragioni formali, in Giur. Cost, 1977, I, 230 sgg.), invero, i profili processuali sono inestricabilmente connessi con quelli sostanziali, e nel caso dei conflitti tra poteri l'identificazione dell'attribuzione lesa non puo' che andare di pari passo con la dimostrazione della sua lesione. Puo' comunque dirsi sin d'ora che la possibile sottrazione al lavoro parlamentare (in particolare: alle votazioni in Assemblea) del contributo del deputato sottoposto a procedimento penale incide gravemente sull'autonomia e sulla funzionalita' dell'organo, e quindi sulla stessa possibilita' che questo eserciti le attribuzioni (costituzionali) di sua spettanza. Non si potrebbe, in contrario, sostenere che le attribuzioni lese sarebbero, qui, solo quelle del singolo parlamentare e non anche quelle della Camera di appartenenza. In un caso largamente analogo, infatti, e' gia' stato statuito che il singolo parlamentare "impropriamente.., utilizza lo strumento del conflitto d'attribuzione, invece di avvalersi - come tutti i cittadini - dei mezzi endoprocessuali d'impugnazione degli atti asseritamente viziati, nonche' di quelli diretti a provocare l'eventuale affermazione di responsabilita' disciplinare, civile o penale del magistrato cui egli rimprovera il comportamento non legittimo" (ord. n. 101 del 2000). In presenza di tale precedente, i dubbi sull'ammissibilita' non hanno ragione di sussistere. Per mero tuziorismo, vale la pena di osservare, comunque, che la negazione della legittimazione della Camera dei deputati dimenticherebbe che le prerogative dei parlamentari non sono (e comunque non sono solo) strumenti di garanzia delle loro situazioni soggettive individuali, ma strumenti di tutela della funzione parlamentare nel suo complesso, e quindi dell'istituzione di appartenenza (cfr., da ultimo, sent. n. 417 del 1999, e comunque la costante giurisprudenza costituzionale e la dottrina dominante). Del resto, come si dira' anche appresso, la partecipazione ai lavori parlamentari (massime quando consistenti in votazioni) non e' solo un diritto, ma e' uno specifico dovere (art. 48-bis RC), e - come accade per tutti i doveri - la sua previsione si deve almeno all'esigenza di soddisfare gli interessi generali dell'istituzione che lo impone (e' questo il significato davvero minimo dell'imposizione dei doveri: cfr. G. M. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 29). Il voto, dunque, e' un atto di "natura squisitamente funzionale" (sent. n. 379 del 1996). In ogni caso, e' pacifico che anche atti giudiziari riguardanti singoli parlamentari possano determinare lesione dell'autonomia e dell'indipendenza della Camera di appartenenza nel suo complesso (cfr., ad es., il caso scrutinato dalla stessa sent. n. 379 del 1996). Contro l'ammissibilita' del presente ricorso non varrebbe neppure obiettare che, con esso, si intenderebbe censurare non gia' la carenza del potere del giudice, ma un semplice errore in iudicando (v., in riferimento ad analoga fattispecie, A. Anzon, Ragioni di inammissibilita' dei conflitti di attribuzione del "Caso Previti", in AA.VV., Il "Caso Previti". Funzione parlamentare e giurisdizione in conflitto davanti alla Corte, Torino, 2000 29 sg.; R. Romboli, Tre ricorsi inammissibili, ivi, 187). Per un verso, infatti, la ricorrente contesta proprio la titolarita', in capo al giudice, del potere di negare che l'impegno in votazioni in Assemblea sia valida causa di giustificazione dell'assenza, all'udienza penale, del parlamentare interessato. Per l'altro, la stessa dottrina ora richiamata ricorda che codesta Ecc.ma Corte ha negato di poter esercitare un sindacato degli errori in iudicando perche', altrimenti, si sarebbe trasformata in giudice dell'impugnazione. E' davvero difficile capire come cio' sia possibile nella presente fattispecie, atteso che la ricorrente non e' ne' poteva essere, parte nel giudizio che ha originato il presente conflitto, sicche' non ha cosi' come non aveva (al contrario di quanto accade per il singolo deputato: cfr. ord. n. 101 del 2000, cit.), strumenti processuali "ordinari" per tutelare le proprie attribuzioni (analogamente, n. Zanon, il "caso Previti": conflitto tra poteri dello Stato o questione "privata"? in AA. VV., Il "caso Previti", cit., 21; F. Rigano, Tre domande, ivi, 184). Qui, non e' neppur pensabile che si pretenda di trasformare il giudizio innanzi alla Corte "inammissibilmente in un nuovo grado di giurisdizione" (sent. n. 27 del 1999), per la chiara circostanza che un "grado di giurisdizione" precedente o diverso, al quale la Camera potesse o possa accedere, semplicemente, non esiste. Si deve, infine, osservare che e' presente, senza incertezze, l'interesse a ricorrere della Camera dei deputati. Detto interesse (che deve caratterizzare anche il ricorso