ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 4-bis della
legge  26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla  esecuzione delle misure privative e limitative della liberta),
promosso  dal  tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza emessa
il 14 novembre 2000, iscritta al n. 857 del registro ordinanze 2000 e
pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica n. 3, prima
serie speciale, dell'anno 2001.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 4 luglio 2001 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.
    Ritenuto  che  il tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato,
in  riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione,
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 4-bis,  (primo
comma,  primo  periodo)  della  legge 26 luglio 1975, n. 354, recante
"Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative  e limitative della liberta'" (come modificato dall'art. 15
del   decreto-legge   8   giugno   1992,   n. 306,   convertito,  con
modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356), nella parte in cui
prevede che il permesso premio non puo' essere concesso ai condannati
per i reati ivi indicati che non collaborino con la giustizia a norma
dell'art. 58-ter   del   medesimo  ordinamento  penitenziario,  anche
nell'ipotesi  in  cui  l'esecuzione  della  pena era gia' iniziata al
momento dell'entrata in vigore della legge di modifica;
        che  il  tribunale rimettente - investito del reclamo avverso
un  provvedimento del magistrato di sorveglianza che aveva dichiarato
inammissibile  la  richiesta  di  permesso  premio  presentata  da un
detenuto  condannato  con  sentenza dell'aprile 1985 per sequestro di
persona  a  scopo  di estorsione ed altri reati e in espiazione della
pena  dal  giugno  1989 - rileva che la richiesta non potrebbe essere
accolta,  perche', come risulta anche da precedenti provvedimenti, il
condannato  non  ha  collaborato  con la giustizia e non ricorrono le
condizioni   di  cui  alla  sentenza  n. 137  del  1999  della  Corte
costituzionale;
        che  la  norma  censurata,  nel  prevedere,  in  relazione  a
determinati  delitti, una diversa e piu' restrittiva disciplina delle
condizioni  per l'accesso ai permessi premio, al lavoro all'esterno e
alle  altre  misure alternative previste dal capo VI dell'ordinamento
penitenziario,  violerebbe,  ad  avviso  del giudice a quo, l'art. 25
Cost.,  in  quanto  "il  principio costituzionale di irretroattivita'
della  norma penale incriminatrice deve essere riferito non solo alle
norme  che  disciplinano  le  fattispecie  astratte  di  reato  e  le
conseguenze   sanzionatorie   ma   anche   alle  norme  che  regolano
l'esecuzione   della  pena",  sul  presupposto  che  le  disposizioni
"concernenti  l'ordinamento  penitenziario, incidendo sulle modalita'
di  esecuzione  della  pena in termini di contenuto e/o afflittivita'
hanno indubbiamente natura sostanziale e non processuale";
        che  il  "momento  in cui sorge una situazione di affidamento
meritevole   di   essere  tutelata"  sarebbe  quello  in  cui  inizia
l'esecuzione, in quanto "in tale momento lo Stato esercita la propria
pretesa  punitiva in cambio di un adeguato impegno del condannato sul
piano  del trattamento rieducativo, sicche' le modifiche peggiorative
apportate   dovrebbero  essere  ininfluenti  nei  confronti  di  quei
condannati  che, al momento della loro entrata in vigore, stiano gia'
espiando la pena" ed abbiano quindi fondatamente ritenuto "di doversi
confrontare  durante  la  propria  detenzione  con le norme allora in
vigore";
        che  sarebbe  inoltre violato l'art. 3 della Costituzione, in
quanto   l'applicabilita'   dei   benefici  penitenziari  verrebbe  a
dipendere  da un dato temporale "variabile per contingenze diverse" e
dal "diverso momento in cui ha avuto inizio l'esecuzione della pena";
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    Considerato che il tribunale di sorveglianza di Roma dubita della
legittimita'   costituzionale  dell'art. 4-bis,  primo  comma,  primo
periodo,   della   legge  26  luglio  1975,  n. 354,  recante  "Norme
sull'ordinamento   penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
privative  e limitative della liberta'", come modificato dall'art. 15
del    decreto-legge   8 giugno   1992,   n. 306,   convertito,   con
modificazioni,  nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui
preclude  l'accesso  ai permessi premio ai condannati per i reati ivi
indicati   che   non   collaborino   con   la   giustizia   a   norma
