Con  ricorso depositato il 10 giugno 1999, presso il Tribunale di
Genova,   Mosca   Michelina   premesso  che  lavora  alle  dipendenze
dell'Ospedale San Martino di Genova inquadrata nella categoria C, con
profilo   di   infermiera,   secondo   l'inquadramento  professionale
delineato  dal  C.C.N.L.  del settore (contratto collettivo nazionale
del   comparto   del   personale  del  servizio  sanitario  nazionale
1998-2001);  che,  a  decorrere  dal  1  aprile 1994, svolge mansioni
corrispondenti   alla   superiore   categoria   D,  e  specificamente
"... dirige  il  lavoro  delle  infermiere,  compila  le richieste di
approvvigionamenti,  coordina  il  servizio  delle inservienti; ha la
direzione  dell'ambulatorio, del day hospital e provvede alla dialisi
peritoneale ...";  tutto cio' premesso chiede il riconoscimento della
superiore qualifica e comunque la condanna del convenuto al pagamento
delle conseguenti differenze retributive.
    Va  subito  rilevato che la giurisdizione in ordine alla presente
controversia e' sicuramente demandata a questo giudice, almeno per le
pretese  attoree  attinenti  al  periodo successivo al 30 giugno 1998
(vedi il comma 7 dell'art. 69 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165).
    Ora  il  contratto collettivo sopra richiamato contiene in ordine
alla  categoria  C)  la seguente declaratoria: "Appartengono a questa
categoria   i  lavoratori  che  ricoprono  posizioni  di  lavoro  che
richiedono  conoscenze  teoriche  e specialistiche di base, capacita'
tecniche  elevate  per l'espletamento delle attribuzioni, autonomia e
responsabilita'  secondo  metodologie  definite  e  precisi ambiti di
intervento  operativo  proprio del profilo, eventuale coordinamento e
controllo  di  altri  operatori con assunzione di responsabilita' dei
risultati   conseguiti";   segue   l'elencazione   dei  vari  profili
professionali  fra  cui  quello  di infermiere. La declaratoria della
superiore categoria D) recita: "Collaboratore professionale sanitario
nei  profili  e  discipline  corrispondenti  a  quelle previste nella
categoria C).
    Svolge  le  attivita' attinenti alla sua competenza professionale
specifica  -  comprese  funzioni  di  carattere strumentale quali, ad
esempio,  la  tenuta  di  registri  - nell'ambito di unita' operative
semplici,  all'interno  delle  quali  coordina  anche l'attivita' del
personale  addetto;  predispone  i  piani di lavoro nell'ambito delle
direttive  impartite  dai responsabili delle unita' operative stesse,
nel  rispetto dell'autonomia operativa del personale e delle esigenze
del  lavoro di gruppo; collabora alla attivita' didattica nell'ambito
dell'unita'  operativa  e,  inoltre,  puo'  essere  assegnato, previa
verifica  dei  requisiti,  a  funzioni  dirette  di  tutor  in  piani
formativi".
    Il  giudice  deve quindi accertare le mansioni svolte in concreto
dalla  Mosca, e stabilire poi se rientrino nella categoria C) o nella
D).  Tale  ultima  operazione  comporta  altresi'  che si enucleino i
criteri  distintivi fra le due categorie previa interpretazione delle
norme   contrattuali   teste'   trascritte   che  rispettivamente  le
contemplano. Interpretazione tutt' altro che agevole poiche' le norme
in  questione  sembrano  ad  una  prima lettura sovrapponibili, salvo
talune  variazioni  lessicali,  e  salvo il richiamo ad una attivita'
didattica  contenuto  nella  sola declaratoria della categoria D), ma
che  e'  irrilevante  in  questa  sede  poiche'  la attrice non ne ha
dedotto   lo   svolgimento.   Si   osserva   in  particolare  che  il
coordinamento   di  altro  personale,  specificamente  dedotto  dalla
attrice,   e   contestato  da  controparte  sotto  il  profilo  della
prevalenza,  e'  previsto in entrambe le declaratorie. Questo giudice
ritiene  plausibile  la sovrapponibilita' delle due declaratorie, con
la   conseguente   ed.   banalizzazione   delle   relative  categorie
professionali, e cio' in contrasto con la posizione assunta, sia pure
implicitamente,  dalle  parti.  Non  e'  certo  questa  la  sede  per
sviluppare il tema appena cennato; qui preme sottolineare che si pone
un  delicato  problema di interpretazione di clausole di un contratto
collettivo  sottoscritto dall'ARAN, sicche', ai sensi dei commi 1 e 2
dell'art.  64  d.lgs.  n. 165  del 30 marzo 2001, il giudice deve con
ordinanza  non  impugnabile  indicare  la questione interpretativa da
risolvere,  darne  comunicazione  all'ARAN,  e  fissare  la ulteriore
trattazione  della  causa non prima di 120 giorni. A sua volta l'ARAN
convoca  le  organizzazioni  sindacali  stipulanti  per una eventuale
interpretazione  autentica  della  clausola,  o delle clausole di cui
trattasi, o per una loro eventuale modifica.
