IL TRIBUNALE Letta l'istanza presentata in data 16 maggio 2001 e depositata in Cancelleria in data 17 maggio 2001 dall'avv. Mario Dapor, quale difensore di fiducia di Maurizio Vivaldelli, attualmente ristretto presso la casa circondariale di Rovereto in esecuzione pena, intesa ad ottenere, in primo luogo, l'applicazione della disciplina del reato continuato, a norma dell'art. 671 c.p.p., alle pene irrogate con le condanne irrevocabili sub 1, 3 e 4 provvedimento di cumulo Procura della Repubblica di Rovereto n. 36/01 RES. Precisamente le condanne in questione sono: 1. Corte di Appello di Trento di data 6 novembre 1998 irrevocabile il 7 febbraio 2000 (di parziale riforma a Pret. Rovereto 5 ottobre 1995) a mesi 6 di reclusione e L. 300.000 di multa per il reato di furto aggravato commesso in Ala nell'aprile 1993; 2. Corte di Appello di Trento del 13 aprile 2000, irrevocabile l'8 febbraio 2001 (a seguito di sentenza della Corte di Cassazione di pari data che dichiarava estinti i reati sub B., C., I. ed M. dell'imputazione, per intervenuta prescrizione, ed eliminava la relativa pena di mesi 5 e giorni 10 di reclusione e L. 500.000 di multa), ad anni 2, mesi 9 e giorni 20 di reclusione e L. 650.000 di multa per i reati di detenzione e porto di arma comune da sparo (art. 10, 12 e 14 legge n. 497 del 1974) e di detenzione, porto e contraffazione di arma clandestina (art. 23 legge 18 aprile 1975, n. 110), commesso il primo a Rovereto il 15 maggio 1993 ed il secondo in Vallarsa e Rovereto il 10 ottobre 1991 ed in epoca successiva e prossima. 3. tribunale di Rovereto di data 21 gennaio 2001, irrevocabile il 16 marzo 2001 alla pena di anni 2 di reclusione e L. 500.000 di multa per i reati di furto e di detenzione e porto di arma comune da sparo (art. 10, 12 e 14 legge n. 497 del 1974), commessi il primo il 18 aprile 1993 ed il secondo nell'aprile 1993, tra loro uniti nel vincolo della continuazione. Con il medesimo ricorso il Vivaldelli chiedeva altresi' la revoca della sentenza penale di condanna della Corte di Appello di Trento 16 aprile 1998 (di parziale riforma, solo con riguardo alla pena, della sentenza del pretore di Rovereto 11 marzo 1993), divenuta irrevocabile in data 29 ottobre 1998, per il delitto di oltraggio di cui all'art. 341 c.p., per intervenuta abrogazione del reato (la sentenza e' quella sub 2 nel provvedimento di cumulo sopra indicato). All'udienza in camera di consiglio del 13 luglio 2001, svoltasi alla presenza dell'imputato detenuto, le parti concludevano come da verbale. Motivi della decisione La prima richiesta, relativa all'applicazione della disciplina del reato continuato e' infondata e va pertanto respinta. Invero non puo' ravvisarsi il vincolo della continuazione tra i reati di cui alle sentenze sopra indicate, dovendosi escludere che siano stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, trattandosi di fatti tra loro del tutto distinti e slegati ed in ordine ai quali non esiste alcun elemento per poter affermare siano stati sorretti da una volonta' criminosa unitaria. Infatti il reato di cui alla sentenza sub 1) attiene ad un furto di oggetti vari (confessionale in legno, arazzo, candelabro in ottone, ecc...) da una chiesetta privata in Ala, nell'aprile del 1993; i due reati di cui alla sentenza sub 2) attengono alla detenzione e al porto di un'arma comune da sparo (revolver) e di una arma clandestina (fucile con numero di matricola abraso), commessi in periodi assai diversi, il primo nel maggio 1993 a Rovereto ed il secondo nell'ottobre 1991 a Vallarsa e Rovereto ed in riferimento ai quali gia' il giudice della cognizione ha escluso il vincolo della continuazione (il primo reato era unito nel vincolo della continuazione con due reati di danneggiamento, poi dichiarati estinti per prescrizione ed il secondo era unito nel vincolo della continuazione con un reato di furto e di alterazione di arma, anch'essi poi dichiarati estinti per prescrizione: ma tra i due gruppi di reati si e' espressamente escluso qualsiasi legame); i reati di cui alla sentenza sub 3) attengono al furto e poi alla detenzione e al porto di una serie di armi comuni da sparo in Trambileno nell'aprile del 1993, gia' tra loro uniti in continuazione. Tra fatti tanto diversi, ancorche' commessi in parte in periodi di tempo vicini, appare difficile ipotizzare in astratto, prima che accertare in concreto, la commissione in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Invero tra il furto nella chiesa di Ala (sentenza sub 1) ed il furto delle armi, col successivo porto e detenzione, a Trambileno (sentenza sub 3), benche' commessi tutti nell'aprile del 1993 non si comprende quale possa essere il medesimo disegno criminoso, ossia il programma unitario che abbia indotto l'imputato a commettere reati tanto diversi per oggetto e modalita' operative. Analogamente deve dirsi per i reati di cui alla sentenza sub 2). In via generale va osservato che in tutti gli episodi delittuosi sopra descritti, come emerge dall'attenta lettura delle sentenze di condanna (anche di primo grado) non e' in alcun modo emerso la finalita' ultima perseguita dall'imputato, sicche' sembra ora arbitrario assumere che i singoli episodi siano tra loro legati da una unita' di scopo o di programma, che non e' neppure emersa nel corso dei vari procedimenti. Ne' il medesimo disegno criminoso puo' essere riconosciuto, come richiesto dalla difesa, sulla sola base del disturbo antisociale di personalita' dell'imputato accertato nel procedimento che ha poi originato la sentenza sub 2), perche' cio' porterebbe a riconoscere, contro ogni logica e con sostanziale superamento dei presupposti espressamente richiesti dall'art. 81 cpv. c.p., la continuazione tra tutti i reati commessi dall'imputato, senza alcuna distinzione di tempo, di luogo e di oggetto. Stando cosi' le cose va radicalmente escluso che i reati in parola possano considerarsi commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, inteso sia quale unita' di scopo, sia in modo meno pregnante e condivisibile quale semplice rappresentazione mentale anticipata. Quanto alla richiesta relativa alla revoca della sentenza penale di condanna della Corte di Appello di Trento 16 aprile 1998, a norma dell'art. 673 c.p.p. per l'intervenuta abrogazione dell'art. 341 c.p., ritiene questo tribunale di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto di cui all'art. 2, comma 3 c.p. e 673 c.p.p. nonche' dell'art. 341 c.p., in base alle motivazioni che seguono. 1. - Premessa: interpretazione della disciplina vigente (artt. 2 cp. e 673 c.p.p.). Preliminarmente occorre muovere dalla premessa interpretativa dell'impossibilita' di applicare al caso di specie l'art. 673 c.p.p. La norma citata, secondo la consolidata interpretazione di dottrina e giurisprudenza, fa riferimento non gia' ad ogni ipotesi di abrogazione di una norma incriminatrice o all'approvazione di una legge penale piu' mite, bensi' alla piu' limitata fattispecie della c.d. abolitio criminis, disciplinata, sotto il profilo sostanziale, dall'art. 2, comma 2 c.p. Affinche' si possa parlare di abolitio criminis occorre che la nuova legge ponga nel nulla il giudizio di disvalore astratto del fatto reato, sicche' i comportamenti descritti dalla norma incriminatrice abrogata siano ricondotti nell'area del (penalmente) lecito. Viceversa nel caso in cui le condotte in questione rimangano oggetto di un giudizio di disvalore astratto da parte del legislatore e, dunque, penalmente rilevanti, ancorche' sottoposte ad una diversa disciplina, non si puo' far questione di una vera e propria abolitio criminis, bensi' semplicemente di un mero intervento legislativo in senso modificativo, con la conseguente applicabilita' dell'art. 2, comma 3 c.p. In particolare la norma citata dispone si' l'applicazione della norma piu' favorevole e, dunque, se piu' favorevole e' la nuova norma quest'ultima deve trovare applicazione in via retroattiva, ma pone immediatamente dopo un limite invalicabile, rappresentato dalla condanna irrevocabile. Ora, e' ben noto che un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo in senso meramente modificativo, si puo' avere anche attraverso la mera abrogazione di una norma incriminatrice, quando cio' comporti non gia' la riconduzione nella sfera del lecito delle condotte rientranti nella fattispecie abrogata, bensi' l'applicazione di altre norme penali gia' vigenti. Cio' si verifica in particolare nel caso in cui ad essere abrogata e' una norma incriminatrice speciale rispetto ad altra norma incriminatrice generale la quale, per effetto dell'abrogazione dell'incriminazione speciale, vede ampliata e dilatata la propria sfera di applicabilita', in quanto l'intera classe degli oggetti gia' sussumibile nella fattispecie speciale, rifluisce in essa automaticamente, salvo, beninteso, non emerga la volonta' legislativa di espungere tale materia dalla sfera del penalmente rilevante. Nel caso di specie e' indiscutibile che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. ad opera dell'art. l8 legge 25 giugno 1999, n. 205 non ha affatto comportato una vera e propria abolitio criminis, bensi' una semplice successione di leggi penali incriminatrici nel tempo in senso modificativo, dal momento che tutti i comportamenti previsti dall'art. 341 c.p. dovranno d'ora in avanti essere ricondotti alla piu' generale fattispecie dell'ingiuria di cui all'art. 594 c.p., aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p. Significato della riforma infatti non e' certo quello di rendere del tutto lecite le offese all'onore e al prestigio sol perche' rese contro i pubblici ufficiali a causa o nell'esercizio delle loro funzioni, bensi' di ricondurle alla fattispecie generale di cui all'art. 594 c.p., posta a presidio dell'onore e del decoro di qualsiasi persona. La considerazione che tra le due fattispecie vi fosse un rapporto di genere a specie, integrando l'oltraggio a pubblico ufficiale nient'altro che un'ingiuria qualificata dal particolare status della persona offesa (oltre che dall'elemento espresso dalla formula "a causa o nell'esercizio delle sue funzioni"), nonche' la relazione strutturale tra gli elementi omogenei della fattispecie tale da rendere evidente un rapporto di contenenza tra le due previsioni, rende sicura la conclusione raggiunta. Sennonche' l'intervento sul punto di numerose sentenze della Cassazione in senso decisamente contrastante (nel senso sopra indicato cfr. Cass., 29 settembre 2000, n. 3144 in Riv. pen., 2001, 41; Cass., 7 giugno 2000, n. 3137; Cass., 25 maggio 2000, n. 2744; Cass., 19 maggio 2000, n. 2743; Cass. 11 aprile 2000, in Foro it, 2000, II, 593 e in Giur it., 2000, 1895; Cass., 23 febbraio 2000, n. 2127; Cass., 13 gennaio 2000, n. 3946; Cass., 14 luglio 1999, n. 10932; contra nel senso che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. ha comportato una vera e propria abolitio criminis Cass., 8 novembre 2000, n. 1455, in Riv. pen., 2001, 41; Cass., 7 giugno 2000, n. 3165; Cass., 25 maggio 2000, n. 2779; Cass. 17 aprile 2000, n. 1805; Cass., 10 aprile 2000, n. 1803, in Foro it., 2000, II, 594; Cass., 10 marzo 2000, in Foro it., 2000,II, 594; Cass., 11 febbraio 2000, n. 518 in Cass. pen., 2000, 1618 e in Foro it, 2000, II, 595; Cass., 14 gennaio 2000, n. 356; Cass., 27 novembre 1999, n. 13499 in Foro it., 2000, II, 236 e in Cass. pen., 2000, 1614), tanto da rendere auspicabile un sollecito intervento delle sezioni unite, rende doverosa un approfondimento della motivazione. Infatti il contrasto giurisprudenziale instauratosi potrebbe essere assunto quale motivo di inammissibilita' o comunque di infondatezza, richiamando l'obbligo del giudice a quo di scegliere fra piu' interpretazioni possibili quella conforme al dettato costituzionale. Poiche', come si e' visto, l'interpretazione che ravvisa nel caso di specie un fenomeno di abolitio criminis non comporta alcun problema di legittimita' costituzionale, assicurando l'immediata revoca di tutte le condanna a norma dell'art. 341 c.p., mentre l'opposta interpretazione comporta tutti i dubbi di legittimita' che di seguito si andranno ad esporre, sarebbe giocoforza preferibile la prima opzione esegetica a discapito della seconda. In contrario ritiene questo tribunale che manchi nella specie il presupposto per l'applicazione del canone ermeneutico della conformita' a Costituzione, precisamente quello della "possibilita'" alla stregua della lettera e della ratio della legge, violate le quali l'interpretazione adeguatrice si trasforma in un'inammissibile interpretazione correttiva. Al riguardo va in primo luogo osservato che i concetti di abolitio criminis (comma 2 dell'art. 2 c.p.) e di successione di leggi penali nel tempo (comma 3 dell'art. 2 c.p.) sono concetti elaborati dalla scienza giuridica, per la verita' non senza contrasti e differenze di opinioni, ma comunque in modo rigoroso e che non possono essere adattati a piacimento a seconda del caso concreto, neppure col lodevole proposito di ottenere esiti applicativi maggiormente conformi ad equita'. La tesi che ravvisa una abolitio criminis dovrebbe coerentemente scegliere per i procedimenti in corso e futuri tra questa alternativa, a seconda del rapporto che si ritiene debba affermarsi col delitto di ingiuria: ritenere che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. abbia reso penalmente lecite tutte le offese all'onore e al prestigio di un pubblico ufficiale in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, assumendo che la fattispecie del delitto di ingiuria sia rimasta del tutto immutata per l'assoluta eterogeneita' tra