dell'art. 58-ter   del   medesimo  ordinamento  penitenziario,  anche
nell'ipotesi  in  cui  l'esecuzione  della  pena era gia' iniziata al
momento dell'entrata in vigore della legge di modifica;
        che    tale    disciplina    violerebbe   il   principio   di
irretroattivita'  della  legge  penale,  che  andrebbe  riferito "non
soltanto alle norme che disciplinano le fattispecie astratte di reato
e  le  conseguenze  sanzionatorie  ma  anche  alle norme che regolano
l'esecuzione   della   pena  [...]  che  hanno  indubbiamente  natura
sostanziale  e  non processuale", nonche' il principio di eguaglianza
per  l'assenta  diversita' di trattamento di "posizioni sanzionatorie
assolutamente  identiche,  a  seconda  del  diverso momento in cui ha
avuto inizio l'esecuzione della pena";
        che  questa  Corte  con  ordinanza n. 280 del 2001, che a sua
volta  richiama  le  argomentazioni  svolte nella sentenza n. 273 del
2001,  ha  dichiarato  manifestamente  infondata analoga questione di
legittimita'  costituzionale  sollevata dal tribunale di sorveglianza
di   Sassari   in   riferimento  all'art. 25,  secondo  comma,  della
Costituzione,  rilevando  che  l'accesso  al  beneficio  del permesso
premio   "implica   l'assenza   di   pericolosita'  sociale,  che  ne
costituisce  un  presupposto  sostanziale,  mentre la norma censurata
individua  un  criterio legale di valutazione di un comportamento che
deve   necessariamente   concorrere  al  fine  di  accertare  che  il
condannato   abbia   reciso   i   collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata e, quindi, non risulti socialmente pericoloso";
        che con la menzionata sentenza n. 273 del 2001 la Corte aveva
infatti  affermato  che,  "in  relazione  all'esecuzione  delle  pene
detentive  per  i  delitti  indicati  dal primo comma, primo periodo,
dell'art. 4-bis,  la collaborazione con la giustizia - gia' rilevante
nell'ordinamento  sul  terreno del diritto penale sostanziale (...) -
assume,  non  irragionevolmente,  la  diversa  valenza di criterio di
accertamento  della  rottura  dei  collegamenti  con  la criminalita'
organizzata,  che  a sua volta e' condizione necessaria, sia pure non
sufficiente,  per  valutare il venir meno della pericolosita' sociale
ed  i  risultati  del  percorso  di  rieducazione  e  di recupero del
condannato, a cui la legge subordina, ricorrendo a varie formulazioni
sostanzialmente  analoghe,  l'ammissione alle misure alternative alla
detenzione   e   agli   altri   benefici   previsti  dall'ordinamento
penitenziario";
        che  tale  conclusione  riposa  sulla  constatazione  che nei
confronti  degli autori dei delitti di cui al primo periodo del primo
comma  dell'art. 4-bis, che sono espressione di forme di criminalita'
organizzata  connotate  da  livelli  di pericolosita' particolarmente
elevati,  "la collaborazione con la giustizia e' un comportamento che
deve necessariamente concorrere ai fini della prova che il condannato
ha reciso i legami con l'organizzazione criminale di provenienza";
        che  pertanto, per effetto delle modifiche apportate nel 1992
alla  disposizione  censurata, "l'atteggiamento di chi non si adoperi
"per  evitare  che  l'attivita'  delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori  o  per  aiutare  "concretamente  l'autorita'  di polizia o
l'autorita'  giudiziaria  nella  raccolta di elementi decisivi per la
ricostruzione  dei  fatti  e  per l'individuazione o la cattura degli
autori  dei  reati  (art. 58-ter  dell'ordinamento  penitenziario) e'
valutato come indice legale della persistenza dei collegamenti con la
criminalita' organizzata";
        che la norma impugnata, non comportando una modificazione dei
presupposti  sostanziali  dei  permessi  premio, rimane estranea alla
sfera  di  applicazione del principio di irretroattivita' della legge
penale di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione;
        che   e'  priva  di  fondamento  anche  la  censura  riferita
all'art. 3 Cost., in quanto la diversita' di trattamento "nel tempo",
che  consegue  cioe'  al  mutamento  del regime giuridico, e' effetto
connaturato  alla  successione  delle  leggi ed e' quindi fenomeno in
relazione  al  quale non e' configurabile la lesione del principio di
eguaglianza (vedi, ex plurimis, sentenza n. 410 del 1995);
        che    la   questione   deve   pertanto   essere   dichiarata
manifestamente  infondata  con  riferimento  ad  entrambi i parametri
costituzionali evocati dal rimettente.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.