    Ritiene  il  giudicante  che  la normativa ora cennata sia, sotto
molteplici profili, affetta da illegittimita' costituzionale.
    E' opportuno, per un adeguato inquadramento della problematica da
affrontare, chiarire che il contratto collettivo si configura, almeno
nel  settore  dell'impiego  presso  le  PA,  quale  fonte  di diritto
oggettivo.
    Contiene  infatti  norme generali ed astratte che si applicano al
caso  concreto  con  lo  stesso  meccanismo  previsto per le norme di
legge.
    E'  inoltre,  al pari di una norma di legge, efficace erga omnes.
Ne'  varrebbe  obiettare,  per  contestare siffatta efficacia, che il
C.C.,   anche  nell'ipotesi  di  mancata  iscrizione  del  dipendente
all'organizzazione   sindacale  stipulante,  si  applica  al  singolo
rapporto  di  pubblico  impiego  non  per forza propria, ma in quanto
richiamato  dal contratto individuale. L'obiezione non appare fondata
perche',   anche   in  difetto  di  siffatto  richiamo,  il  C.C.  e'
direttamente applicabile al rapporto individuale di pubblico impiego,
e  si sostituisce automaticamente alle clausole individuali difformi,
in  forza  dell'art.  45 comma 2 del d.lgs. n. 165/2001 che sancisce:
"Le  amministrazioni  pubbliche  garantiscono ai propri dipendenti di
cui  all'articolo  2,  comma 2, parita' di trattamento contrattuale e
comunque  trattamenti  non inferiori a quelli previsti dai rispettivi
contratti  collettivi".  E non si vede come possa attuarsi la parita'
di trattamento contrattuale se non applicando a tutti i dipendenti il
contratto collettivo del settore. L'obiezione di cui sopra, oltre che
in  contrasto col citato articolo, non convince anche perche' finisce
col  negare la funzione storica del contratto collettivo, la quale si
concreta,  come e' noto, nella tutela del prestatore considerato, per
la  sua  debolezza  economica, incapace di contrapporsi adeguatamente
alla  controparte  in  sede  di trattative individuali. E' chiaro che
tale funzione verrebbe clamorosamente a mancare se l'applicazione del
contratto collettivo fosse rimessa alla volonta' espressa dalle parti
in sede di pattuizione individuale.
    Il contratto collettivo, almeno nel settore del pubblico impiego,
si  assimila  ad una fonte di diritto oggettivo anche con riguardo al
principio  iura  novit  curia,  atteso  che  i contratti sottoscritti
dall'ARAN vengono, ai sensi dell'ottavo comma dell'articolo 47 d.lgs.
n. 165/2001,  pubblicati  nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica
Italiana.
    Va   inoltre  rilevato  che  sussiste  una  correlazione  fra  la
disciplina dell'impiego pubblico dettata dal contratto collettivo del
settore  e  l'interesse, tutelato dall'art. 97 della Costituzione, al
corretto  operare  degli  uffici  della  Pubblica Amministrazione. E'
opportuno  ricordare  che  una  connotazione  essenziale  del  lavoro
dipendente  si  ravvisa,  secondo  un  autorevole insegnamento, nello
stabile  inserimento del prestatore nell'organizzazione dell'impresa,
sicche'   la   disciplina   del   lavoro   subordinato  incide  sulla
organizzazione  dell'impresa,  organizzazione  che  a  sua  volta  e'
strettamente   collegata  ai  fini  che  l'imprenditore  si  propone.