le due figure, ed allora si deve procedere ad assoluzione "perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato", sia per i fatti pregressi che per quelli futuri, a nulla rilevando il profilo della procedibilita' (in tesi si deve infatti concludere che nei casi di oltraggio a pubblico ufficiale, da un lato, non si realizza il fatto tipico dell'art. 594 c.p. e, dall'altro, non e' punito da nessuna altra norma incriminatrice); oppure assumere che a seguito dell'abrogazione dell'art. 341 c.p., l'art. 594 c.p. veda espandersi l'area di propria pertinenza dovendo includersi (quasi) tutti i fatti in precedenza ricondotti all'art. 341 c.p., ma con l'avvertenza che, a causa della (relativa) eterogeneita' delle fattispecie, questa conclusione vale solo per il futuro, non per i fatti pregressi: in sostanza si realizzerebbe il binomio abrogazione - nuova incriminazione che comporta la punibilita' per i fatti futuri riconducibili alla nuova fattispecie (l'ingiuria, cosi' come modificata dall'abrogazione dell'art. 341 c.p.), ma l'assoluzione per i fatti pregressi con revoca delle condanne irrevocabili. In sostanza i fatti di oltraggio commessi prima dell'entrata in vigore dell'art. l8 legge n. 205 del 1999 non potrebbero essere puniti alla stregua dell'art. 341 c.p. trattandosi di norma abrogata e neppure alla stregua dell'art. 594 c.p., cosi' come modificato per effetto dell'abrogazione dell'art. 341 c.p., per il principio di irretroattivita' delle nuove norme incriminatrici (rappresentato dal "nuovo" art. 594 c.p., privo di rapporto di continuita' con l'art. 341 c.p.). Tutto cio', lo si ribadisce, senza che assuma alcun rilievo il diverso regime di procedibilita' e la possibile applicazione a questi casi dell'art. 19 legge n. 205/1999. Vale solo la pena di sottolineare che nessuno ha avuto l'ardire, a quanto consta, di sostenere la prima alternativa, trattandosi di una soluzione tanto assurda quanto iniqua, oltre che foriera di ulteriori problemi di costituzionalita', perche' da un regime di privilegio di tutela della dignita' personale dei pubblici ufficiali si passerebbe ad un regime irrazionalmente discriminatorio ai loro danni. Un maggior grado di (apparente) plausibilita' ha invece la seconda alternativa che viene essenzialmente giustificata sulla scorta della diversita' tra beni giuridici protetti dall'art. 341 c.p, e dall'art. 594 c.p., rispettivamente indicati nel prestigio della pubblica amministrazione e nell'onore (o nel decoro) del singolo. Tale diversita' comporterebbe, da un lato, l'eterogeneita' tra le due figure e, dall'altro, la negazione di quel rapporto di specialita' che porrebbe in irrimediabile crisi la tesi dell'abolitio criminis. Si assume infatti, a giustificare la circostanza che mai prima dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. si e' ravvisato un concorso formale tra oltraggio e ingiuria (come invece sarebbe logico se si accedesse alla tesi della eterogeneita' delle relative fattispecie), che il rapporto tra le due figure non e' di specialita' ma di (un meglio precisato) "assorbimento", sicche' solo impropriamente, anzi erroneamente, l'art. 594 c.p. viene nella prassi definito quale "norma generale". Ad avvalorare queste argomentazioni si osserva che vi sono condotte che possono integrare il reato di oltraggio e non quello di ingiuria (cfr. Cass., 10 aprile 2000, n. 1803 e 27 novembre 1999, n. 13349 cit.). Sennonche' del tutto discutibile e', come si avra' modo di vedere diffusamente in sede di motivazione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., la premessa della effettiva diversita' dei beni giuridici, che comunque, anche fosse vera, appare inconferente. Secondo i migliori insegnamenti della dottrina, infatti, il rapporto di specialita' ha natura logico - formale e, pertanto, non attiene affatto al piano dell'oggettivita' giuridica, del tutto opinabile, manipolabile in via interpretativa e spesso implicante precise scelte di valore. Da questo punto di vista non puo' sfuggire che tanto l'art. 594 c.p. quanto l'art. 341 c.p. menzionano il concetto di "onore", che secondo la comune opinione rimanda alle qualita' morali di cui e' dotata una persona, mentre il concetto di "prestigio", cui si riferisce soltanto la norma sull'oltraggio, non sarebbe che una specificazione del concetto di "decoro" di cui all'art. 594 c.p., trattandosi in sostanza di quella particolare forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto e attinente alla dignita' propria della pubblica funzione. Da questo punto di vista assai discutibile e' l'affermazione secondo la quale sussisterebbero condotte idonee ad integrare il solo delitto di oltraggio e non anche quello di ingiuria, con espresso riferimento "all'uso gergale di un linguaggio volgare o di modi abitualmente scortesi, ritenuti in giurisprudenza sufficienti per commettere oltraggio e non altrettanto per commettere ingiuria nei confronti di un privato, in considerazione (...) dell'interesse pubblico ad una correttezza di modi e in genere al rispetto dei consociati nei confronti di coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni" (cfr. testualmente Cass. 27 novembre 1999, n. 13349 cit.). A parte l'omessa individuazione dei casi in questione, con un minimo di precisazione, ed a parte la considerazione che taluni eccessi interpretativi accolti in giurisprudenza ben possono essere considerati come retaggio di schemi culturali sorpassati, non si puo' fare a meno di notare come la valutazione della natura offensiva di talune espressioni volgari o atteggiamenti scortesi non possa avvenire prescindendo dal contesto nel quale vengono posti in essere ed al tipo di rapporto instaurato tra i soggetti in conflitto. Da questo punto di vista non si puo' negare che la relativa valutazione e' sostanzialmente la stessa sia alla stregua dell'art. 341 c.p. che alla stregua dell'art. 594 c.p., a maggior ragione ove si consideri come la circostanza che l'offesa sia arrecata contro un pubblico ufficiale nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni assume un indubbio rilievo tipologico anche in riferimento al delitto di ingiuria, sia pure a livello non di elementi costitutivi ma di quelli puramente accidentali, ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p. Si deve pertanto concludere che l'insegnamento tradizionale della dottrina pressoche' unanime secondo il quale sussiste un rapporto di specialita' unilaterale tra le due fattispecie, figurativamente rappresentato da due cerchi concentrici, colga esattamente nel segno. La tesi giurisprudenziale che ravvisa nell'abrogazione dell'art. 341 c.p. un caso di abolitio criminis ha utilizzato un ulteriore argomento tratto dalla lettera dell'art. 2, comma 3 c.p. che "parla (...) di leggi posteriori (e non coeve) che siano diverse da quelle del tempo in cui fu commesso il reato (e non le medesime), tanto che si dovrebbe concludere che "se una legge posteriore al fatto dispone l'abrogazione della norma incriminatrice specificamente applicabile alla condotta, in nessun modo si ha, per quel caso, l'espansione delle leggi coeve, che pure sarebbero applicabili ove la legge abrogata non fosse esistita" pena, si aggiunge, la violazione del principio di irretroattivita' in materia penale, perche' una legge, inapplicabile al fatto dell'epoca del suo venire in essere, risulterebbe applicabile successivamente (cfr. testualmente Cass., 11 febbraio 2000, n. 518 cit.). L'argomentazione si chiude con l'affermazione che con l'abrogazione dell'art. 341 c.p. il legislatore avrebbe compiuto una nuova valutazione della fattispecie e quindi una nuova disciplina del caso, ritenuta piu' opportuna, che pero' non potrebbe che valere che per il futuro, salvo espresse previsioni contrarie (in modo del tutto analogo al caso del binomio abrogazione - nuova incriminazione del tutto indipendente). Ne dovrebbe conseguire l'esclusione di fenomeni automatici di espansione di norme incriminatrici ai fatti pregressi, "qualunque rapporto vi fosse tra il disposto abrogato e quello sopravvissuto". Conclusione che viene infine avvalorata da un ulteriore argomento tratto dalla procedibilita'. Precisamente la continuita' dell'illecito tra oltraggio ed ingiuria sarebbe esclusa dalla pretesa inapplicabilita' dell'art. 19 legge n. 205/1999, in tema di rimessione in termini per sporgere querela, dal momento che la norma transitoria e' espressamente riferita "solo ai reati perseguibili a querela ai sensi delle disposizioni della presente legge o dei decreti legislativi da essa previsti" (ossia essenzialmente il furto semplice). Si tratta tuttavia di argomenti assolutamente non condivisibili. Al riguardo autorevole dottrina che si e' dedicata ex professo al tema delle successioni di legge penali nel tempo, ha chiarito che "il contenuto di una fattispecie non si apprezza come se questa fosse una monade isolata, ma nel contesto di tutte le disposizioni incriminatrici in concorso apparente, la cui introduzione (o la cui eliminazione) condiziona a priori l'applicabilita' delle altre e definisce l'ambito degli oggetti riconducibili a ciascuna di esse". Insomma occorre realisticamente prendere atto che l'art. 594 c.p., benche' rimasto immutato dal punto di vista letterale, sia sostanzialmente una norma diversa a seguito dell'abrogazione dell'art. 341 c.p., che in precedenza col primo era in indiscutibile rapporto di concorso apparente. Trattandosi di una norma diversa (anche se la disposizione di legge e' rimasta immutata) nulla esclude che possa porsi in rapporto di successione nel tempo con una norma precedente speciale che sia stata abrogata e possa trovare applicazione, se piu' favorevole, anche ai fatti pregressi, senza che sia per questo violato il principio di irretroattivita' in materia penale. La medesima dottrina sopra richiamata esclude in tali casi la violazione del principio di irretroattivita', proprio perche' "il fatto previsto dall'ipotesi speciale e' (...) riconducibile di per se' anche all'ipotesi generale: la riconoscibilita' obiettiva del suo carattere illecito e' quindi assicurata da due disposizioni incriminatrici in concorso apparente nel qualificame la rilevanza. Eliminata la disposizione speciale, non perde per cio' significato la valutazione espressa da quella generale, che essendo riferita ad una classe di oggetti necessariamente comprensiva anche di quella riportata alla norma speciale, ne perpetua ora il carattere tipico. In sostanza, non e' mutato il confine sistematico tra lecito e illecito penale tracciato esclusivamente dalla norma generale, ma solo la distribuzione di rilevanza penale per una medesima serie di situazioni". Sulla scorta di queste osservazioni si puo' osservare come "l'argomento delle leggi coeve" si converte nel suo contrario. Infatti e' proprio la preesistenza dell'art. 594 c.p., quale "disposizione di legge" e l'astratta riconducibilita' ad esso dei fatti di oltraggio in concreto esclusa dal concorso apparente con l'art. 341 c.p., ad escludere alla radice che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. possa comportare "una nuova valutazione del legislatore della fattispecie" in termini di illiceita' penale, in quanto tale applicabile solo ai fatti futuri e non pregressi, come se si trattasse di una "nuova incriminazione" (come a volte avviene in caso di abrogazione di una norma incriminatrice e sua sostituzione con altra norma "riformulata" in rapporto di eterogeneita' con la precedente). In casi del genere, infatti, si pone una stringente alternativa: o successione di leggi penali nel tempo e, dunque, applicazione della legge piu' favorevole (art. 2, comma 3 c.p.), salvo il limite del giudicato o abolitio criminis "secca", per i fatti pregressi ma anche per i fatti futuri. Non puo' escludersi, infatti, che l'abrogazione della norma speciale sia sorretta dalla volonta' del legislatore, anziche' di modificare la distribuzione di rilevanza penale, di trasferire le situazione gia' comprese nella norma speciale nella sfera del lecito. Ma in tal caso l'abolitio criminis dovrebbe necessariamente valere anche, ed anzi soprattutto, per il futuro, mentre e' senz'altro da escludere, come gia' detto, che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. possa comportare la piena liceita' penale delle offese all'onore e al prestigio dei pubblici ufficiali a causa e nell'esercizio delle loro funzioni. Da ultimo va disatteso anche l'argomento relativo alla procedibilita'. A parte l'osservazione che la piu' recente giurisprudenza tende ad applicare l'art. 19 legge n. 205/1999 (cfr. Cass., 19 settembre 2000, in Dir. pen. proc., 2001, 62) anche ai casi di oltraggio oggi riconducibili al delitto di ingiuria, va pero' radicalmente negato che il confine tra abolitio criminis e successione di leggi penali nel tempo possa essere tracciato in funzione del regime di procedibilita'. Infatti l'art. 2 c.p. considera esclusivamente il profilo sostanziale della persistente illiceita' penale o meno del fatto, senza alcun riferimento al regime di perseguibilita' del fatto medesimo. Invero, una volta accolta la tesi della natura della querela quale istituto di natura processuale, ne segue che in caso di successione di leggi penali nel tempo che modifichi la procedibilita' da ufficio a querela di parte, debba trovare applicazione il principio tempus regit actum, sicche' il reato sara' procedibile se al momento dell'esercizio dell'azione penale era ancora procedibile d'ufficio, a nulla rilevando che successivamente sia stato reso procedibile a querela di parte. Ne deriva ulteriormente che, come efficacemente