per conflitto di attribuzione: cfr., ad es. ordd. nn. 259 del 1986 e 420 del 1995) si collega alle affermazioni dell'ordinanza. Questa, invero, ha negato che il deputato Matacena fosse (giustificatamente) impossibilitato a partecipare all'udienza in quanto non avrebbe asseverato che, per il giorno della stessa, fossero previste votazioni o "interpellazioni" (deve presumersi che la Corte di Assise, quasi a mo' di crasi o di sincope, intendesse riferirsi a "interpellanze" e "interrogazioni"), per le quali la sua presenza fosse "indispensabile". Teniamo da canto il problema dell'illustrazione delle interpellanze e delle interrogazioni, in ordine al quale, come appresso si precisera', la ricorrente non intende formulare censure. Restringendo lo sguardo alle votazioni in Assemblea, peraltro, e' evidente che l'ordinanza ha presupposto che ve ne siano di due generi: votazioni per le quali la presenza del parlamentare e' "indispensabile", e votazioni per le quali tale presenza "indispensabile" non e'. L'assunto, tuttavia, e' del tutto erronea, atteso che, come subito si dimostrera', tutte le votazioni in Assemblea sono tali da rendere indispensabile la presenza di ciascun, singolo, parlamentare. Nella specie, risulta inoppugnabilmente dai resoconti parlamentari che, nella giornata del 16 novembre 1998, la Camera ha iniziato la propria seduta alle h. 12.05 (con sospensioni tra le h. 13.10 e le h. 15.00,. nonche' tra le h. 15.30 e le h. 15.45), con votazioni elettroniche in ordine ai disegni di legge nn. 5267 ("Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo") e 5349 ("Conversione in legge del decreto-legge n. 335 del 1998: lavoro straordinario"). A tali votazioni l'on. Matacena ha regolarmente partecipato (doc. n. 4). L'erroneo presupposto, dal quale l'ordinanza impugnata ha preso le mosse, ha avuto per effetto che le esigenze processuali siano state anteposte a quelle della funzione parlamentare. In concreto, i valori collegati alla funzione parlamentare sono stati posti su un gradino inferiore rispetto a quelli attinenti alla funzione giurisdizionale (sono stati interamente sacrificati i primi, cioe', e interamente salvaguardati i secondi). Palese, pertanto, e' l'interesse della Camera dei deputati ad ottenere una pronuncia di codesta Ecc.ma Corte costituzionale che ristabilisca il corretto rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo, in riferimento ai valori costituzionali che detti poteri rappresentano. Non incide sull'interesse a ricorrere della Camera dei deputati il fatto che, nonostante la pronuncia qui censurata, l'on. Matacena abbia preso parte alle votazioni fissate in concomitanza con l'udienza innanzi la Corte di assise di Reggio Calabria. Trattasi infatti di determinazione strettamente personale del deputato, che ha sacrificato il proprio diritto di difesa al diritto-dovere di partecipazione ai lavori parlamentari, determinazione che tuttavia non era affatto imposta dalla vigente disciplina della materia. La concreta vicenda delle scelte del singolo parlamentare, invero, e' estrinseca rispetto all'atto impugnato e al suo contenuto, nel senso che e' proprio e solo da tale contenuto (trascendente, si badi, la particolare vicenda processuale) che origina la lesivita', che non puo' certo venir meno per l'accidentale determinazione di un soggetto estraneo al rapporto tra gli organi in conflitto. In ogni caso, come si e' osservato in dottrina, "la circostanza che il parlamentare abbia votato non elimina l'oggettiva incertezza circa le condizioni alle quali gli impegni parlamentari giustificano l'allegazione di un impedimento..." (N. Zanon, Il "Caso Previti", cit., 17). Il grave condizionamento che l'indirizzo prescelto dalla Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria determina nelle scelte dei parlamentari, in ogni caso, e' tale, come appresso si dimostrera', da cagionare la lesione delle prerogative costituzionali della Camera dei deputati, della quale e' dunque evidente l'interesse a ricorrere. 2. - Violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. Venendo, ora, al merito, devono prospettarsi le argomentazioni che seguono. 