Sussiste  quindi un legame a filo doppio fra la disciplina del lavoro
subordinato e le finalita' perseguite dall'apparato produttivo in cui
il  prestatore opera, finalita' che nel settore pubblico attengono al
corretto svolgimento della funzione demandata all'ufficio della P.A.,
ed   all'interesse  pubblico  che  vi  e'  sotteso.  Ne  consegue  la
funzionalizzazione   della   regolamentazione  del  pubblico  impiego
all'interesse   pubblico   di   cui   al  citato  articolo  97  della
Costituzione.  Il  punto  e' assai delicato ed il suo approfondimento
comporterebbe  un lungo discorso che non puo' essere svolto in questa
sede.  Qui  preme  sottolineare che la suddetta funzionalizzazione e'
stata  affermata  da numerose sentenze della Corte costituzionale (v.
in  proposito  C.  Cost. 9 dicembre 1968, n. 124 in Giur. Cost. 1968,
2161  ss; C. Cost. 7 aprile 1981, n. 52 ivi 1981, 321 ss; C. Cost. 13
ottobre  1988,  n. 964  ivi, 1989, 4543 ss; C. Cost. 18 gennaio 1989,
n. 1, ivi, 1989, 3 ss; C. Cost. 24 gennaio 1989, n. 19, ivi 1989, 111
ss.;  Corte  Cost.  3  giugno 1999, n. 206 in Gazzetta Ufficiale - 1a
serie  speciale  -  n. 23; Corte costituzionale sent. 4 gennaio 1999,
n. 1  in  Gazzetta  Ufficiale  13  gennaio 1999 - 1a serie speciale -
n. 2).  Particolarmente  significativo  un passo della sentenza della
Corte  costituzionale del 5 maggio 1980, n. 68 e del seguente tenore:
"... Il   principio   enunciato  dall'art.  97  Cost.,  non  riguarda
esclusivamente  la  organizzazione interna dei pubblici uffici, ma si
estende alla disciplina del pubblico impiego in quanto possa influire
sull'andamento  dell'amministrazione... In altre parole e' innegabile
che  la disciplina del lavoro e' pur sempre strumentale, mediamente o
immediatamente,  rispetto alle finalita' istituzionali assegnate agli
uffici in cui si articola la pubblica amministrazione".
    Si  deve anche rilevare che ai sensi del sopra richiamato comma 2
dell'articolo  45  del d.lgs. n. 165/2001 il contratto collettivo nel
pubblico impiego non e' derogabile ne' in peggio ne' in meglio per il
lavoratore,  e  si  applica  direttamente  al  posto  delle  clausole
difformi  del  contratto  individuale. E mentre la inderogabilita' in
peggio  (sempre  per il lavoratore), comune anche al settore privato,
si  spiega agevolmente con l'esigenza di tutelare il dipendente quale
parte piu' debole del rapporto, la inderogabilita' in meglio non puo'
trovare  altra  spiegazione  che  nella  pubblica funzione svolta dal
contratto collettivo.
    La    funzionalizzazione   all'interesse   pubblico   contemplato
dall'articolo  97  della Costituzione costituisce quindi connotazione
del  C.C.  (nel  settore  pubblico) che lo allontana dalla figura del
contratto  di diritto comune, e nel contempo lo avvicina ad una fonte
di produzione di diritto oggettivo.
    Inoltre  il  terzo  comma  dell'articolo  40  d.lgs.  n. 165/2001
espressamente   disciplina   il  contrasto  fra  i  vari  livelli  di
contrattazione  collettiva secondo il principio gerarchico e, come e'
ben  noto,  detto principio presiede alla risoluzione delle antinomie
fra norme nell'ambito delle fonti di diritto oggettivo.
    Infine  l'art.  63  comma 5o del d.lgs. n. 165/2001, configurando
quale  motivo  del  ricorso  in  Cassazione  la  violazione  o  falsa
applicazione  dei  contratti e degli accordi collettivi nazionali, ne
completa l'assimilazione alla legge.
    Attese  le  considerazioni  di cui sopra si deve concludere che i
sindacati  svolgono,  almeno  nel  settore  del pubblico impiego, una
funzione di produzione di diritto oggettivo.
    Cio'  posto  e' opportuno puntualizzare che, se pur rientra nella
autonomia  delle  parti definire in ogni momento in via negoziale una
controversia   in  corso,  ben  diversa  e'  l'attivita'  cui,  nella
previsione  del  citato  articolo  64  del  d.lgs.  n. 165/2001, sono
stimolate  le  organizzazioni  sindacali;  attivita'  volta  non alla
diretta    definizione   della   controversia,   bensi'   a   dettare
l'interpretazione  autentica  di  una  norma  generale ed astratta da
applicare  in  causa, od a modificarla con un'altra norma generale ed
astratta.