e' stato osservato in dottrina, l'art. 19 legge n. 205/1999 costituisce una deroga alla disciplina sopra tratteggiata, mirando a favorire la rinuncia dell'offeso alla repressione penale e a potenziare anche tardivamente, ovvero a processo iniziato, la finzione deflattiva della procedibilita' a querela, mediante l'introduzione di una condizione di improcedibilita' sopravvenuta rimessa alla volontaria inerzia della vittima. In questa prospettiva non vi e' ragione di escludere l'applicabilita' della norma anche ai fatti di oltraggio "trasformati" in ingiuria. Si deve quindi in definitiva affermare che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. non integri una vera e propria abolitio criminis ma costituisca un caso di successione di leggi penali nel tempo tra lo stesso art. 341 c.p. e l'art. 594 c.p. e cio' qualunque sia il criterio che si ritenga di dover seguire per distinguere tra le due ipotesi (continuita' dell'illecito, mediazione del fatto concreto, rapporto strutturale tra fattispecie in termini di contenenza o di specialita). Infine non sembra neppure praticabile un'interpretazione estensiva dell'art. 673 c.p., tale da recidere il legame sussistente con l'art. 2, comma 2 c.p. ed assicurare l'applicabilita' della norma anche al di fuori dai casi dell'abolitio criminis. A prima vista una simile prospettiva sembrerebbe trovare conferma nell'ampia formulazione della norma che fa riferimento all'"abrogazione ... della norma" e non specificatamente all'abolizione del reato, espressione che compare solo nella rubrica che, come e' noto, non ha alcun valore vincolante per l'interprete. Sennonche' una simile prospettiva va con certezza esclusa per un triplice ordini di motivi. Anzitutto dall'assenza di qualsiasi riferimento nella legge delega ad ammettere deroghe alla disciplina prevista dall'art. 2 c.p. (cfr. art. 2 punti n. 96, 97 e 98) deriva che l'interpretazione qui criticata implicherebbe delicati problemi di costituzionalita' della norma per eccesso di delega, in riferimento all'art. 77 della Costituzione. In secondo luogo dottrina e giurisprudenza interpretano pacificamente la norma come riferita esclusivamente ai casi di cui all'art. 2, comma secondo c.p. (cfr. Cass., 7 maggio 1998, n. 1002, in Arch. nuova proc. pen., 1998, 604; Cass., 4 luglio 1996, n. 1397, in Rir pen. 1997, 58; Cass. 20 agosto 1994, n. 2403; Cass. 3 dicembre 1991, n. 3285). In terzo luogo ed infine e' lo stesso rimedio previsto, ossia la "revoca" della sentenza di condanna, a chiarire che esso puo' trovare applicazione solo nel caso in cui il fatto per il quale e' intervenuta la condanna e' divenuto, per effetto dell'intervento della legge successiva, penalmente lecito, essendo evidente che nel caso di mera modificazione della disciplina penale, sia pure in senso piu' favorevole per il condannato, e' del tutto inconcepibile una "revoca" della condanna, dovendosi comunque applicare, a norma dell'art, 2, comma terzo c.p., la disciplina piu' favorevole tra quelle in successione nel tempo. Si deve pertanto concludere che, in base al diritto vigente, al caso di specie non puo' trovare applicazione l'art. 673 c.p.p., implicitamente invocato dalla difesa, bensi' l'art. 2, comma terzo c.p. ed essendo pacifico che e' intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna la richiesta andrebbe respinta puramente e semplicemente. Questa conclusione puo' tuttavia essere accolta solo previa esclusione di dubbi di legittimita' costituzionale non manifestamente infondati e rilevanti, che invece questo tribunale ritiene sussistenti. 2. - (segue): rapporto di subordinazione logica tra le questioni proposte. Posta questa premessa le questione di legittimita' costituzionale rilevanti sono essenzialmente due. La prima attiene alla disciplina di cui al combinato normativo di cui all'art. 2, comma terzo c.p. e 673 c.p.p., nella parte in cui non consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo e conseguente all'abrogazione di una norma incriminatrice, perlomeno nei casi in cui l'intervento legislativo viene a porre in discussione addirittura l'an della sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilita' del reato oppure non solo del quantum ma anche della species di pena, prevedendo la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva. La rilevanza della questione appare in tutta evidenza, essendo il reato di ingiuria procedibile solo a querela di parte e punibile con la pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, mentre il reato di oltraggio era procedibile d'ufficio e con pena obbligatoriamente detentiva. Ne deriva che in caso di sentenza d'accoglimento della Corte costituzionale, il venir meno del limite del giudicato previsto dall'art. 2, comma terzo c.p., consentirebbe in sede di procedimento di esecuzione la piena applicabilita' della nuova disciplina piu' favorevole. L'altra questione attiene direttamente all'art. 341 c.p., benche' norma formalmente abrogata e la relativa rilevanza puo' apprezzarsi in riferimento ai procedimenti di esecuzione relativi a sentenze di condanna passate in giudicato, perche' un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 341 c.p. comporterebbe l'applicazione dell'art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, in luogo della disciplina di cui all'art. 2 c.p., In base a tale norma "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali" (comma quarto). E' evidente che tale disciplina se in nulla si discosta dall'art. 2, comma 2 c.p. per il caso di abolitio criminis, comporta una sostanziale differenza per il caso di intervento meramente modificativo, perche' mentre l'art. 2, comma 3 c.p. prevede il limite del giudicato per l'applicabilita' della disciplina piu' favorevole, l'art. 30 cit. citato, non distinguendo tra l'ipotesi dell'abolitio criminis e quella dell'intervento meramente modificativo conseguente all'abrogazione della norma incriminatrice, impone sempre e comunque efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalita', senza alcun limite. Cio' appare del tutto congruente con la natura e gli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale che, secondo l'interpretazione largamente prevalente, comportano il venir meno della norma dichiarata incostituzionale con effetto ex tunc, sicche' va escluso il presupposto stesso di un fenomeno di successione di leggi penali del tempo, ossia il succedersi nel tempo di piu' leggi tutte ugualmente valide ed efficaci. La contraria conclusione raggiunta da un'isolata e risalente giurisprudenza si pone pertanto in contrasto sia con la lettera che con la ratio della legge (cfr. Cass., 19 luglio 1983, n. 1375). In particolare non sembra seriamente sostenibile sulla base del solo rilievo secondo il quale la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza di condanna sarebbe possibile solo nel caso in cui la dichiarazione d'incostituzionalita' della norma incriminatrice, renda leciti i comportamenti da questa puniti, analogamente a quanto accade in caso di abolitio criminis, mentre nell'ipotesi in cui la dichiarazione di incostituzionalita' comporti l'applicabilita' di una diversa norma incriminatrice, piu' favorevole, si dovrebbe procedere ad una "modifica" del giudicato, non prevista dall'art. 30 cit. Infatti il chiaro significato della norma e' quello di escludere in materia penale qualsiasi applicazione della norma incriminatrice dichiarata incostituzionale, senza che possa avere alcun rilievo l'intervento di un giudicato e lasciando del tutto impregiudicato il meccanismo processuale attraverso il quale raggiungere questo risultato. A quest'ultimo riguardo va poi osservato che una "modifica" del giudicato e' tutt'altro che estranea al sistema di diritto processuale penale vigente, sol che si pensi alla fattispecie di cui all'art. 671 c.p.p. e, nell'ambito dello stesso art. 673 c.p.p., al caso in cui il giudicato attenga a piu' reati, magari uniti nel vincolo della continuazione, solo uno dei quali oggetto di abolitio criminis. E' pacifico che in tal caso il giudice dell'esecuzione debba provvedere ad una sostanziale modifica del giudicato o, se si preferisce, ad una revoca parziale della sentenza di condanna, con rideterminazione della pena in riferimento ai reati non oggetto di abolitio. Se le premesse interpretative che precedono sono corrette la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., appare, nonostante la sua intervenuta abrogazione, ancora rilevante, appunto perche' il suo eventuale accoglimento comporterebbe la necessaria applicazione dell'art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 e, conseguentemente, dell'art. 673 c.p.p. perlomeno in via analogica, con il sostanziale accoglimento della richiesta mentre, al contrario, dovrebbe trovare applicazione l'art. 2, comma 3 c.p., con il conseguente rigetto della richiesta medesima. Insomma l'eventuale incostituzionalita' dell'art. 341 c.p. non potrebbe inevitabilmente che riflettersi sull'illegittimita' di qualsiasi esecuzione di sentenze penali di condanne, per quanto irrevocabili, per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale. Quanto ai rapporti logici tra le due questioni di legittimita' costituzionale sopra evidenziate, si deve attribuire valore di questione "principale" a quella relativa al combinato di cui all'art. 2, comma 3 c.p. e 673 c.p.p., sia perche' viene in considerazione in via piu' immediata e diretta nel procedimento di esecuzione sia perche' le relative censure coinvolgono tutti i casi di successione di leggi penali nel tempo in cui la legge successiva piu' favorevole modifica il regime di procedibilita' del reato o la stessa specie di pena, sicche' il suo accoglimento avrebbe effetti di piu' ampia e generale portata. Una volta riconosciuta nella specie la ricorrenza di un'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e non di una vera e propria abolitio criminis ne deriva l'immediata impossibilita' di applicare l'art. 2, comma 2 e, correlativamente, dell'art. 673 c.p.p., dovendosi al contrario trovare applicazione l'art. 2, comma 3 c.p. nella parte in cui fa salvi in tali casi gli effetti del giudicato anche se la disciplina successiva sia piu' favorevole. Nel procedimento di esecuzione sono queste le norme che vengono immediatamente in considerazione, essendo in prima battuta ed in linea di principio irrilevante la norma incriminatrice che ha trovato applicazione in sede di cognizione. Pertanto solo una volta data applicazione alla disciplina indicata e, dunque, rigettata la richiesta di revoca della condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p., mediante anche il superamento di tutti i dubbi di legittimita' costituzionale che la stessa solleva, si pone l'ulteriore problema della permanenza di una esecuzione penale di una sentenza di condanna che ha dato applicazione di una norma incriminatrice - l'art. 341 c.p. - che in ipotesi si assume incostituzionale. Appare in conclusione evidente che la seconda questione assume rilievo solo a condizione che l'altra sia dichiarata infondata o inammissibile, perche' non ha senso porsi il problema della legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., in riferimento all'esecuzione di una sentenza penale di condanna per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, se fosse gia' possibile intervenire in sede esecutiva sul giudicato in senso modificativo, dando applicazione alla lex mitior nel frattempo intervenuta. 3. - I dubbi di costituzionalita' del combinato normativo di cui all'art 2. comma terzo. cp. e 673 c.p.p. Riguardo alla questione di legittimita' costituzionale della disciplina di cui all'art. 2, comma terzo c.p. e dell'art. 673 c.p.p., in caso di modifica legislativa in senso migliorativo, con riferimento al limite all'applicazione della lex mitior rappresentato dal giudicato, e' bene premettere che l'art. 25, comma secondo della Costituzione non ha espressamente costituzionalizzato il principio di retroattivita' della disciplina penale piu' favorevole, essendosi limitato a sancire il principio di irretroattivita' delle norme penali sfavorevoli. Si deve pertanto ritenere in prima battuta che i principi espressi dall'art. 2 c.p. hanno una diversa portata ed efficacia, essendo il principio di irretroattivita' delle norme sfavorevoli (comma primo) costituzionalizzato ed essendo invece il principio di retroattivita' delle norme favorevoli (commi secondo e terzo) operante solo sul piano della legge ordinaria e, pertanto, suscettibile in linea di principio sia di espresse deroghe legislative sia di limiti posti in via generale. Tuttavia la piena adesione ad un siffatto ordine di idee presuppone, ad avviso di questo tribunale, la piena individuazione della ragione giustificativa dei vari principi sopra illustrati. Secondo l'impostazione che sembra preferibile occorre distinguere la ratio che sorregge il principio di irretroattivita' delle norme sfavorevoli da quella che sorregge il diverso principio di retroattivita' delle norme favorevoli, piuttosto che riferirsi ad un generico ed indistinto favor libertatis. Il fondamento del primo infatti va rinvenuto sul piano politico garantista ossia nell'esigenza di tutelare il cittadino nei confronti di possibili abusi del potere legislativo, individuando uno dei momenti essenziali caratterizzanti il principio di legalita', insieme al principio di tassativita' e di divieto di analogia in malam partem, posto a tutela contro possibili abusi del potere giudiziario, nonche' del principio della riserva assoluta di legge, posto a tutela contro possibili abusi del potere esecutivo. Viceversa