2.1. - Si deve premettere che la ricorrente Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i suoi componenti, impedimento assoluto a comparire in udienza (eppercio' causa di giustificazione dell'assenza) non gia' la necessita' di partecipare a qualsivoglia lavoro parlamentare, bensi' soltanto quella di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in Assemblea. Cio' non significa che la ricorrente muova dall'assunto della diversa dignita' delle varie attivita' che i deputati svolgono nell'esercizio del loro mandato. Significa invece, semplicemente, che l'attivita' di votazione e' qualitativamente diversa da tutte le altre proprio in specifico riferimento alla problematica che qui ne occupa. Al contrario di quanto ritiene la Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, invero, e' non solo possibile, ma doveroso, distinguere tra i vari "impegni parlamentari", in particolare differenziando l'attivita' di partecipazione al voto da tutte le altre attivita' inerenti al mandato rappresentativo. Come e' noto, l'attivita' di votazione non e' delegabile ad altro parlamentare e va esercitata personalmente (v. anche quanto affermato da codesta Ecc.ma Corte nella sent. n. 379 del 1996). Se e' fissata una votazione, pertanto, il solo modo che il deputato abbia per parteciparvi e' la presenza personale. Ne' e' possibile che il deputato chieda (od ottenga) lo spostamento della votazione, onde conservare la possibilita' di partecipare. Quando e' fissata una votazione, in altri termini, il deputato deve partecipare, senza alternative. Proprio per le votazioni, pertanto, il dovere stabilito dall'art. 48-bis assume una indefettibilita' peculiare poiche' non v'e' possibilita' di rimedio all'assenza. Diverso e' invece il regime delle altre attivita' parlamentari. Nel caso in cui il deputato intenda partecipare ad una discussione, ovvero sia programmato un suo intervento su un determinato provvedimento, ma sia contemporaneamente convocato dal giudice penale per un procedimento nei propri confronti, egli puo' ben chiedere lo spostamento ad altra data dell'esame del provvedimento, e la prassi consolidata e' nel senso che - ove possibile - il rinvio venga concesso. La Camera, in alternativa, puo' (in persona del proprio Presidente) rinviare la discussione sulle linee generali, o anche concedere facolta' al deputato in questione di svolgere un intervento piu' ampio sull'art. 1 del provvedimento in discussione (quando trattasi di progetti di legge), in deroga alle comuni norme sui tempi. Anche qui, la prassi offre solida conferma di tali possibilita'. Nel caso, in particolare, degli atti di sindacato ispettivo, e' evidente che la possibilita' del rinvio del loro svolgimento ad altra seduta e' in re ipsa. Come e' noto, del resto, per lo svolgimento delle interrogazioni e delle interpellanze la Presidenza della Camera prende contatti con il Ministro destinatario e con il deputato richiedente, in modo tale da conciliare le rispettive esigenze e assicurare il dibattito (sul punto, cfr., ad es., R. Moretti, Attivita' informative, di ispezione, di indirizzo e di controllo, in T. Martines et alii, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 417, 421). Il diverso regime e' dunque chiaro: nell'un caso (deliberazioni) indefettibilita' della presenza del deputato al momento della votazione; nel secondo (discussioni di qualsivoglia genere) possibilita' di rimedio all'assenza in una delle forme sopra descritte. Sempre quanto alla precisazione del thema decidendum, infine, la ricorrente limita le proprie censure all'ipotesi della partecipazione a votazioni dell'Assemblea, nel presupposto (la cui esattezza non puo' contestarsi) che l'Assemblea sia il soggetto "sovrano" nell'ordinamento parlamentare. La premessa interpretativa da cui si muove, e' bene ricordare, trova opportuno conforto in un noto precedente giurisprudenziale, nel quale si e' distinto tra "attivita' deliberative in senso stretto" e attivita' diverse, come quelle "di tipo referente o consultivo". (Trib. Brescia, ord. 23 novembre 1995, Sgarbi, in Foro it., 1996, II, 432), e proprio in tale distinzione si e' identificato il discrimine tra impedimento parlamentare rilevante o meno al fine del rinvio delle udienze penali. 2.2. - Cosi' precisati i limiti delle censure prospettate dalla ricorrente, si deve lamentare anzitutto la violazione degli artt. 64. 68 e 72 della Costituzione. Come codesta Ecc.ma Corte costituzionale ha rilevato, l'autonomia della Camera si fonda anzitutto sul combinato disposto, appunto, degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione (cfr. sent. n. 379 del 1996). E' da tali previsioni costituzionali, infatti, che si desumono, per un verso, il potere della Camera di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il funzionamento dei propri lavori, con particolare riferimento alla funzione legislativa; per l'altro, la posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera, riconosciuta dalla Costituzione quale strumento di garanzia dell'indipendenza e dell'autonomia dell'istituzione di appartenenza. Le riferite disposizioni, pertanto, vietano qualunque compressione di detta indipendenza ed autonomia. E' dunque sufficiente dimostrare che un vulnus di tal genere si e' verificato, per concludere nel senso della violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. Nella specie, l'atto impugnato determina un