    In   questo   quadro   appare   evidente  che  l'art.  64  d.lgs.
n. 165/2001,  nella  parte  in  cui prevede un temporaneo arresto del
processo   per  consentire  una  interpretazione  autentica,  od  una
modifica   in  sede  sindacale  della  clausola  (o  delle  clausole)
controversa  (e),  ed  impone al giudice un'attivita' processuale per
stimolare  siffatta attivita', viola innanzitutto gli artt. 101 e 102
e 111 della Costituzione (d'ora in poi si fara' riferimento al citato
articolo  111  cosi' come modificato dall'art. 1 L. costituzionale 23
novembre  1999,  n. 2) perche' configura la interferenza di un potere
normativo in un processo in corso. E' pur vero che rientra nel potere
delle  organizzazioni sindacali stipulanti provvedere in ogni momento
ad   interpretare   autenticamente   od  a  modificare  una  clausola
contrattuale,  cosi' come rientra nel potere legislativo interpretare
autenticamente  o  modificare  una  norma  di  legge;  ma trattasi di
attivita'  che,  prescindendo da un processo in corso, si svolgono su
di  un  piano  diverso rispetto a quello giurisdizionale. Nel caso in
esame  la  realta' e' ben diversa; si impone al giudice di stimolare,
mediante   determinati   adempimenti,   le  organizzazioni  sindacali
stipulanti  ad  interpretare  autenticamente o a modificare una norma
contrattuale  da applicare in una controversia in corso; controversia
il  cui  svolgimento  viene  arrestato,  sia pure temporaneamente, in
attesa   appunto   dei   risultati   dell'attivita'  richiesta.  Tale
situazione   e'  caratterizzata  da  una  commistione  fra  il  piano
normativo  e quello giudiziario, in quanto la decisione, almeno su di
un  profilo  della  controversia,  viene  trasferita  dalla  sede del
processo  in  corso,  che  proprio  per  questo subisce un temporaneo
arresto,  ad  altra  sede.  Si  concreta quindi la interferenza di un
potere  normativo  in  un  processo in corso la quale appare ben poco
compatibile con i citati art. 101, 102 e 111 della Costituzione.
    L'articolo  64  del  d.lgs.  n. 165/2001,  nella parte che si sta
esaminando,   presenta   un   ulteriore   profilo  di  illegittimita'
costituzionale  per contrasto con l'art. 3 della Costituzione perche'
riserva  alle  controversie  promosse  dai  dipendenti delle P.A. una
disciplina  processuale  differente  da  quella  dettata per le altre
controversie  di  lavoro;  disparita' ingiustificata, ed in contrasto
con  il  criterio  di  fondo  ispiratore  della  riforma del pubblico
impiego,  che  e'  quello  della  omogeneizzazione  della  disciplina
sostanziale  e  processuale  del  lavoro  dipendente  sia nel settore
pubblico che in quello privato.
    Si  ravvisa  altresi'  un  ulteriore contrasto della normativa in
esame  con  l'articolo  24  della  Costituzione  da  coordinarsi  con
l'articolo  111  gia'  menzionato.  Detto  contrasto  emerge  ove  si
consideri  che  il  lavoratore  parte in causa, nell'ipotesi in cui i
sindacati  abbiano  portato  a compimento l'attivita' loro richiesta,
non avra' avuto, quale singolo, alcuno spazio per svolgere le proprie
difese e far valere le proprie ragioni sia nel processo in corso, sia
al tavolo delle trattative sindacali.
    Il punto e' assai delicato e merita un ulteriore approfondimento.
    Il  citato  articolo  111  della  Costituzione  nei  commi  1 e 2
riecheggia l'articolo 6 della Convenzione Europea di salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  (firmata  il  4
novembre  1950  e  resa esecutiva in Italia il 26 ottobre 1955 con il
deposito degli strumenti di ratifica intervenuta in forza della legge
4 agosto 1955, n. 848) la cui prima parte tradotta in lingua italiana
dal testo francese suona cosi': "Ogni persona ha diritto a che la sua
causa  sia  esaminata  equamente,  pubblicamente  ed entro un termine
ragionevole  da  un  tribunale indipendente ed imparziale, costituito
per legge, il quale decidera' sia sulle controversie sui suoi diritti
e doveri di carattere civile, sia della fondatezza dell'accusa penale
che le venga rivolta ...".