il fondamento della regola di retroattivita' delle norme favorevoli andrebbe ravvisato nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), sotto il profilo della parita' sostanziale di trattamento. Una simile impostazione sembra preferibile, perche', da un lato, meglio giustifica la diversa portata dei due principi e, dall'altro, lascia impregiudicato il problema della costituzionalita' delle disparita' di trattamento conseguenti ai singoli limiti e alle deroghe alla retroattivita' delle norme favorevoli, in riferimento al generale principio di ragionevolezza delle leggi, desumibile dall'art. 3 Cost. Se si pone tuttavia mente al fatto che in diritto penale l'esigenza di parita' sostanziale di trattamento, assume una valenza ed un significato tutto particolare, venendo ad incidere su beni e diritti fondamentali della persona quali la liberta' (art. 13 Cost.) e la dignita' personale (art. 2 Cost.), si deve anche giungere alla conclusione che il criterio di "ragionevolezza" delle leggi quale limite per il legislatore deve necessariamente ritenersi piu' rigoroso rispetto che ad altri settori dell'ordinamento. Da questo punto di vista il principio di retroattivita' della norma favorevole puo' ritenersi "indirettamente" costituzionalizzato, nel senso che deroghe ad esso possono ritenersi ammissibili solo se ragionevoli, tenendo tuttavia presente il rango primario degli interessi sui quali vengono ad incidere. Una simile conclusione e' avvalorata dal rilievo che l'esigenza di parita' sostanziale di trattamento non puo' essere apprezzata disgiuntamente al principio di offensivita' (art. 25, comma secondo Cost.), da un lato, e di proporzione dall'altro (art. 27, comma terzo Cost.). E' evidente infatti che accogliere il principio d'uguaglianza di trattamento in rapporto alla mutata considerazione in termini di inoffensivita' (abolitio criminis) o minore offensivita' (art. 2, comma terzo c.p.) del fatto oggetto dell'intervento legislativo, significa aderire ad un modello di diritto penale ispirato al principio di materialita', che e' accolto dalla Costituzione. Viceversa ricollegare la sanzione alla valutazione legislativa vigente al momento della commissione del fatto significa attribuire rilevanza decisiva non gia' all'oggettiva valutazione legislativa, bensi' all'elemento della soggettiva disobbedienza o infedelta' alla legge. Va inoltre osservato che la ratio sottesa al limite del giudicato posto dall'art. 2, comma terzo c.p. e' eminentemente pratica, connessa cioe' all'esigenza di economia processuale d'evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravvenire di modifiche normative. Un fondamento certamente meno "alto" ed importante rispetto al fondamento alla regola della retroattivita' della norma favorevole, cosi' come sopra si e' individuato. Fondamento inoltre che lo stesso legislatore non ha ritenuto sufficiente per limitare l'applicazione retroattiva della norma favorevole in caso di abolitio criminis. Da questo punto di vista il limite in parola rischia di manifestare un'intrinseca irragionevolezza sia in rapporto alla diversa regola di cui al secondo comma dell'art. 2, comma secondo c.p., sia all'interno dei casi di mero intervento modificativo, in senso favorevole, da parte del legislatore. Sotto il primo profilo potrebbe infatti mettersi in discussione la ragionevolezza di una diversa disciplina tra abolitio criminis e mera modifica della disciplina legislativa, almeno nei casi in cui quest'ultima pone in discussione, come nel caso di specie, non solo il quantum della sanzione ma lo stesso an, mediante la previsione di una condizione di procedibilita' prima non richiesta. Sotto il secondo profilo la disciplina denunciata appare difficilmente armonizzabile col principio di parita' di trattamento, ove si consideri che legittima effetti sanzionatori diversi per fatti identici commessi da due soggetti nel medesimo tempo, solo a ragione del diverso momento in cui interviene il giudicato, momento che appare essere un mero accidente, dovuto ad elementi del tutto causali, spesso condizionati dal concreto uso del potere discrezionale del p.m. nella scelta dei concreti modi di esercizio dell'azione penale, che e' obbligatoria (si pensi, ad es., alla scelta del rito direttissimo). Da questo punto di vista non sembra che il giudicato comporti una sufficiente differenziazione dei casi posti a raffronto tale da giustificare questa conclusione, appunto perche' cio' che rileva, in riferimento alla parita' di trattamento, e' il rapporto tra il singolo cittadino ed il potere punitivo dello Stato, in relazione alla mutata considerazione legislativa del fatto commesso, mentre le esigenze pratiche sottese al limite del giudicato non trovano diretto riscontro. Pertanto mentre un diverso trattamento potrebbe trovare giustificazione nel caso in cui i due soggetti hanno commesso il fatto in tempo diversi, rispetto all'intervento della modifica legislativa, la stessa conclusione non dovrebbe essere ammessa in dipendenza di un fattore del tutto casuale e totalmente indipendente dalla condotta e dalla volonta' del reo, qual e' l'intervento del giudicato. Cio' perlomeno nel caso in cui la modifica legislativa non incida solo su aspetti secondari o solo sui limiti edittali di pene ma comporti, come nel caso di specie, una modifica del regime di procedibilita' e della stessa specie di pena, irrogabile, determinando il passaggio da una pena obbligatoriamente detentiva ad una pena pecuniaria, sia pure in via alternativa. In simili casi infatti vengono in considerazione anche: l'art. 13 Cost., in riferimento al bene supremo della liberta' personale che verrebbe sacrificato anche in presenza di un fatto che, alla stregua della nuova valutazione legislativa, potrebbe essere punito con la mera multa; l'art. 25, comma secondo Cost., in riferimento al principio di offensivita' ed in relazione al principio di proporzione tra fatto e pena di cui all'art. 27, comma terzo Cost., dal momento che a quel fatto verrebbe collegata una pena non piu' corrispondente alla valutazione di offensivita' compiuta dal legislatore. D'altra parte assumere quale ragione giustificativa della disciplina denunziata l'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, non tiene adeguatamente conto del fatto che la vicenda della sanzione penale, specie se detentiva, non sembra possa ritenersi esaurita col semplice intervento del giudicato. Si pensi infatti agli interventi sulla pena praticabili mediante gli strumenti della sorveglianza o alla possibile applicazione dell'amnistia o dell'indulto in corso di esecuzione a norma dell'art. 672 c.p.p. A rigore anzi neppure l'effettiva espiazione della pena consente di ritenere del tutto esaurita la relativa vicenda, dal momento che la revoca della sentenza di condanna potrebbe ancora determinare gli effetti di cui all'art. 657, comma secondo, c.p.p. Si consideri infine il dato secondo il quale nel moderno diritto penale l'intangibilita' del giudicato e' generalmente assunta non tanto a tutela di una astratta certezza dei rapporti giuridici, quanto piuttosto a tutela della liberta' personale dell'interessato, in relazione al divieto del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.). L'irragionevolezza della disciplina denunziata potrebbe infine essere argomentata anche dai notevoli poteri di intervento riconosciuti al Giudice dell'esecuzione dal nuovo codice di rito, ignoti al precedente sistema processuale, coinvolgenti spesso valutazioni anche di merito. Si pensi alla disciplina del riconoscimento della continuazione in sede esecutiva ai sensi dell'art. 671 c.p.p. e 188 disp. att. Si pensi ancora alla stessa disciplina della revoca della sentenza in conseguenza dell'abolito criminis ai sensi dell'art. 673 c.p.p., che, a ben vedere, comporta spesso la necessita' di penetranti indagini di merito, soprattutto nei casi in cui all'abolizione del reato si accompagni una riformulazione della fattispecie, come i casi della detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale e dell'abuso di ufficio, hanno esaurientemente reso manifesto, sicche' appare davvero poco ragionevole, ed in relazione alla stessa ratio di economia processuale che lo sorregge, far permanere il limite del giudicato proprio nei casi in cui la revoca o la modifica della condanna conseguirebbe in modo del tutto agevole ad un mero giudizio di determinazione della pena, alla stregua della nuova valutazione legislativa. Un ultimo profilo di possibile illegittimita' costituzionale puo' essere indicato. La disciplina in parola, ricollegando efficacia dirimente alla distinzione tra abolitio criminis ed intervento legislativo meramente modificativo, potrebbe comportare un possibile contrasto col principio di determinatezza di cui all'art. 25, comma secondo Cost. Infatti non appare azzardato, in relazione alla ratio di garanzia della liberta', affermare che il principio di determinatezza sia riferibile non solo alle norme incriminatrici ma a tutte le fattispecie che, in qualunque fase processuale, condizionano in concreto l'esecuzione di una sanzione penale, specie se detentiva, come appunto accade in tema di successione di leggi penali nel tempo in riferimento alla revoca della condanna a norma dell'art. 673 c.p.p. Ora e' ben noto le difficolta' che, nei casi piu' complessi, si incontrano per distinguere i casi di vera e propria abolitio criminis dai casi di intervento meramente modificativo e cio' gia' in via astratta, come e' reso palese dalla proposta da parte della dottrina di teorie complesse e diversificate (quella della mediazione del caso concreto, quella della continuita' del tipo di illecito, quella della contenenza, ecc...), comunque non risolutive e tali comunque da rendere spesso necessario un giudizio di valore da parte dell'interprete. Viceversa l'accoglimento della questione di costituzionalita' in questa sede proposta consentirebbe di svincolare una materia tanto importante da astratte teorie dogmatiche e da interpretazioni opinabili, ancorandola ai concreti effetti delle singole riforme legislative, nel senso cioe' che l'art. 673 c.p.p. dovrebbe trovare sempre applicazione, con la revoca o la modifica della condanna, tutte le volte in cui l'applicazione della legge piu' favorevole intervenuta escluda la punibilita' del fatto, per qualsiasi ragione (anche attinenti al regime di procedibilita) ovvero l'applicazione di una pena detentiva. 4.a). - I dubbi di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p.: introduzione. Questo tribunale e' ben consapevole che l'art. 341 c.p., sin dagli anni `60, e' stato oggetto di cio' che efficacemente e' stato chiamato un "attacco in massa" da parte dei giudici di merito, che hanno sollevato la questione di legittimita' costituzionale sotto i piu' disparati profili, in gran parte coincidenti con quelli che si andranno di seguito ad evidenziare; e che la Corte costituzionale, sin dal primo precedente, risalente ormai a quasi 30 anni or sono (sentenza 2 - 19 luglio 1968 n. 109), ha sempre respinto la questione, sino all'importante sentenza 25 luglio 1994 n. 341 che ha dichiarato l'incostituzionalita', con riferimento agli art. 3 e 27, comma 3 Cost., dell'art. 341, comma 1 c.p., nella parte in cui prevede la pena di mesi 6 di reclusione come minimo edittale. Tuttavia si deve ritenere non inutile sollevare nuovamente la questione, in riferimento agli artt. 1, comma secondo, 3, comma primo e secondo, 25, comma secondo, 27, comma terzo, 54 e 97, comma 1 Cost., in ordine non solo ad alcuni aspetti di disciplina (procedibilita' e pena), ma anche, e soprattutto, alla sussistenza stessa del reato, cosi' come era strutturato dalla norma incriminatrice sospetta e costantemente applicato dalla giurisprudenza. D'altra parte sembra a questo Collegio non manchino importanti elementi di novita', sia sul versante delle norme costituzionali, in parte gia' evidenziati dalla sentenza n. 314/1994, sia sul versante della norma ordinaria sospetta. Dal primo punto di vista viene in considerazione la correlazione sistematica tra alcuni principi costituzionali fondamentali, principi dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti tra Stato e cittadino nonche' alla forma democratica di Stato, oltre al fatto che nella giurisprudenza costituzionale e' in corso un'importante rivalutazione dei vincoli imposti al legislatore in materia penale. Ci si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3 Cost., riferita non piu', come in passato, alla sola fase esecutiva, ma ritenuta una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, (cfr. la stessa sentenza 341/94 e, per un significativo precedente, la sentenza l8 luglio 1989 n. 409) con il conseguente riconoscimento del principio c.d. di proporzione tra pena e offesa, non solo sul piano politico-criminale ma anche su quello costituzionale e, pertanto, vincolante per il legislatore. Attiene inoltre alla recente valorizzazione della riserva di legge in materia penale di cui all'art. 25 comma 2 Cost., con riferimento al principio di determinatezza (cfr. sentenze 6 febbraio 1995 n. 34 e 17 ottobre - 2 novembre 1996 n. 370) e, piu' in generale, dei principi di offensivita', di frammentarieta' e di sussidiarieta' (cfr. sentenze 23 - 25 ottobre 1989 n. 487 e 10 - 11 luglio 1991 n. 333). Dal secondo punto di vista si potranno utilizzare non solo gli spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie e nuove, della dottrina, nel cui ambito il dibattito sulla legittimita' della sussistenza stessa della fattispecie, prima ancora della relativa disciplina sanzionatoria, e' piu' che mai aperto all'indomani della sentenza 341/94. 