grave ostacolo alla partecipazione dei deputati alle votazioni della Camera, e conseguentemente produce (come piu' analiticamente si dimostrera' appresso) un'altrettanto grave lesione delle prerogative costituzionali della Camera, tutte riassuntivamente tutelate dalle disposizioni indicate nell'epigrafe del presente motivo di ricorso. Sin d'ora, tuttavia, si deve rilevare che l'autonomia organizzativa della Camera dei deputati, connessa all'autonomia regolamentare di cui all'art. 64, comma 1, Cost., e' direttamente lesa dall'atto impugnato, che incide su quel funzionamento interno dell'Assemblea che, per costante giurisprudenza costituzionale, si sottrae all'interferenza (prima ancora che all'invasione) da parte di qualsivoglia altro potere dello Stato. 3. - Violazione dell'art. 64, terzo comma, della Costituzione, anche in riferimento agli artt. 64, primo comma; 73, secondo comma; 79, primo comma; 83, terzo comma; 90, secondo comma; 138, primo e terzo comma della Costituzione; 12 legge della Costituzione 11 mano 1953, n. 1; 3 legge della Costituzione 22 novembre 1967, n. 2; 9, comma 3, e 10, comma 3, legge Cost. 16 gennaio 1989, n. 1. La violazione dell'art. 64 terzo comma, Cost., e degli altri parametri costituzionali connessi, indicati in epigrafe del presente motivo di ricorso, e' palese. L'art. 64, terzo comma, Cost., dispone che "Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non e' presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale". E' qui previsto, per le deliberazioni delle Camere, un doppio quorum: uno strutturale (la presenza della maggioranza dei componenti) e uno funzionale (il voto favorevole della maggioranza dei presenti, salva l'ipotesi di una maggioranza speciale). In entrambi i casi, il quorum e' stabilito quale condizione di validita': il mancato raggiungimento dell'uno o dell'altro determina appunto l'invalidita' della deliberazione. Questa previsione riguarda indistintamente tutte le deliberazioni delle Camere e tutte quelle del Parlamento in seduta comune. La partecipazione dei parlamentari (per quanto qui interessa: dei deputati) alle sedute parlamentari preordinate alle votazioni, nonche' alle votazioni medesime, e' dunque indispensabile, nei termini quantitativi imposti dalla Costituzione, per la validita' degli atti deliberativi. Ogni impedimento a tale partecipazione si risolve pertanto in impedimento alla funzionalita' del Parlamento (per quanto qui interessa: della Camera dei deputati), con evidente compromissione delle attribuzioni del potere legislativo: La previsione generale dell'art. 64, terzo comma, inoltre, e' ulteriormente specificata e rafforzata dalle disposizioni che stabiliscono, per singole fattispecie, maggioranze speciali. Cio' vale almeno per: l'art. 64, primo comma (maggioranza assoluta dei componenti per l'approvazione dei regolamenti); l'art. 73, secondo comma (maggioranza assoluta dei componenti per la dichiarazione di urgenza della legge); l'art. 79, primo comma (maggioranza dei due terzi dei componenti per l'approvazione delle leggi di amnistia o di indulto); l'art. 83, terzo comma (maggioranza dei due terzi o assoluta, del Parlamento in seduta comune, in composizione integrata, per l'elezione del Presidente della Repubblica); l'art. 90, secondo comma (maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune per la messa in stato d'accusa dei Presidente della Repubblica: v. anche art. 12 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1); l'art. 138, primo e terzo comma (approvazione a maggioranza assoluta ovvero dei due terzi delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale). A tali previsioni vanno aggiunti almeno l'art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2 (maggioranza dei due terzi o dei tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune per l'elezione dei giudici costituzionali) e l'art. 9, comma 3, della legge Cost. 16 gennaio 1989, n. 1 (maggioranza assoluta dei componenti della Camera competente per negare l'autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri o del Presidente del Consiglio). Di rilievo l'art. 10, terzo comma, della stessa legge, che nell'ipotesi della richiesta di misure restrittive delle liberta' fondamentali a carico dei Ministri o del Presidente del Consiglio prevede non solo la convocazione di diritto delle Camere, ma anche il dovere, per esse, di deliberare entro quindici giorni dalla richiesta. Previsione, questa, di interesse, perche' chiarisce che le Camere, in questo caso, non hanno solo il dovere di riunirsi ma anche quello di deliberare (e quindi di votare entro un tempo ben determinato, sicche' la partecipazione alla votazione dei singoli parlamentari e' ancor piu' indefettibile e la non rinviabilita' della votazione; fosse pure ad istanza