    La  norma  della  Costituzione  italiana  sul  giusto processo va
quindi  letta  alla  stregua  dei  principi  elaborati  sul  tema del
processo  equo dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo. Una lettura
che  si impone, oltre che per una stretta somiglianza delle due norme
sopra  citate sotto il profilo letterale, anche per evitare eventuali
sanzioni a carico dello Stato Italiano da parte della Corte medesima.
Ora  nella  giurisprudenza  della  Corte  Europea  viene  piu'  volte
affermato  il  principio  secondo  cui  assicurare  un  processo equo
significa  anche  assicurare  la c.d. "uguaglianza delle armi". Cosi'
nella  decisione  Dombo Beheer contro Paesi Bassi del 27 ottobre 1993
(serie  A  n. 274) si legge il seguente passo: "La Corte concorda con
la  Commissione  nel  ritenere  che,  nelle  controversie concernenti
opposti  interessi  privati,  "uguaglianza  delle  armi" comporta che
ciascuna  parte  debba  disporre  di  una ragionevole opportunita' di
espone  il proprio caso - comprese le prove - a condizioni che non la
pongano  in  posizione  di sostanziale svantaggio nei confronti della
controparte".  (Ed  in  senso  analogo  la sentenza Raffinerie Greche
Stran  e Stratis Andreadis contro Grecia - serie A n. 301 B). E nella
fattispecie  delineata  dai  commi  uno e due dell'articolo 64 d.lgs.
n. 165/2001  e'  proprio la c.d. "uguaglianza delle armi" che viene a
mancare  in  pregiudizio  del dipendente attore nella controversia in
corso.  Invero costui, come si e' gia' osservato, non ha piu', almeno
in  ordine  ad un profilo della controversia, alcuna sede per esporre
il  proprio punto di vista, mentre la controparte, attraverso l'ARAN,
che  e'  un  rappresentante  della  P.A.,  puo' far valere le proprie
ragioni  nella  sede delle trattative sindacali, sede che, come si e'
visto,  viene,  sia  pure  in  via  eventuale,  a  sostituire  quella
processuale.
    Ne'   varrebbe   obiettare   che  anche  l'attore  nella  singola
controversia  di  pubblico  impiego  potrebbe,  in sede di trattative
sindacali,  far valere le proprie ragioni tramite il sindacato cui e'
iscritto.
    L'obiezione non sarebbe convincente.
    Va in proposito sottolineata la profonda differenza fra i vincoli
che rispettivamente legano l'ARAN alla pubblica amministrazione ed il
pubblico impiegato al sindacato cui e' iscritto.
    Le pubbliche amministrazioni sono rappresentate dall'ARAN nei cui
confronti  esercitano  un  potere  di  indirizzo  (articolo 41 d.lgs.
n. 165/2001),  mentre, secondo una dottrina ormai dominante, non puo'
qualificarsi  rappresentanza il rapporto fra il singolo lavoratore ed
il  sindacato cui e' iscritto. L'interesse individuale del lavoratore
puo'  essere  in  contrasto  con  l'interesse  collettivo  di  cui il
sindacato  e' portatore; inoltre alle trattative sindacali con l'ARAN
partecipano anche sindacati cui non e' iscritto il singolo impiegato,
il  quale  per  di  piu' puo', legittimamente, non essere iscritto ad
alcun sindacato.
    Le  considerazioni  appena  svolte  inducono  a  ravvisare  oltre
l'illustrato  contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione,
un  ulteriore  contrasto  fra  l'articolo  64, nella parte che si sta
esaminando,  e l'art. 39 della Costituzione che solennemente sancisce
il  principio  di liberta' sindacale; principio che comporta anche la
facolta'  per  il singolo di prospettare, in ordine ai prodotti della
contrattazione  collettiva,  le proprie esigenze, il proprio punto di
vista,  e di manifestare il proprio dissenso. Ebbene di tale facolta'
il singolo viene spogliato persino in sede giurisdizionale.
    In  questa  prospettiva l'interesse collettivo rischia di perdere
la  sua  configurazione  di  sintesi degli interessi individuali, per
divenire  frutto  di  una  valutazione  di  vertice caratterizzata da
assoluta  eteronomia  nei  confronti  dei  singoli.  In altri termini
l'ermeneutica  giudiziale appare sede adeguata per sciogliere in modo
equilibrato  la tensione fra la dimensione collettiva degli interessi
e le esigenze individuali. Trasferire tale tensione esclusivamente in
sede  collettiva  comporta il rischio di sacrificare uno dei due poli
della dialettica, vale a dire le esigenze individuali.