4.b). - Segue: elementi costitutivi del reato di oltrazzio a pubblico ufficiale e, rapporti col reato di ingiuria. Gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p., sul piano oggettivo, sono: 1) l'offesa, resa con qualsiasi mezzo, all'onore o al prestigio del soggetto passivo; 2) lo status di pubblico ufficiale del soggetto passivo; 3) la presenza del soggetto passivo; 4) il legame tra l'offesa e le pubbliche funzioni che si risolve, in via alternativa, o in un nesso di causalita' psicologica (a causa delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere rivolta propter officium ossia a motivo delle funzioni esplicate dal pubblico ufficiale e, in tal caso, il reato puo' essere integrato anche se il soggetto passivo, al momento del fatto, non rivesta piu' la qualita' di pubblico ufficiale a norma dell'art. 360 c.p. (Cass. 2 ottobre 1985 n. 8454), oppure in un nesso cronologico di contestualita' (nell'esercizio delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere arrecata, anche per motivi puramente personali, ma nel momento in cui il pubblico ufficiale sta' esercitando le proprie funzioni. Per onore s'intende l'insieme delle qualita' morali della persona, quale bene strettamente personale, componente essenziale di quella dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 Cost. e, in quanto tale, annoverabile nei diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 Cost., mentre il prestigio viene inteso come quella particolare forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto passivo, e attinente alla dignita' e al rispetto da cui la pubblica funzione deve essere circondata (cfr., in particolare, la Relazione al codice penale, 140). L'offesa a tali beni va apprezzata in relazione a parametri socio-culturali di valutazione che consentono di ritenere come oltraggiosa oppure no quella data espressione o quel dato gesto in rapporto con tutte le circostanze del caso concreto. Il particolare status che deve rivestire il soggetto passivo e' definito dall'art. 357 c.p., mentre il requisito della presenza viene generalmente inteso nel senso che la condotta incriminata deve essere compiuta in una situazione spaziale tale da rendere semplicemente possibile la percezione dell'offesa al destinatario della medesima. Infine il requisito individuato dall'espressione a causa o nell'esercizio delle sua funzioni, che nella struttura del reato dovrebbe svolgere la funzione di ricondurre la fattispecie nell'ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, si risolve, nel primo caso, in una caratterizzazione eminentemente soggettiva della condotta, essendo in sostanza elevato un semplice movente ad elemento di tipicita', e, nel secondo caso, in una modalita' spazio-temporale dell'azione e dunque in un elemento intrinsecamente oggettivo. Poiche', come si e' visto, il prestigio viene considerato una particolare forma di decoro collegata allo status soggettivo di pubblico ufficiale, si deve ritenere che la condotta tipica sia la medesima rispetto a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.). Gli elementi differenziali, in funzione specializzante, tra le due fattispecie, si esauriscono nello status del soggetto passivo e nell'elemento espresso con la formula a causa o nell'esercizio delle sua funzioni. Sennonche' se a base del confronto si assume non il reato di ingiuria nella forma semplice ma il reato di ingiuria nella forma aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p., non si potra' negare una perfetta identita' di struttura tra le due fattispecie, una volta ammessa, secondo l'opinione comune sia in dottrina che, ormai, in giurisprudenza, l'identita' tra la formula nell'esercizio delle funzioni, utilizzata dall'art. 341 c.c., e la formula nell'atto ... dell'adempimento delle funzioni di cui all'art. 61 n. 10 c.p. Infatti nel momento in cui la giurisprudenza e' venuta giustamente a respingere l'opinione secondo la quale devono essere sempre considerati nell'esercizio delle proprie funzioni quei pubblici ufficiali che, essendo investiti di compiti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, sono in servizio permanente, per accogliere l'opposta opinione secondo la quale servizio permanente non equivale ad effettivo esercizio della funzione, sicche' finche' il pubblico ufficiale in concreto non svolga la propria funzione non puo' ritenersi integrato il reato di cui all'art. 341 c.p. (Cass. 21 marzo 1997 n. 2727 e Cass. 19 febbraio 1996 n. 5027), viene meno la possibilita' stessa di tracciare una differenziazione tra le due formule. Cio' non toglie che tra le due fattispecie vi fossero profonde differenze di disciplina, non solo in ordine all'aspetto sanzionatorio (l'ingiuria e' punibile con la pena fino a un anno di reclusione o della multa fino a lire due milioni, aumentata sino ad un terzo per l'effetto dell'aggravante, effetto che peraltro puo' essere posto nel nulla in ragione del giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti; l'oltraggio era punito con la sola pena della reclusione sino a 2 anni), ma anche con riferimento alla procedibilita' (a querela di parte per l'ingiuria e d'ufficio per l'oltraggio) e dell'estensione delle condotte punibili, sotto il profilo delle cause di giustificazione e/o di esclusione della punibilita', essendo per costante giurisprudenza, inapplicabili all'oltraggio, neppure in via analogica, la c.d. exceptio veritatis (art. 596 c.p.) e gli istituti della provocazione e della ritorsione (art. 599 c.p.). Ed era proprio questa differenza cosi' marcata di disciplina, in mancanza di differenze strutturali, a destare seri dubbi di legittimita' costituzionale soprattutto in riferimento agli artt. 3 e 27, comma 3 Cost. Per il momento e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed estensione della fattispecie cosi' come era strutturata dalla norma incriminatrice, che la rendeva capace di abbracciare un numero di condotte veramente considerevole. Cio' era dovuto in primo luogo all'estrema ampiezza della formula linguistica utilizzata, diretta conseguenza del fatto che il legislatore del 1930 si era dichiaratamente prefissato di rendere in materia piu' completa e rigorosa la tutela giuridica degli organi e dell'attivita' dei pubblici poteri (Relazione, 141), ma non vanno sottovalutati anche gli effetti di fattori esterni alla norma medesima. Si pensi al crescere della presenza dello Stato nei piu' disparati settori e al conseguente riconoscimento della qualita' di pubblico ufficiali a categorie sempre piu' vaste e variegate di soggetti. L'ampiezza della fattispecie rischia di entrare in conflitto con l'art. 25, comma 2 Cost., sotto il profilo della mancanza di sufficiente determinatezza. Risulta tuttavia imprescindibile, affrontare con cura il tema del bene giuridico protetto e della finalita' di tutela, perche' il deficit di determinatezza per eccessiva onnicomprensivita' della realta' rappresentata (cosi' la circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri 5 febbraio 1986 in Gazzetta Ufficiale 18 marzo 1986 n. 64, 18), attiene non semplicemente al dato, in se' neutro, dell'eccessiva estensione della fattispecie in quanto tale, ma piuttosto alla selezione, in un'unica fattispecie, di condotte tra loro diverse ed eterogenee quanto a disvalore. 4.c). - Individuazione del bene giuridico protetto. Venendo pertanto all'individuazione del bene giuridico protetto, si puo' in prima battuta affermare con certezza che l'art. 341 c.p. tutelava anche il bene personale dell'onore e del prestigio del p.u., come persona fisica, che in nulla si distingue dal bene dell'onore e del decoro tutelato dall'art. 594 c.p. Cio' e' confermato e provato dall'identita' strutturale tra il reato di oltraggio ed il reato di ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p. Sennonche' costituisce opinione comune che l'art. 341 c.p. proteggesse un ulteriore bene giuridico, a piu' marcata connotazione pubblicistica, generalmente individuato nel prestigio (non del p.u. come persona fisica ma) della pubblica amministrazione e, talvolta, addirittura nel principio del buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., cosi' venendo a caratterizzarsi come tipico reato plurioffensivo. La stessa Corte costituzionale ha, fin dal primo precedente, aderito a quest'impostazione, riferendosi tuttavia talvolta al prestigio della p.a. puramente e semplicemente (sentenza n. 109/68), tal'altra ancora al prestigio della p.a. ma in ragione della finalita' del buon andamento amministrativo prevista dall'art. 97 Cost., coinvolgente non solo la fase organizzativa iniziale ma anche il complessivo funzionamento (sentenza 2 - 14 aprile 1980 n. 51 e, sostanzialmente, ordinanza 10 - 17 marzo 1988 n. 323). Persino la sentenza di accoglimento n. 341/94 sottolineava, in via generale, questo aspetto osservando come la plurioffensivita' del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu' grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione. Affermazioni in tutto analoghe si rinvengono in dottrina ed in giurisprudenza, ove spesso compaiono locuzioni ancora piu' generiche, quali il "regolare" o "sereno" esercizio delle pubbliche funzioni. Si deve tuttavia osservare che si tratta normalmente di affermazioni apodittiche, assunte quali postulati e come tali non bisognevoli di argomentazione o dimostrazione e, in particolare, senza che vi sia mai, o quasi, alcun approfondimento ne' in relazione alla piu' specifica determinazione del bene protetto, atteso che gli stessi beni del "prestigio" o del "buon andamento" della p.a. possono essere intesi in modo assai vario, ne' in relazione al tipo di raccordo tra il bene che si assume protetto e la tecnica di strutturazione della fattispecie. Ma, come e' noto, la valutazione della rilevanza e pregnanza dell'offesa insita nel reato comporta la necessita' di considerare non solo e semplicemente il rango del bene giuridico che si assume offeso ma anche il grado di offesa (che decresce quanto piu' ci si allontani dallo stadio dell'effettiva lesione per avvicinarsi allo stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia delle forme di aggressione indicate dalla norma incriminatrice. Al riguardo si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341 c.p., si sia verificato un singolare, ma per certi versi assai significativo, fenomeno di commissione e o di confusione, tra il piano del bene giuridico protetto ed il piano, che dovrebbe invece rimanere rigorosamente distinto, della ratio o scopo politico - criminale della norma. Va allora ribadito che puo' essere individuato come bene giuridico protetto solo quello immancabilmente offeso dal fatto tipico selezionato o, comunque, quello desumibile dall'interpretazione dei singoli elementi del reato nei loro reciproci rapporti. Cio' del resto e' confermato dall'osservazione che il concetto di bene giuridico puo' svolgere la funzione che gli e' propria in riferimento alla struttura dell'illecito penale solo a condizione che esso sia sufficientemente "afferrabile" e determinato, anche in relazione al principio di determinatezza di cui all'art. 25, comma 2 Cost. Diverso e' invece il concetto di scopo o fine che, sul piano politico criminale, ci si propone di perseguire con l'incriminazione, trattandosi di un elemento esterno alla norma, desumibile anche da considerazioni di ordine generale, spesso condizionate da contingenze sociali, economiche, culturali e storiche. Si tratta di un concetto certamente molto importante, anche sul piano interpretativo, ma che non implica una cosi' stretta necessita' di rinvenire in ogni singola condotta punita il fine perseguito sul piano generale. 