di un parlamentare impedito, e' stabilita addirittura ex lege. Da tutto questo si evince che la stessa possibilita', per la Camera dei deputati, di esercitare validamente le funzioni che la Costituzione le conferisce e' condizionata dalla presenza dei deputati nel numero necessario. Ogni impedimento di tale partecipazione si risolve dunque nella compromissione dell'esercizio delle attribuzioni parlamentari. Non si potrebbe opporre che la lesione delle prerogative parlamentari deriverebbe, comunque, dalla scelta del singolo deputato. Perche' tale obiezione fosse fondata, infatti, occorrerebbe che detta scelta fosse effettivamente libera, potendo il deputato optare, senza condizionamenti di sorta, per la partecipazione o meno alla votazione parlamentare. In realta', detta scelta non e' affatto libera, ne' priva di condizionamenti. Si deve infatti considerare che il deputato sottoposto a procedimento penale esercita, partecipando alle udienze, il proprio diritto costituzionale alla difesa in giudizio. Trattasi di un diritto fondamentalissimo, che sin dalla prima giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte costituzionale e' stato ritenuto caratterizzante l'identita' stessa della Costituzione repubblicana (sentt. nn. 2 del 1956 e soprattutto 18 del 1982). L'adempimento del dovere di partecipazione alle votazioni (funzionale, si ripete, al valido esercizio delle attribuzioni della Camera), pertanto, confligge in questo caso con un primario diritto costituzionale. Lungi dall'essere libera e non condizionata, allora, la scelta del deputato diventa drammatica. Cio' che qui maggiormente conta, il condizionamento e' determinato dalla volonta' di un potere esterno a quello legislativo, che interferisce gravemente nelle prerogative di questo, ponendo a rischio la stessa funzionalita' della Camera (in ordine, si ripete, alla validita' delle votazioni dell'Assemblea). 4. - Violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri sopra invocati. Non meno evidente e' il vizio che affligge l'atto impugnato qualora si assumano quali parametri anche gli artt. 67 e 68 della Costituzione. Si deve ribadire che le prerogative che la Costituzione riconosce ai singoli deputati non sono loro guarentigie personali ma strumenti funzionali all'integrita' della posizione costituzionale delle istituzioni di appartenenza. Ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato parlamentare garantito dall'art. 67 della Costituzione in una con l'art. 68, si ledono percio' l'autonomia e l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in tanto possono sussistere, in quanto i singoli componenti siano tutelati nella loro liberta' di esercitare il mandato parlamentare senza impedimenti. Il concetto di liberta' del mandato parlamentare, come e' noto, non e' di semplice interpretazione. Quale che sia la linea interpretativa che si segue, comunque, non vi e' dubbio che pregiudizio al libero mandato parlamentare possa venire proprio dall'esercizio della giurisdizione (cfr., ad es., n. Zanon, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991, 305). Nella specie, ci troviamo di fronte ad un'ipotesi addirittura paradigmatica di incisione con atti giurisdizionali sulla liberta' di esercizio del mandato parlamentare del singolo deputato, atteso che - come sopra rilevato - questi viene pesantemente condizionato nella sua scelta di adempiere o meno i doveri (e di esercitare i diritti) del suo ufficio, in presenza della contrapposta esigenza (essa pure costituzionalmente protetta) di esercitare il diritto di difesa. Non e' dunque libera la scelta del deputato costretto all'alternativa tra diritto di difesa e diritto-dovere di partecipazione alle votazioni della Camera. La violazione della liberta' del mandato (imputabile - si ripete - alla volonta' di un potere esterno a quello legislativo) ha per conseguenza la lesione delle prerogative della Camera dei deputati, alla cui tutela quella liberta' e' strettamente funzionale. Si consideri, del resto, che il condizionamento del libero mandato determina un'alterazione profonda del libero giuoco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull'altrettanto libero rapporto delle forze. Alterazione che, anche se limitata a un solo voto, puo' essere terribilmente rilevante (la prima crisi di governo "parlamentare" della Repubblica, con la votazione alla Camera il 9 ottobre 1998, lo testimonia con chiarezza). 