    Sara'  la Corte costituzionale a stabilire se questa compressione
delle  facolta' del singolo sia compatibile col primo comma dell'art.
39 della Costituzione.
    E  la  citata  norma  della  Costituzione  viene violata sotto un
ulteriore profilo.
    Come  messo  in luce dalla piu' autorevole dottrina l'esigenza di
fondo  che  ispira  i commi due, tre e quattro dell'articolo 39 della
Costituzione  e'  quella  di  subordinare  l'efficacia erga omnes dei
contratti  collettivi  al  rispetto  del  principio di maggioranza. E
proprio  per  riguardo  a siffatto principio l'articolo 43 del d.lgs.
n. 165  del 9 maggio 2001 dispone che l'ARAN sottoscriva contratti di
comparto, come si e' visto efficaci erga omnes, solo se vi aderiscano
organizzazioni  sindacali  che  rappresentino  nel  loro complesso la
maggioranza  dei  lavoratori del comparto interessato (e precisamente
almeno  il  51  per  cento  come  media  tra  dato associativo e dato
elettorale  nel compatto o nell'area contrattuale, o almeno il 60 per
cento  del  dato  elettorale  nel  medesimo ambito). Ebbene l'accordo
presto  dall'art.  64  del  d.lgs.  n. 165/2001, anch'esso ovviamente
efficace  erga  omnes,  viene  stipulato  da organizzazioni sindacali
individuate,  quali  controparti dell'ARAN, solo in quanto firmatarie
del   precedente   contratto  da  interpretare  o  da  modificare,  a
prescindere dalla loro attuale rappresentativita.
    Viene quindi violato l'articolo 39 della Costituzione anche sotto
il profilo del rispetto del principio di maggioranza.
    Lo articolo 64 che si sta esaminando e che, e' bene ricordare, e'
una  norma  di  legge  delegata,  appare  altresi'  in  contrasto con
l'articolo 76 della Costituzione per eccesso di delega.
    Si  rileva in proposito che nell'ambito degli "oggetti definiti",
secondo  l'espressione  usata  dall'art.  76  della  Costituzione, il
legislatore  delegato, anche a volerne ammettere il potere di dettare
norme   delegate   che   vadano   oltre  il  mero  svolgimento  delle
enunciazioni   di   principio  espressamente  formulate  dalla  legge
delegante,  non  ha tuttavia la facolta' di innovare, senza specifica
autorizzazione,  la legislazione preesistente. In altri termini nella
delega,  in quanto non diversamente disposto, si ritiene implicito il
richiamo  al  rispetto  della  legislazione  preesistente.  Il citato
articolo  64  appare quindi sospetto di illegittimita' costituzionale
per  eccesso di delega perche', senza alcuna specifica autorizzazione
da  parte  del  delegante,  innova la disciplina del processo civile,
introducendo,  come  si  e'  visto,  una ipotesi di arresto, sia pure
temporaneo, del processo stesso.
    E'  pur  vero  che la legge delega (legge n. 59 del 15 marzo 1997
all'articolo  11  lettera  G)  prevede:  "... misure  organizzative e
processuali  anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni
dovute   al  sovraccarico  del  contenzioso ...";  ma  possono  farsi
rientrare  in  una  previsione cosi' generica anche specifici casi di
temporaneo  arresto  del  processo?  Una  risposta affermativa a tale
domanda  non  appare  ammissibile  perche' in contrasto con l'art. 76
della   Costituzione  nella  parte  in  cui  dispone  che  la  delega
legislativa     al    Governo    deve    essere    effettuata    con:
"... determinazione  dei principi e dei criteri direttivi ...". Detta
norma  verrebbe  in  definitiva  vanificata  se  l'espressione teste'
trascritta non alludesse solo a principi e criteri dotati di adeguata
concretezza, ma comprendesse anche una formulazione di essi del tutto
vaga e generica.
    E  per  completezza  di  indagine  e' opportuno aggiungere che la
determinazione  (e'  bene ribadire dotata di adeguata concretezza) di
principi  e  criteri  direttivi non si rinviene nemmeno nell'articolo
uno  della  legge 24 novembre 2000, n. 240 con la quale il Governo e'
stato delegato ad emanare un testo unico in materia di disciplina del
rapporto  di  lavoro dei dipendenti delle P.A. omogeneizzato a quello
del  settore  privato,  testo unico che ha poi preso corpo nel d.lgs.