4.d). -(segue) Analisi storica della norma: dal codice Zanardelli al codice Rocco. Al fine di verificare criticamente la fondatezza della tesi della plurioffensivita' del reato di oltraggio a p.u. puo' tornare utile una breve analisi storica della norma, giacche' e' innegabile una connotazione fortemente storicizzata della fattispecie in esame (cfr. sentenza 28 giugno - 12 luglio 1995 n. 313). In proposito fin dal principio la Corte costituzionale, nelle molteplici pronunce di rigetto o di manifesta infondatezza, non ha pur tuttavia mancato di rimarcare come la disciplina legislativa dell'oltraggio, cosi' come delineata dal codice Rocco troppo risente dell'ideologia del regime dal quale ebbe origine, e di ammettere che rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione comminata e disvalore del fatto, espressamente invitando il legislatore a adeguare il minimo edittale e lo stesso disvalore della fattispecie, alla mutata coscienza sociale ed allo spirito informatore della Costituzione (cfr., tra le tante, ordinanze 6 - 16 marzo 1989 n. 127 e 10 - 17 marzo 1988 n. 323). Nella sentenza di accoglimento n. 341/94, poi, oltre a precisare che la concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, tipica del regime totalitario di cui l'art. 341 c.p. era espressione, e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa' non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima, la Corte si spinge sino al punto di ritenere che l'inerzia del legislatore avesse superato ogni limite di ragionevole tollerabilita'. Non abbisogna pertanto di ulteriori dimostrazioni il fatto che il reato di oltraggio fosse inteso dal legislatore del 1930 come una salvaguardia dell'autorita' statale in quanto tale, finendo per rappresentare una super-tutela accordata da uno Stato autoritario a se' stesso e riallacciandosi alle concezioni proprie degli Stati teocratici ed assolutistici, alla concezione della sovranita' come sacra ed inviolabile nella sua diretta emanazione divina, dei funzionari come diretta emanazione del sovrano, dei singoli come sudditi e non come cittadini. Del resto cio' e' sufficientemente testimoniato dal raffronto con la disciplina della materia contenuta nel codice Zanardelli del 1889 (artt. 194 - 199). Infatti il codice Rocco non si e' limitato ad una modifica della disciplina sanzionatoria, peraltro assai vistosa (il codice Zanardelli puniva il reato base con la pena della reclusione o della multa), ma ha anche modificato strutturalmente la fattispecie estendendone il campo di applicazione, mediante: l'eliminazione della scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (subito reintrodotta all'indomani della caduta del regime); l'unificazione delle ipotesi di offesa arrecata a causa delle funzioni con quelle arrecate nell'esercizio delle funzioni (che il codice Zanardelli puniva in modo attenuato rispetto all'altra); l'eliminazione, per quest'ultima modalita' d'offesa, del termine pubblico (l'art. 196 del codice Zanardelli prevedeva che l'offesa fosse arrecata nell'atto dell'esercizio pubblico delle funzioni); l'estensione della tutela anche ai semplici pubblici impiegati che prestino un pubblico servizio (art. 344 c.p.). Oltre a cio' va pure considerato che, a causa della minore ingerenza dello Stato nella societa', tipica degli ordinamenti di impronta "liberale" dell'ottocento, la qualifica di pubblico ufficiale, ai tempi del codice Zanardelli, era riferibile ad una cerchia di persone infinitamente piu' ristretta. Peraltro una piu' attenta ricostruzione della volonta' storica del legislatore fascista evidenzia come il bene oggetto di tutela fosse puramente e semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo p.u., mentre il principio di autorita' fosse piuttosto riferito al piano della ratio o scopo politico-criminale della tutela che, nell'ambito dell'ideologia del regime, consentiva di ritenere largamente giustificata una differenziata e piu' rigorosa tutela rispetto a quella accordata ai privati. Cio' emerge con chiarezza da quei passi della Relazione ministeriale in cui il prestigio del p.u. viene considerato quale particolare forma di decoro di chi esercita la pubblica funzione (Relazione, 140); un bene pertanto che e' proprio del pubblico ufficiale sebbene faccia riferimento alla dignita' della funzione. In definitiva si' riteneva che l'onore ed il prestigio del singolo p.u. meritassero una speciale e particolarmente intensa tutela in ragione del rispetto dovuto all'autorita', rispetto che consentiva di qualificare particolarmente quel bene, superando la sua originaria vocazione "personalistica". In tal senso e' anche quel passo della Relazione che, dopo aver precisato che il prestigio costituisce una particolare forma di decoro, lo definisce come quella speciale forza o influenza che deriva alla persona dall'altrui riconoscimento dell'autorita' e della dignita' di cui la persona stessa e' rivestita (Relazione, 140). Ma cio' che piu' conta e' che questa impostazione ha finito per condizionare in modo evidente la stessa formulazione letterale della norma sospetta e la struttura della fattispecie, essendo l'onore ed il prestigio la cui offesa integrava il reato di cui all'art. 341 c.p. riferiti non alla p.a., come avviene ad es. nell'an. 342 c.p., bensi' al singolo p.u. Non solo, ma la mancata previsione di un autonomo reato di diffamazione a pubblico ufficiale, pur originariamente previsto nel progetto preliminare (all'art. 348 c.p.), fu motivata proprio in relazione alla mancanza, in questo caso, di una dimensione pubblicistica dell'offesa ed e' evidente che cio' e' legato alla ratio della tutela, ossia al principio d'autorita' e al rapporto d'imperio tra Stato e cittadini, nel senso cioe' che mentre l'offesa arrecata in presenza del p.u. si considerava manifestazione di disobbedienza e di ribellione all'autorita', l'offesa arrecata in assenza del p.u. era considerata meno grave perche' coinvolgente esclusivamente la dimensione, per cosi' dire, "privatistica" del bene dell'onore del p.u. e pertanto priva di quel rilievo pubblicistico tale da giustificare l'inserimento nei reati contro la p.a. (esplicitamente Relazione, 143). Sennonche' al di la' delle originarie intenzioni del legislatore, ben presto la dottrina allora dominate, seguita subito dalla giurisprudenza, sposto' l'oggetto della tutela dall'onore del p.u., sia pure particolarmente qualificato, all'interesse concernente il normale funzionamento e il prestigio della p.a. in senso lato. Tuttavia tali beni erano intesi in modo assai diverso da quello imposto da una concezione "democratica" dei rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, dall'ovvia osservazione che le Istituzioni non possono che agire per mezzo di organi e questi per mezzo di persone fisiche e dall'impropria utilizzazione, in materia penale, del rapporto organico, si faceva discendere la conclusione per la quale e' manifesto che le offese arrecate a codeste persone (ossia ai pubblici ufficiali), ... risalgono all'organo al quale le persone stesse appartengono, e dall'organo all'ente. Finendo per concludere che la protezione penale, quindi e' stabilita nell'interesse del rispetto dovuto alla pubblica funzione o al pubblico servizio, e non di quello dovuto alla persona individuale del pubblico ufficiale (...), che riceve protezione soltanto riflessa. Al riguardo si e' acutamente osservato come una simile operazione comporti un indebito processo di identificazione dell'oggetto di tutela, erroneamente individuato nel prestigio della pubblica amministrazione, con la ratio politica della disposizione colta nella sua estensione massima, finendo con l'autorizzare la conclusione secondo la quale qualunque offesa arrecata contro un pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in quanto tale. Questa critica va condivisa perche' parlare di normale funzionamento e prestigio della p.a., incentrando tali beni sul rispetto dovuto alle pubbliche funzioni, significa in sostanza assumere ad oggetto di tutela il dovuto ossequio e, dunque, lo stesso principio di autorita' nei rapporti tra Stato e privati. Comunque sia, una volta accolto il sistema di "valori" proprio del regime che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva di una sua intima coerenza ed una certa precisione tecnica. Infatti, alla stregua della scelta di politica criminale secondo la quale alle pubbliche istituzione e' dovuto sempre e comunque obbedienza e rispetto e che anzi costituisce un "valore" fondamentale, come tipicamente accade per tutti i regimi totalitari, la "fedelta'" allo Stato, diventa del tutto comprensibile punire, ed in modo rigoroso, ogni offesa all'onore del pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, perche' si tratta di un comportamento di aperta ribellione all'autorita' costituita, mentre il profilo della tutela del bene personale dell'onore del singolo pubblico ufficiale passa decisamente in seconda linea. 4.e). - (segue) Le interpretazioni "costituzionalmente orientate": la tesi che ravvisa il bene giuridico protetto nel prestigio della p.a. - critica. Ma i problemi veri, in termini di coerenza della fattispecie, nascono dalla doverosa presa d'atto che sia il bene giuridico (prestigio del pubblico ufficiale particolarmente qualificato in ragione della titolarita' di funzioni pubbliche) che la ratio di tutela (principio di autorita), cosi' come originariamente prospettati erano non solo estranei al sistema di valori, si potrebbe dire allo "spirito", della Costituzione repubblicana, ma esprimono scelte di fondo addirittura opposte. Da cio' trae origine la necessita' di rinvenire, alla stregua di un'interpretazione "costituzionalmente orientata" della norma sospetta, nuovi beni giuridici da assumere ad oggetto della tutela che siano, se non addirittura costituzionalmente rilevanti, almeno non incompatibili con la Costituzione. E' in questo contesto che quasi sempre viene individuato come oggetto di tutela del reato di oltraggio, ulteriore rispetto all'onore del singolo p.u., il bene del prestigio della p.a. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un bene che soffre di una scarsa afferrabilita' e di una persistente genericita'. Se inteso nel senso sopra evidenziato, ossia in stretto legame col "rispetto" o l'ossequio dovuto ai pubblici poteri, risolvendosi in sostanza nel principio di autorita', deve certamente ritenersi incompatibile con la Costituzione, come si avra' modo di dimostrare in seguito. Diverso e' invece il discorso se viene inteso come stima o reputazione nella comunita' degli organi e dell'attivita' della p.a., perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua come suo fine fondamentale "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 comma 2 Cost.), fondato sul principio di parita' tra p.a. e cittadini e su di un potere individuale di "partecipazione" alle attivita' burocratiche, la "fiducia" di cui gode la p.a. nella comunita', sia pure non direttamente prevista dalla Costituzione, non appare affatto sfornita di quella pregnanza ed importanza che giustifica l'intervento della tutela penalistica. Ed anzi si potrebbe persino individuare un certo collegamento tra questo bene ed il principio del buon andamento dell'amministrazione, perche' in un simile "modello" di p.a. e' evidente che la fiducia e la collaborazione del privato alle Istituzioni agevola lo svolgimento delle funzioni pubbliche. Un simile collegamento non e' sfuggito a quella giurisprudenza che costituiva l'avamposto piu' avanzato del tentativo di armonizzare la fattispecie con i principi costituzionali. Si e' infatti osservato che - l'interesse tutelato dalla norma in esame (...) deve essere riferito alla sfera di funzionalita' pubblica, che trova esposizione a pericolo ove non garantita anche da offese alla sua credibilita' ed affidabilita' presso la collettivita'. In tal senso l'offesa al prestigio ad esposizione a pericolo di attributi che devono accompagnare l'azione della pubblica amministrazione e quindi dei soggetti preposti o componenti dei suoi uffici, ed il cui pregiudizio potrebbe risultare ostativo al raggiungimento delle finalita' poste dalla legge, od all'efficacia dell'azione pubblica, incidendo sul consenso che la pubblica amministrazione deve necessariamente avere presso la collettivita'. - (Cass., 29 novembre 1995 n. 11579). La sentenza citata e' importante per due motivi. In primo luogo perche' sembra richiedere, ai fini dell'integrazione del reato, un requisito ulteriore rispetto alla semplice offesa dell'onore o prestigio del singolo p.u., individuato nella idoneita' della condotta volta a procurare il pericolo di siffatto pregiudizio. In secondo luogo perche' si tratta di una sentenza che conferma un'assoluzione. Ma, a ben vedere, non si trattava di una linea interpretativa realmente capace di spostare i termini della questione circa la legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito dell'idoneita' della condotta ad esporre a pericolo l'efficacia dell'azione pubblica, sotto il profilo della lesione della fiducia presso la collettivita', era piu' apparente che reale, perche' inteso nel senso di escludere condotte che gia' di per se' erano atipiche in quanto non offensive, alla stregua dei parametri socio-culturali vigenti, del bene dell'onore e del prestigio del singolo pubblico ufficiale, come l'esame del caso di specie dimostra (soggetto che si limita a strappare il verbale di contravvenzione appena elevato, senza porre in essere nessun'altra manifestazione offensiva od irriguardosa; cfr. infatti gia' Cass. 18 settembre 1986 n. 9532), e cosi' smarriva quel carattere di requisito autonomo della tipicita' in funzione selettiva delle condotte "realmente" offensive, che solo poteva consentire di superare ogni dubbio di legittimita' costituzionale. E' evidente che diverso sarebbe stato il discorso se quell'elemento fosse stato in grado di sottrarre dal campo di applicazione dell'art. 341 c.p. condotte che indiscutibilmente offendono il bene personale dell'onore del pubblico ufficiale, in quanto inidonee a produrre un concreto pericolo all'"efficacia dell'azione amministrativa". Ma fino a questo punto la giurisprudenza non si e' mai spinta, e giustamente, perche' una simile interpretazione si pone in evidente contrasto con la lettera della legge e presuppone giudizi di valore sul piano politico criminale che non le competono. In definitiva sembra in questo caso realizzarsi il rischio di tutte quelle interpretazioni "costituzionalmente orientate" in realta' incapaci di incidere sul contenuto precettivo delle norme, e che pertanto finiscono col porsi come strumento di legittimazione dell'esistente, in ipotesi di una norma incostituzionale, la quale continuera' ad avere la medesima applicazione (in senso incostituzionale), sotto una diversa giustificazione. In realta' si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto il profilo del "consenso" o la "fiducia" presso la collettivita', possa essere individuato come oggetto di tutela dell'art. 341 c.p. Infatti una simile impostazione e' smentita dalla struttura del reato e da decisive implicazioni sistematiche. Sotto il primo profilo emerge in tutta evidenza la mancanza tra gli elementi costitutivi della fattispecie dell'elemento della comunicazione con piu' persone o, perlomeno, della presenza di terzi estranei al compimento della condotta punita. Sotto il secondo profilo va evidenziata la mancanza di un autonomo titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale. Del resto che dei termini della questione i compilatori del codice avessero una precisa visione, sicche' non ci si deve stupire della formulazione della norma, emerge con chiarezza in quella parte della Relazione in cui si spiega che il termine reputazione (usato dal codice Zanardelli, insieme al termine onore e al termine decoro nell'art. 194) qui non puo' usarsi, sia perche' ad esso e' attribuito un significato specifico in materia di diffamazione (offesa fuori della presenza), mentre per l'oltraggio e' sempre richiesta la presenza dell'offeso, sia perche' il prestigio e' qualche cosa di diverso da quella stima nella capacita' funzionale del pubblico ufficiale, alla quale si ferisce la reputazione (140). D'altra parte deve escludersi che si potesse aggirare l'ostacolo mediante un'interpretazione "costituzionalmente orientata", questa volta davvero in grado di incidere sul contenuto precettivo dell'art. 341 c.p., richiedendo ai fini dell'integrazione del reato il requisito della pubblicita' quale elemento costitutivo implicito. Infatti, se si deve certamente ammettere che l'interprete sia tenuto a ricostruire i singoli tipi in conformita' ai principi costituzionali e, in particolare al principio di necessaria offensivita', sicche' dovra' considerare atipici i comportamenti non offensivi del bene protetto, si deve tuttavia ritenere che cio' sia possibile solo rispettando il limite invalicabile della compatibilita' con la lettera della legge. Nel caso di specie non e' possibile rinvenire in via interpretativa all'interno della fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale l'elemento costitutivo della pubblicita', perche' la presenza di una o piu' persone estranee al fatto e' prevista come circostanza aggravante a norma dell'art. 341 u.c. c.p., ossia come elemento accidentale del reato, in funzione aggravante, e pertanto si deve escludere ch'esso possa essere attratto tra gli elementi costitutivi. 