5. - Assenza di un bilanciamento nell'atto impugnato, tra le esigenze dell'efficienza del processo e quelle dell'autonomia, dell'indipendenza e della funzionalita' delle istituzioni parlamentari. Violazione dell'art. 3 Cost., anche in riferimento ai parametri precedentemente invocati. In questa delicata materia vi e', indubbiamente, un concorso tra valori entrambi di rango costituzionale. Non e' contestabile, infatti, che tanto la speditezza del processo quanto la libera esplicazione del mandato parlamentare e la funzionalita' delle assemblee rappresentative siano valori costituzionalmente protetti. Secondo concetto, come sempre accade nel caso di contrasto tra valori costituzionali, detto contrasto deve essere composto, e cio' e' possibile solo pel mezzo di un prudente bilanciamento tra di essi. Proprio del bilanciamento, anche qui secondo concetto, e' che nessuno dei valori in conflitto debba essere interamente sacrificato (ove cio' non sia inevitabile), e che di quei valori si individui il migliore contemperamento, che deve avvenire secondo i canoni della ragionevolezza imposti dall'art. 3 della Costituzione. Questo schema tipico (e necessitato) del bilanciamento tra valori costituzionali, tanto frequente nella giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte costituzionale che qualunque indicazione giurisprudenziale sarebbe superflua, non e' stato seguito dalla Corte di Assise di primo grado di Reggio Calabria. Cio', fra l'altro, ha determinato anche la violazione del principio della leale collaborazione tra i poteri dello Stato (sul quale ci si soffermera' piu' ampiamente in chiusura), che impone a ciascun potere di comportarsi in modo tale da esercitare le proprie attribuzioni senza sacrificio di quelle degli altri. Tanto il principio del bilanciamento che quello della leale collaborazione si invocano in una con i parametri gia' precedentemente menzionati, atteso che la salvaguardia dei valori protetti da quei parametri e' possibile solo a condizione di non sacrificarli totalmente quando si trovino a subire il confronto con altri valori costituzionali. Nella specie, l'Autorita' giudiziaria non ha tenuto conto dell'esistenza di due confliggenti valori costituzionali, salvaguardando solo uno di essi e sacrificando integralmente l'altro. Il modello disegnato dalla giurisprudenza costituzionale e' tutt'altro. In questa materia, infatti, come ha limpidamente precisato la sent. n. 379 del 1996, occorre un "equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione... e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare...". La stessa pronuncia non ha mancato di precisare che "il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalita-giurisdizione, dall'altro) e' posto sotto la tutela di questa Corte". La logica di tale modello e', pertanto, che si proceda all'indicato bilanciamento tra i valori costituzionali eventualmente confliggenti, se possibile senza il sacrificio integrale di alcuno, secondo il modello del "contemperamento" tipico anche di altri settori della giurisprudenza costituzionale (sul punto, in dottrina, da ultimo, G. Scaccia, gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, 348 sgg.). Nella specie, tale bilanciamento e' possibile proprio seguendo la via che si prospetta nel presente ricorso, giusta la quale l'impedimento parlamentare giustifica la modificazione dei tempi della funzione giurisdizionale solo, quando e' in giuoco la superiore esigenza della validita' delle deliberazioni della Camera, che puo' essere assicurata esclusivamente dal raggiungimento delle maggioranze prescritte dalla Costituzione. L'ipotesi opposta, seguita nell'atto impugnato (l'ipotesi, cioe', dell'esistenza di votazioni in Assemblea per le quali la presenza del deputato non e' "indispensabile"), e' proprio quella del sacrificio integrale dell'autonomia parlamentare, sacrificio che e' in radicale contrasto con la logica del bilanciamento/contemperamento. La conclusione e' dunque obbligata: nel contrasto tra i valori in campo, l'esigenza prima e' quella del bilanciamento nella forma del contemperamento. Lede pertanto tale esigenza l'atto impugnato, in quanto - senza che cio' fosse inevitabile - sacrifica integralmente i valori connessi alla rappresentanza, a totale beneficio di quelli connessi alla giurisdizione. Si determina in tal modo, anzi, un vero e proprio paradosso, in quanto, nell'ipotesi che fra tali valori un contemperamento non sia possibile, la giurisprudenza costituzionale afferma semmai la prevalenza dei primi sui secondi, in speculare contrapposizione alla scelta compiuta con l'atto impugnato. Ipotizziamo (del tutto astrattamente, e nel convincimento che tale ipotesi sia infondata) che il modello del contemperamento non possa essere seguito. Ebbene, non si puo' certo negare che il principio dell'efficienza e della snellezza del processo sia stato ritenuto, dalla giurisprudenza, implicitamente riconosciuto dalla Costituzione (cfr., ad es., sent. n. 460 del 1995). Cio' non consente, tuttavia, che in suo nome siano sacrificate l'autonomia e l'indipendenza della Camera dei deputati. In primo luogo, codesta