n. 165 del 30 marzo 2001 il cui articolo 64 e' oggetto della disamina
svolta  nella presente ordinanza. Tale conclusione emerge dalla piana
lettura  del  citato  articolo uno il quale si limita a disporre che:
"Entro  il  31  marzo 2001, il Governo e' delegato, sentito il parere
delle   competenti   Commissioni   parlamentari  e  della  Conferenza
unificata  di  cui  all'articolo  8 del decreto legislativo 28 agosto
1997,  n. 281, ad emanare un testo unico per il riordino delle norme,
diverse  da  quelle  del  codice civile e delle leggi sul rapporto di
lavoro  subordinato  nell'impresa,  che regolano i rapporti di lavoro
dei   dipendenti  di  cui  all'articolo  2,  comnma  2,  del  decreto
legislativo   3   febbraio   1993,  n. 29,  secondo  quanto  disposto
dall'articolo  7  della  legge  8  marzo  1999,  n. 50, apportando le
modifiche  necessarie  per  il  migliore  coordinamento delle diverse
disposizioni e indicando, in particolare:
        a)  le  disposizioni  legislative  abrogate  a  seguito della
sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, ai
sensi  dell'art.  72 del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, e
successive modificazioni;
        b)  le  nonne  generali  e  speciali del pubblico impiego che
hanno  cessato  di  produrre  effetti,  ai sensi dell'articolo 72 del
citato   decreto   legislativo   n. 29   del   1993,   e   successive
modificazioni,  dal  momento della sottoscrizione, per ciascun ambito
di   riferimento,  del  secondo  contratto  collettivo  previsto  dal
medesimo decreto".
    La  norma  si  limita  a  demandare  un  mero  coordinamento,  in
particolare  mediante  l'indicazione delle leggi abrogate, fra i vari
prodotti legislativi che si sono susseguiti in tema di disciplina del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
    Anche l'articolo 76 della Costituzione appare quindi violato.
    La  questione  di illegittimita' costituzionale teste' esaminata,
oltre  che  non  manifestamente  infondata  per le considerazioni che
precedono,  appare  anche  rilevante nel presente giudizio perche' il
suo  eventuale  accoglimento eliminerebbe l'imposizione al giudice di
una  determinata  ed  anomala conduzione del processo (vale a dire il
temporaneo   arresto   del  processo  in  corso  mediante  un  rinvio
dell'udienza  di trattazione di almeno 120 giorni, ed invio di taluni
atti all'ARAN).
    L'eventuale  accoglimento  della prospettata questione renderebbe
subito  applicabile  il  terzo  comma  del menzionato articolo 64 che
dispone: "Se non interviene l'accordo sulla interpretazione autentica
o  sulla  modifica  della clausola controversa, il giudice decide con
sentenza  sulla  sola  questione  di  cui  al  comma  1, impartendo i
distinti  provvedimenti  per l'istruzione, o comunque per l'ulteriore
prosecuzione  della  causa.  La  sentenza e' impugnabile soltanto con
ricorso  immediato  per  Cassazione, proposto nel termine di sessanta
giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza. Il
deposito,  nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa
di  una copia del ricorso per Cassazione, dopo la notifica alle altre
parti, determina la sospensione del processo".
    Anche   la   norma   teste'  trascritta  impone  al  giudice  una
determinata  conduzione  del  processo,  vale  a  dire  gli impone di
decidere  con sentenza non definitiva la questione di interpretazione
della  clausola  contrattuale  (o  delle  clausole)  dedotta  (e)  in
giudizio,   e   di   disporre   con  separata  ordinanza  l'ulteriore
trattazione  della  causa,  salva la sospensione del processo in caso
del ricorso in Cassazione avverso la sentenza non definitiva. Sarebbe
quindi  rilevante la questione di illegittimita' Costituzionale della
predetta   norma,   la   cui   soppressione   da  parte  della  Corte
costituzionale    restituirebbe    al    giudice   ogni   valutazione
discrezionale  in  merito all'opportunita' di emettere allo stato una
sentenza  non  definitiva,  o  di  rinviare  ogni decisione a seguito
dell'ulteriore trattazione del processo.
    La  questione  appare  poi  non  manifestamente  infondata per le
considerazioni che seguono.