4.f). (segue) la tesi che ravvisa il bene giuridico protetto nel buon andamento della p.a. - critica. Critiche in parte analoghe possono muoversi alla tesi che ravvisa direttamente nel buon andamento dell'amministrazione il bene giuridico tutelato dall'art. 341 c.p. Anche questa tesi omette infatti di individuare il rapporto tra il bene giuridico che si assume protetto e la struttura del reato. D'altra parte, come per il bene del prestigio della p.a., vi e' la tendenza a considerare il bene del buon andamento in termini del tutto generici, svincolato dall'idea di efficienza e di massima aderenza all'interesse pubblico che gli e' proprio e ricondotto a formule vaghe quali quella del "regolare funzionamento", dimenticando che la funzione del bene giuridico puo' essere effettivamente svolta solo in presenza di beni sufficientemente determinati ed "afferrabili", rischiando viceversa di smarrirsi in presenza di beni ad "amplissimo spettro". Ora, e' evidente che il riferimento al bene "buon andamento" non puo' essere concepito nel senso rigoroso di effettivo intralcio all'azione della p.a. in concreto svolta, perche' risulterebbe del tutto incomprensibile la punizione delle offese rivolte a causa delle funzioni ma non durante l'esercizio di esse. Non a caso la Relazione, per giustificare la circostanza per la quale i delitti di violenza e di resistenza si possono commettere contro qualunque incaricato di pubblico servizio, mentre per l'art. 344 puo' essere oltraggiato soltanto il pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, afferma espressamente che l'oltraggio non reca intralcio all'andamento del servizio. Neppure, per le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi che ravvisa un'esposizione a pericolo del buon andamento amministrativo nella lesione del prestigio della p.a. sotto il profilo della "fiducia" o stima della p.a. presso la societa'. La piu' compiuta elaborazione dottrinale della tesi era piuttosto fondata, da un lato, sull'estensione massima del concetto di "buon andamento" fino a comprendere il "normale" e/o "sereno" funzionamento della p.a. e, dall'altro, su di un'argomentazione di natura psicologistica, ossia sulla considerazione che le condotte punite dall'art. 341 c.p. potrebbero determinare un "turbamento psicologico" nel pubblico ufficiale e che cio' potrebbe a sua volta determinare un'alterazione del suo processo decisionale e della stessa azione amministrativa, resa incerta ed esitante. L'art. 341 c.p. cioe' tutelerebbe la stabilita' emotiva del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni e, quindi, la sua capacita' di decidere correttamente secondo l'interesse pubblico. Sennonche', a parte il rilievo che la tesi appariva in contrasto con l'opinione comune che considerava irrilevante, ai fini dell'integrazione del reato, che il p.u. si sia in concreto sentito offeso dalla condotta oltraggiosa posta in essere (Cass. 11 febbraio 1989 n. 2027; Cass, 28 maggio 1985 n. 5393), assorbente e' l'osservazione che in questo modo si finisce col configurare l'obiettivita' del reato come il pericolo di un pericolo di un pericolo. Infatti va rilevato che l'interpretazione fatta propria da questa autorevole dottrina, e seguita senza incertezze dal c.d. diritto vivente (Cass. 31 agosto 1994 n. 9417; Cass. 11 novembre 1989 n. 15559; Cass. 6 febbraio 1985 n. 1173; Cass. 30 dicembre 1985 n. 12547), non richiede, ai fini dell'integrazione del reato, l'effettiva percezione dell'offesa da parte del p.u., perche' l'elemento della presenza del soggetto passivo veniva inteso come quella contiguita' spaziale tale da assicurare la semplice possibilita' di percezione. Ora, e' evidente che in mancanza di effettiva percezione, non puo' farsi questione di "turbamento psicologico" del p.u. Non solo, ma anche ammessa l'effettiva percezione, non e' detto che da questa derivi necessariamente il tanto temuto "turbamento psicologico" del p.u., perche' questo e' piuttosto un effetto che dipende da tutta un serie di fattori contingenti di natura oggettiva e soggettiva, quali il contesto, la posizione sociale del soggetto attivo e passivo, la "pubblicita'" dell'azione, la "sensibilita'" personale del p.u. e cosi' via, sicche' si tratterebbe, anche in questo caso, di una semplice possibilita', un pericolo appunto. Infine non e' affatto detto che il "turbamento" del p.u. si traduca in un'alterazione dello svolgimento delle pubbliche funzione alle quali e' preposto. Cosi' nel caso di offese arrecate semplicemente "a causa delle funzioni", ma non nell'esercizio di esse, e' del tutto ragionevole pensare che il suddetto turbamento possa scemare fino a svanire del tutto con il trascorrere del tempo, sino al momento in cui il p.u. tornera' a svolgere le sue funzioni. Nel caso di offese arrecate nell'"esercizio delle funzioni", magari per motivi del tutto privati, e' ben possibile che nessun nocumento al regolare svolgimento delle funzioni pubbliche in concreto si realizzi, ad es., per la presenza di altri p.u. non coinvolti ed in grado di sostituirsi al collega "turbato". D'altra parte vi e' almeno una classe di comportamenti, riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 341 c.p., in cui non solo un danno ma neppure un mero pericolo di danno al buon andamento della p.a., e' escluso alla radice, per l'impossibilita' di ipotizzare uno svolgimento di pubbliche funzioni successivo al reato: l'offesa arrecata "a causa delle funzioni" ad un soggetto che, al momento del fatto, non possieda piu' la qualita' di p.u. a norma dell'art. 360 c.p. Ora un pericolo di un pericolo deve ritenersi un "non pericolo" e, come tale, inconciliabile col principio di offensivita'. Invero, ai fini della legittimita' costituzionale delle norme incriminatrici sotto il profilo del principio di necessaria offensivita', non e' affatto sufficiente individuare un bene giuridico di rango tale da giustificare, in astratto, la tutela penalistica, dovendosi estendere l'indagine in ordine all'ampiezza e all'intensita' della tutela medesima nonche' alla gravita' dell'offesa. Oltre tutto la tesi che ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di pericolo astratto, presunto in via assoluta ed irrimediabile, finisce col sollevare dubbi di legittimita' costituzionale forse anche maggiori di quelli che pretende aver risolto. E' infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo di per se' incostituzionali, devono tuttavia rispettare determinati requisiti, in relazione sia al principio di proporzione (art. 27 comma 3 Cost.), sia al principio di necessaria offensivita' (art. 25 comma 2 Cost.), sia infine al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), che la stessa Corte costituzionale ha precisato con grande efficacia (cfr. sentenza 10 - 11 luglio 1991 n. 333). Devono infatti essere posti a tutela di beni di rango assolutamente fondamentale ed afferire a settori in cui questa anticipazione di tutela risulti razionalmente giustificata da particolari esigenze di prevenzione (ad es. situazioni di pericolo diffuso incidenti su beni collettivi come l'ambiente o l'economia pubblica), ed inoltre occorre che le condotte riconducibili al fatto tipico siano selezionate in modo pregnante, in modo cioe' che la presunzione assoluta di pericolo sia supportata da corrette verifiche empiriche, ossia giustificata dall'id quod plerumque accidit, costituendo altrimenti una scelta del tutto irragionevole ed arbitraria e pertanto censurabile a norma dell'art. 3 Cost. Orbene, entrambe le condizioni di legittimita' dei reati di pericolo presunto non sembrano soddisfatte dall'art. 341 c.p., perche', da un lato, e' innegabile la distanza di questa fattispecie dai settori in cui legittimamente e' utilizzata questa tecnica legislativa e, dall'altro, e' proprio l'esperienza concreta a smentire quella presunzione di pericolosita' della condotta tipica alla stregua dell'art. 341 c.p. Infine la tesi, nonostante le premesse, non riesce a liberarsi del tutto dalla concezione autoritaria che storicamente e' a fondamento della norma, perche' il pericolo di alterazione del processo decisionale del p.u. conseguente alla mera offesa all'onore o al prestigio del p.u. si giustifica solo in un sistema di p.a. fondato sul dovere di obbedienza del privato, la cui violazione puo' appunto comportare un'alterazione del regolare esercizio della funzione pubblica, ma risulta difficilmente comprensibile in un sistema fondato sulla qualificazione delle attivita' burocratiche come modi di esercizio del potere di partecipazione individuale e, pertanto, su di una parificazione tra funzionari pubblici e privati cittadini. 4.g). - (segue) conclusioni. Si deve pertanto concludere che il bene protetto dall'art. 341 c.p. fosse unicamente l'onore ed il prestigio del singolo p.u., perche' solo questo e' sempre ed immancabilmente raggiunto dalla condotta criminosa tipica. Con cio' naturalmente non si intende negare che la tipicita' del reato fosse tanto ampia da abbracciare, eventualmente, concrete ipotesi in cui oltre ad essere offeso questo bene fosse offeso anche il bene del prestigio (ad es. offese arrecate "pubblicamente") o addirittura del buon andamento della p.a. (si pensi al caso di offese arrecate mediante violenza o minaccia e non solo a causa ma anche nell'esercizio delle funzioni). Ma si tratta di casi, dal punto di vista statistico, marginali, quasi sempre aggravati ai sensi dell'art. 341 u.c. c.p, e che spesso comportavano l'integrazione, in concorso formale o in continuazione, dei reati di cui agli artt. 336 e 337 c.p., chiaramente e tipicamente rivolti alla tutela del libero svolgimento dell'azione amministrativa, tali cioe' da assorbire integralmente l'offesa a quel bene. Invece le ipotesi riconducibili alla fattispecie semplice si risolvevano spesso, se non sempre, in fatti obbiettivamente "bagattellari", ed in cui ne' il prestigio ne' il buon andamento della p.a. potevano ritenersi seriamente colpiti. Insomma si tratta di prendere realisticamente atto che il legislatore non si e' preoccupato di selezionare solo e soltanto le ipotesi concretamente offensive di quei beni, configurando al contrario una fattispecie onnicomprensiva, in cui ricadevano indistintamente condotte dal disvalore sociale profondamente diverso, perche' incidenti su beni giuridici diversissimi'. Piu' precisamente ancora il legislatore del 1930 ha tipizzato una fattispecie tanto ampia semplicemente perche' e' partito da scelte di politica criminale del tutto diverse, per non dire opposte. Lo stesso legislatore repubblicano, rimasto a lungo inerte, e' giunto col riconoscere la bonta' di queste conclusioni, disponendo l'abrogazione pura e semplice della norma riconoscere e non una mera modifica al regime sanzionatorio. L'abrogazione "secca" dell'art. 341 c.p. sembra infatti fondata sulla precisa volonta' legislativa di eliminare quella posizione di privilegio ricoperta dai pubblici ufficiali, in quanto ritenuta non piu' compatibile con in principi democratici fissati nella Costituzione, cosi' per altro verso ribadendo la sostanziale erroneita' della tesi che ravvisava nell'oltraggio un reato a tutela anche del buon andamento della P.A. (o del suo prestigio). Una ulteriore conferma di questa conclusione e' rintracciabile, ad avviso di questo Giudice, nella stessa sentenza n. 341/1994 che, pur confermando in termini generali la plurioffensivita' del reato, in linea di principio rendeva improponibile il raffronto, ai sensi dell'art. 3 Cost., con il reato di ingiuria, tuttavia ravvisava l'incostituzionalita' per i casi piu' lievi, nei quali