ecc.ma Corte, nei precedenti nei quali ha fatto valere quel principio, ha inteso impedire qualunque pratica dilatoria, che pretestuosamente intendesse compromettere la funzionalita' del processo. Atti che, pure, sono esercizio del diritto di difesa, diventano abusivi ed ingiustificati laddove mirino al solo scopo di rinviare nel tempo il completamento dell'iter processuale. E' prorio in ipotesi di tal genere che sono state rese le note declaratorie di incostituzionalita' delle norme di legge che consentivano atti di questo tipo (sentt. nn. 353 del 1996; 10 del 1997). Nel caso che ne occupa, pero', il parlamentare non e certo dominus delle cause di impedimento, che derivano invece dall'oggettiva esistenza di un calendario dei lavori parlamentari ch'egli e' tenuto a rispettare e che non ha certo deciso da se'. La situazione e' dunque assai diversa da quella considerata nelle pronunce sopra ricordate, poiche' l'ostacolo allo svolgimento del processo ha un'oggettivita' che resta del tutto al di fuori della disponibilita' del deputato. In secondo luogo, non e' possibile (come invece fa la Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria) argomentare la superiorita' delle esigenze del processo su quelle della funzione parlamentare dall'intervenuta modifica dell'art. 68 Cost. Certo, l'eliminazione dell'autorizzazione a procedere ha determinato il venir meno di un ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione giurisdizionale. Questo pero', non e' risolutivo. La mera sottoposizione a procedimento penale, infatti, non sarebbe, di per se', fonte di alcun impedimento o pregiudizio per il parlamentare e per il rigoroso rispetto dei suoi doveri. Che si sia prevista la possibilita' di tale sottoposizione a prescindere da qualsivoglia autorizzazione non prova, dunque, che si sia voluto tutelare la funzione giurisdizionale a totale scapito di quella rappresentativa. Tutt'al contrario, come sopra si accennava, vale, secondo l'indirizzo di codesta ecc.ma Corte, esattamente la reciproca. Per stare soltanto alle pronunce piu' significative, bastera' ricordare le sentenza nn. 129 del 1981 e 129 del 1996 (successiva - si badi - alla riforma dell'art. 68 Cost.). La sent. n. 129 del 1981 ha affemato (sulla scia della sent. n. 110 del 1970) che la Costituzione ammette deroghe alla giurisdizione", quando e' in giuoco l'autonomia delle istituzioni rappresentative che si collocano "a livello di sovranita'" (cio' vale dunque per le Camere, non, invece, per i consigli regionali). Nella sent. n. 129 del 1996 si legge, a proposito dei procedimenti relativi a opinioni espresse dai parlamentari, che il costituente ha compiuto un "bilanciamento", in seguito al quale, "a tutela del principio (corrispondente a un interesse generale della comunita' politica) di indipendenza e autonomia del potere legislativo nei confronti degli altri organi e poteri dello Stato, l'art. 68 Cost. sacrifica il diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino che si ritenga offeso nell'onore o in altri beni della vita da opinioni espresse da un senatore o deputato nell'esercizio delle sue funzioni". L'autonomia del Parlamento, dunque, e' un bene cosi' prezioso, che l'esigenza della sua tutela potrebbe, in astratto (e in assenza di soluzioni alternative), addirittura imporre il "sacrificio" del diritto alla tutela giurisdizionale, e conseguentemente dell'esercizio della giurisdizione. Non e' questo, pero', cio' che, in concreto, deve accadere nel presente giudizio, ne' e' questo cio' che domanda la ricorrente Camera dei deputati. Come sopra si e' dimostrato, infatti, tra l'ipotesi del sacrificio integrale della giurisdizione e l'ipotesi del sacrificio integrale della rappresentanza vi e' quella intermedia del bilanciamento/contemperamento nella forma gia' prima ricordata. La tutela dell'essenza stessa del sistema parlamentare (che sta nella validita' delle deliberazioni delle Camere) e' possibile senza che per questo si rinunci all'esercizio della giurisdizione, che puo' (anche sollecitamente) proseguire, con il solo limite (tutt'altro che gravoso) del rispetto dell'attivita' di votazione in Assemblea programmata dalla Camera. 