    Come  si e' sopra osservato il legislatore delegato non ha, senza
una espressa autorizzazione del delegante, la facolta' di innovare la
legislazione  preesistente.  Ora  la  norma  in  esame,  che, e' bene
ribadire,  e'  contenuta  in una legge delegata, introduce, senza una
relativa delega, una rilevante modifica della preesistente disciplina
processuale  perche',  come  si  e'  visto,  impone  al  giudice  una
determinata  conduzione  del  processo,  imponendogli di emettere una
sentenza   non   definitiva   su  di  un  determinato  profilo  della
controversia,    privandolo   di   ogni   valutazione   discrezionale
sull'opportunita'  di  rinviare ogni decisione al definitivo. Ne' una
delega  in  proposito  puo'  ravvisarsi  nel  richiamato  articolo 11
lettera  G)  della  legge delega n. 59 del 15 marzo 1997 che prevede:
"... misure  organizzative  e processuali anche di carattere generale
atte   a   prevenire   disfunzioni   dovute   al   sovraccarico   del
contenzioso ...".  La  norma delegante e' formulata in termini troppo
generici  per  soddisfare  la  prescrizione  dettata dall'articolo 76
della  Costituzione.  In proposito non resta che richiamare quanto si
e'  sopra  osservato  anche  in  ordine  alla successiva legge delega
n. 240/2000.
    Il  comma  tre  del  piu'  volte citato articolo 64 appare quindi
sospetto   di   illegittimita'   costituzionale   per  contrasto  con
l'articolo 76 della Costituzione.
    La  medesima  norma  di  legge  delegata  appare altresi', per le
considerazioni  gia'  svolte  a  proposito del temporaneo arresto del
processo  e  del  contestuale  invio  di  taluni  atti  all'ARAN,  in
contrasto  con  l'articolo  3  della  Costituzione per violazione del
principio di eguaglianza.
    Ed  il contrasto con l'articolo 3 della Costituzione si prospetta
anche sotto il profilo della manifesta irragionevolezza.
    Invero  l'articolo 64 nella parte che si sta esaminando impone al
giudice di stabilire in via preliminare, con sentenza non definitiva,
la  interpretazione di una o piu' clausole di un contratto collettivo
da  applicare  nella controversia in corso. Poiche' la clausola di un
contratto collettivo e' caratterizzata da generalita' ed astrattezza,
e  la  funzione  del  giudice  e'  quella  di fornire con sentenza la
interpretazione  di una norma generale ed astratta in relazione ad un
caso  concreto,  si deve concludere che nella specie il caso concreto
di riferimento sia quello che risulta dalle allegazioni contenute nel
ricorso introduttivo. Con il conseguente possibile irrazionale spreco
di  attivita'  giurisdizionale  se  il fatto poi accertato risultera'
diverso  da quello dedotto a fondamento della domanda attorea. Se poi
si  volesse  ritenere  che  il  meccanismo  delineato dall'art. 64 in
questione  dovesse  operare  sulla base del fatto accertato a seguito
della   conclusa   istruttoria,   la   norma   in  esame  apparirebbe
manifestamente irrazionale sotto un altro profilo, perche' imporrebbe
al  giudice di emettere una sentenza non definitiva, e di dispone con
separata ordinanza la prosecuzione del processo, sebbene la causa sia
gia'  matura  per  la  decisione  definitiva.  Lo spreco di attivita'
giurisdizionale  (che  si  verifica  in  entrambe  le  ipotesi appena
prospettate)  appare  altresi'  in contrasto con l'articolo 111 della
Costituzione,  vale  a  dire  col principio del processo equo che per
essere  tale  va  definito  in  tempo  ragionevole (vedi sul punto il
citato  articolo  111  da  leggere sempre, per le considerazioni gia'
svolte,  alla  luce dell'articolo 6 della Convenzione ed alla stregua
delle sentenze della Corte che hanno condannato lo Stato Italiano per
la  eccessiva  durata dei processi, sentenze talmente numerose e note
che ogni citazione appare superflua).
    Pertanto  il terzo comma del piu' volte citato articolo 64 appare
sospetto di illegittimita' costituzionale anche per contrasto con gli
articoli 3 e 111 della Costituzione.
    Attese   le   considerazioni   svolte   appare  rilevante  e  non
manifestamente    infondata    la    questione    di   illegittimita'
costituzionale  dei  commi  uno  e due dell'articolo 64 del d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165 per contrasto con gli articoli 3, 24, 39, 76, 101,
102  e  111  della Costituzione; e nell'ipotesi di accoglimento della
suddetta  questione  assume  immediata  rilevanza  la  non  manifesta
infondatezza  della  questione  di  illegittimita' costituzionale del
comma  3  dell'articolo  64  del  d.lgs.  30  marzo  2001, n. 165 per
contrasto con gli articoli 3, 76 e 111 della Costituzione.