6. - Violazione del principio della leale collaborazione tra i poteri dello Stato, anche in riferimento ai parametri precedentemente invocati. Come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha statuito, il principio di leale collaborazione non regge, nel nostro ordinamento costituzionale, soltanto i rapporti intersoggettivi, ma anche quelli fra poteri dello Stato (sentt. nn. 379 del 1992 e 403 del 1994). Non varrebbe obiettare come, pure, qualcuno, in dottrina, ha fatto - che il principio di leale collaborazione non dovrebbe riguardare i giudici, tenuti soltanto ad applicare la legge (cosi' n. Zanon, Il "Caso Previti"., in AA. VV., Il "Caso Previti", cit., 14; P. Veronesi, Tre ricorsi intrecciati: alla ricerca del "bandolo della matassa", ivi, 235). A parte l'ovvia considerazione che i principi (come rammentava, a tacer d'altri, Vezio Crisafulli) illuminano di se' l'interpretazione della legge, vale infatti quella che il giudice esercita poteri discrezionali quanto meno in ordine alla scansione dei tempi processuali, potendo stabilire (ovviamente nei limiti della legge, eppercio', ancorche' non liberamente, discrezionalmente), in particolare, i ritmi delle udienze. Che nell'esercizio di tali poteri il giudice possa ritenersi sottratto al dominio di un principio che riguarda tutti i poteri dello Stato e', invero, incomprensibile. Il problema, comunque, e' stato gia' affrontato e risolto da codesta ecc.ma Corte proprio con la cit. sent. n. 403 del 1994, che ha espressamente stabilito che anche l'autorita' giudiziaria (nella specie, si trattava del collegio inquirente per i reati ministeriali, che e' titolare dei poteri del giudice delle indagini preliminari) e' assoggettata al principio della leale collaborazione, in particolare per quanto concerne la determinazione dei tempi di esercizio delle attivita' processuali. Leale collaborazione e corretto bilanciamento sono, pertanto, due esigenze imprescindibili. E' anche in questa chiave che va interpretata la presente controversia, nella quale - come sopra si e' detto - sono in giuoco concorrenti (e, nella specie, confliggenti) valori costituzionali tra i quali e' indispensabile trovare il corretto bilanciamento. La posizione della ricorrente, intesa ad affermare il principio che l'impedimento parlamentare deve essere considerato assoluto ed insuperabile solo nel caso in cui attenga alla partecipazione a votazioni dell'Assemblea, e non anche quando attenga a diverse attivita' dei deputati, si presenta come il piu' corretto contemperamento tra i valori in giuoco. Non tutte le sedute dell'Assemblea sono dedicate a votazioni (non in tutte, dunque, si assumono le deliberazioni disciplinate dall'art. 64 Cost.), poiche' molte sono destinate ad altre attivita' (discussione di progetti di legge; dibattiti di vario contenuto; svolgimento di interrogazioni ed interpellanze, etc.). Per stare ai soli dati degli ultimi tre anni (che mostrano, comunque, una proporzione pressoche' costante), si constata che: nel 1998, a fronte di un totale di 168 sedute, solo 103 sono state destinate a votazioni; nel 1999 il rapporto e' stato di 189 a 115; nel 2000 (dati al 6 dicembre) di 173 a 99 (doc. n. 5). Cio' significa, chiaramente, che la previsione dell'assolutezza dell'impedimento parlamentare in riferimento alle sedute destinate a votazioni non compromette affatto la funzionalita' del processo ne' lede le prerogative dell'autorita' giudiziaria. Invero, le votazioni non sono previste quotidianamente: a parte i periodi di sospensione, le votazioni sono in genere fissate nei giorni centrali della settimana, martedi', mercoledi' e giovedi'. Nell'anno, assai meno di un giorno su tre e' mediamente dedicato a votazioni in Assemblea, e cio' consente di soddisfare pienamente le esigenze di celerita' del processo. La soluzione qui prospettata, pertanto, e' il punto di equilibrio costituzionalmente piu' corretto tra i diversi valori in campo. Non solo il piu' corretto, invero, ma anche il piu' certo. La strada alternativa, seguita dalla Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, si risolve infatti (come risulta espressamente dall'ordinanza impugnata) nell'attribuzione al giudice penale del potere discrezionale di valutare, di volta in volta, l'assolutezza dell'impedimento, con conseguenti minori garanzie per la certezza non solo della situazione soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalita' e dell'autonomia della Camera. E' noto che la discrezionalita' del giudice, in casi di questo tipo, e' comunque delimitata dalla ragionevolezza e - nel tempo - dal consolidarsi degli indirizzi giurisprudenziali (cfr. sent. n. 178 del 1991). Nondimeno, e evidente che un criterio automatico ed oggettivo, come quello che conseguirebbe all'accoglimento del presente ricorso, offrirebbe garanzie di certezza largamente superiori. Quello della certezza del diritto, invero, e' un valore costituzionale di primaria importanza, come anche la piu' recente giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha chiarito (sent. n. 416 del 1999). L'accoglimento del presente ricorso, pertanto, oltre a ristabilire il corretto rapporto tra il valore dell'efficienza processuale e quello dell'autonomia e dell'indipendenza delle istituzioni parlamentari, consentirebbe il miglior soddisfacimento del valore, parimenti costituzionale, della certezza del diritto.