il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo cosi' irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria. L'illegittimita' costituzionale veniva dunque argomentata anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 594 c.p. ed e' allora evidente che i "casi piu' lievi", proprio perche' legittimavano il paragone col reato di ingiuria, normalmente interdetto dalla plurioffensivita' del reato di oltraggio, non attenevano affatto ad una differenza di quantita' dell'offesa, bensi' ad una differenza di qualita', nel senso cioe' che si tratta di casi in cui, come nell'ingiuria, ad essere offeso e' esclusivamente il bene personale dell'onore del singolo p.u. e non anche, se non in modo del tutto irrisorio, i beni del prestigio e del buon andamento della p.a. Insomma era la stessa Corte costituzionale ad essere giunta alla conclusione che l'ampia tipicita' tratteggiata dall'art. 341 c.p. comprende ipotesi tra loro eterogenee quanto a disvalore, mentre la dichiarazione di incostituzionalita' con esclusivo riferimento al minimo edittale si spiegava col limite che in quella occasione era imposto dalla questione sollevata, non coinvolgente ne' la previsione del limite massimo di pena, ne' le rimanenti disposizioni dell'art. 341 c.p., come si chiariva con una precisazione posta ad incipit della sentenza. Naturalmente l'aver escluso che prestigio e/o buon andamento della p.a. costituissero il bene giuridico tutelato dall'art. 341 c.p. non esclude, di per se', che potessero essere assunti, nel quadro del mutato assetto costituzionale, come la ratio politico-criminale della norma, in sostituzione alla ratio originaria, fondata sul principio d'autorita'. Infatti la ratio della norma, al contrario del bene giuridico, non impone di rinvenire, in ogni singola e concreta condotta punita, un coinvolgimento diretto ed immediato di quell'interesse che ne costituisce il fondamento, riposando normalmente su intenti di prevenzione generale di piu' ampia portata. Resta tuttavia da stabilire se lo strumento apprestato fosse davvero congruente rispetto al fine che si assumeva perseguito, sotto il profilo della ragionevolezza, tenendo ben presente che la fattispecie era stata originariamente tipizzata sulla base di tutt'altra ratio, sicche' occorreva in primo luogo verificare se la formula legislativa fosse sufficientemente flessibile per essere piegata a diverse finalita', e in secondo luogo se tale finalita' fosse davvero capace di giustificare razionalmente la diversa e piu' rigorosa tutela dell'onore dei p.u. rispetto all'onore dei privati cittadini, alla luce di tutte le norme costituzionali che vengono in considerazione. 4.h). - Norme e principi costituzionali in possibile contrasto con l'art. 341 c.p. nel suo complesso: a) il principio di uguaglianza e della pari dignita' sociale. Venendo finalmente alle norme costituzionali con le quali l'art. 341 c.p. sembra entrare in rotta di collisione, viene in prima battuta in considerazione il principio per il quale "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale (...) senza distinzione di (...) condizioni personali e sociali" (art. 3, comma 1 Cost.). Al riguardo va osservato, da un lato, come la Costituzione consideri primo valore costituzionale la persona in se', prescindendo dalle qualita' ad essa inerenti e dalle mansioni da essa esercitate, e, dall'altro, che il bene tipicamente personale dell'onore, inteso come valore morale intrinseco alla persona in quanto tale, altro non e' che un particolare aspetto di quella dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 Cost., rientra nei diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2 Cost. ed e', infine, per sua natura, eguale in tutti gli uomini, indipendentemente da giudizi sociali di merito o di demerito. Posta questa premessa e' evidente che l'art. 341 c.p., in quanto comportava una tutela privilegiata dell'onore del p.u. rispetto a quella apprestata all'onore dei privati cittadini dall'art. 594 c.p., si poneva in contrasto, in modo diretto, col principio della pari dignita' sociale, nella misura in cui si escludeva che esso tutelasse altri e diversi beni giuridici. Invero la diversa e piu' rigorosa tutela prevista dall'art. 341 c.p., rispetto all'art. 594 c.p. veniva collegata al mero status di pubblico ufficiale, utilizzando cioe' un criterio di distinzione, quello delle "condizioni personali e sociali", espressamente fatto oggetto di divieto dalla norma costituzionale. D'altra parte non puo' essere negato che il principio di uguaglianza e' un principio fondamentale che, in quanto tale, non ammette limitazione se non fondate su interessi costituzionalmente rilevanti. Da questo punto di vista occorre appunto verificare se la tutela diversificata dell'onore del p.u. potesse trovare ragionevole giustificazione nella ratio del principio del buon andamento della p.a., costituzionalmente rilevante a norma dell'art. 97, comma 1 Cost. Ma una simile prospettiva non sembrava seriamente praticabile e cio' almeno per tre ragioni. La prima e' che il principio del buon andamento della p.a., peraltro difficilmente estensibile sino al punto da comprendere il semplice "normale funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto dalla Costituzione come valore in se', ma piuttosto come valore funzionale alla garanzia dei diritti inviolabili dei cittadini e, pertanto, non puo' assumersi il diritto alla pari dignita' sociale "in funzione" della piena realizzazione dell'interesse al buon funzionamento della p.a. In secondo luogo occorre prendere atto che la fattispecie di cui all'art. 341 c.p. era stata strutturata seguendo direttrici di tutela del tutto diverse, fondate sul principio d'autorita' e la norma tradiva questa origine ad ogni applicazione concreta, tanto da risultare in larga misura insensibile, sotto il profilo del concreto contenuto precettivo, al mutamento di prospettiva, sul piano dello scopo politico criminale, imposto dai nuovi valori costituzionali. Se ne deve pertanto dedurre che lo strumento apprestato fosse radicalmente inidoneo ed incongruo rispetto al fine prospettato, perche' finiva col punire, in modo del tutto sproporzionato, oltre a condotte in qualche modo coinvolgenti anche il buon andamento della p.a., sia pure in senso assai lato, intere categorie di condotte, che nulla avevano a che fare con quel fine, con conseguente violazione ancora dell'art. 3 Cost., sotto il profilo del criterio di ragionevolezza. In terzo luogo e' la giustificazione stessa alla diversa tutela accordata all'onore del p.u. incentrata sul "buon andamento" che contrasta col "modello" di p.a. accolto dalla Costituzione. Infatti il rapporto tra p.a. e cittadino nell'attuale assetto costituzionale, e' essenzialmente paritario e di "partecipazione", con un netto ed inequivocabile rifiuto del principio di autorita' e di "fedelta'" allo Stato, caratterizzante il precedente regime. Cio' lo si desume anzitutto dal principio secondo il quale "la sovranita' appartiene al popolo" (art. 1, comma 2 Cost.). E' ben vero che l'esercizio della sovranita' e' consentito solo "nelle forme e nei limiti della Costituzione", ma cio' non toglie, da un lato, l'importanza di principio dell'affermazione dell'originaria appartenenza del potere al popolo e, dall'altro, grazie al collegamento con il resto della Costituzione e, in primo luogo col principio personalista di cui all'art. 2 Cost., la possibilita' di rinvenire a carico di chi in concreto esercita il potere un vincolo di corrispondenza ai fini propri del tipo di ordine garantito dalla Costituzione medesima, con particolare riferimento al metodo democratico come il solo che possa determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.), con conseguente stretto collegamento tra la concezione dei rapporti tra Stato e cittadini e la forma (democratica) di Stato accolta. Inoltre il collegamento con l'art. 2 Cost. consente di riconoscere fra i diritti inerenti della persona e in posizione assolutamente primaria quello di far discendere la soggezione del popolo all'autorita' statale dal riconoscimento della partecipazione del medesimo alla sua formazione ed all'esplicarsi della sua successiva attivita'. Cio' emerge anche nell'indicazione, come fine primario, dell'"effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", nell'art. 3, comma 2 Cost. Ne deriva che le attivita' burocratiche vengono a porsi come modi di esercizio del potere di partecipazione individuale con conseguente parificazione della condizione personale degli appartenenti alla burocrazia a quella di tutti i cittadini. Da questo punto di vista il fine del buon andamento della p.a. non sembra in grado di giustificare una peculiare tutela dei p.u. rispetto a quella spettante ai cittadini proprio perche', cosi' facendo, si viene ad inficiare la posizione paritaria tra funzionari e cittadini, reintroducendo, in forma larvata, quel principio d'autorita' che si era invece voluto decisamente respingere. Dal mutamento di prospettiva che considera la p.a. al servizio del cittadino e non viceversa, discende piuttosto la possibilita' di ravvisare maggiori doveri in capo ai pubblici funzionari, la cui violazione comporta responsabilita' sia all'interno che all'esterno della p.a., in funzione di garanzia per il buon andamento, l'imparzialita' e la legittimita' dell'azione degli uffici cui sono preposti, come si puo' desumere dagli artt. 28 e 54 comma 2 Cost. Ed anzi dall'art. 54, comma 2 Cost. si ha la conferma che l'"onore" del p.u. si configura non come rispetto od ossequio dovutogli, bensi' come conseguenza del rigoroso adempimento dei propri doveri, sicche' il p.u. non ha tanto il "diritto" all'onore, perlomeno non un diritto diverso da quello spettante ad ogni uomo, quanto piuttosto il "dovere" di meritarsi stima e considerazione presso la collettivita' mediante un comportamento legale, efficiente ed imparziale. In conclusione il funzionario deve essere considerato, nell'attuale assetto costituzionale, non tanto come "autorita'", bensi' come servitore dell'interesse generale e come soggetto che non fa altro che esercitare iI potere di partecipazione proprio di ogni cittadino. Come si vede un'impostazione assai diversa, per non dire opposta, di quella degli Stati totalitari e teocratici, secondo la quale non esistono diritti dei sudditi verso lo Stato ma solo doveri, attesa l'origine divina del potere e la derivazione divina del sovrano. Ed e' evidente che, mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di obbedienza anche una semplice offesa al p.u., in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, puo' ragionevolmente assumersi come possibile causa di un'alterazione del "normale svolgimento" dell'esercizio della funzione, appunto perche' segno di ribellione all'autorita' e, in quanto tale, in contrasto col modello di p.a. accolto, cio' deve invece essere decisamente negato in un sistema di p.a. fondato sulla parita' tra cittadino e funzionario e sul diritto dei privati alla "partecipazione" all'attivita' burocratica. 4.i). - (segue) b) i principi d'offensivita', di proporzione e di determinatezza. Ma l'art. 341 c.p., oltre a violare il principio di uguaglianza e le regole che disciplinano i rapporti della p.a. coi privati, si poneva in contrasto anche col "volto costituzionale" del moderno diritto penale, che viene a caratterizzarsi soprattutto come sistema di limiti sostanziali al legislatore (sentenza 23 - 25 ottobre 1989, n. 487). Al riguardo veniva anzitutto in considerazione il principio di necessaria offensivita', strettamente legato alla concezione del diritto penale come extrema ratio (c.d. principio di sussidiarieta), che si deve ritenere costituzionalizzato per via di implicazione logica dagli artt. 25, comma 2 (in particolare dall'uso del termine "fatto") e 27, comma 3, della Costituzione, letti alla luce dell'art. 13 della Costituzione. Infatti posto che con la pena si viene ad incidere su di un bene primario come la liberta' personale (art. 13 della Costituzione), oltre che su altri valori fondamentali, quali la dignita' sociale ed il pieno sviluppo della personalita' umana (art. 3 della Costituzione), intanto si giustifica in quanto sia diretta a tutelare beni socialmente apprezzabili. Cio' comporta l'adozione di un "modello" liberale di diritto penale fondato sull'esigenza di tutelare un concreto interesse, offeso dal fatto tipico. Nel caso dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la possibilita' di assumere ad oggetto di tutela il prestigio o il buon andamento della p.a., che semmai potevano costituire la mera ratio politico criminale dell'incriminazione, e' evidente che la previsione dell'oltraggio a pubblico ufficiale come autonomo titolo di reato non si giustificava, non potendosi rinvenire tale giustificazione nell'esigenza di tutela dell'onore del singolo p.u., gia' compiutamente "coperta" dal diverso reato di cui all'art. 594 c.p. (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10 c.p.). D'altra parte recuperare l'originaria ragione dell'incriminazione, ossia la particolare qualificazione dell'onore del p.u. in ragione del principio di autorita', oltre ad aprire la strada alla prima censura sopra evidenziata della violazione della pari dignita' sociale e del modello costituzionale di p.a., non consentiva di risolvere il problema neppure sotto il profilo qui in esame. Infatti se e' vero che il modello del reato come offesa ai beni giuridici nulla garantisce in ordine ai contenuti delle norme incriminatrici che, pur rispettando formalmente quel modello, possono essere i piu' illiberali, si deve osservare che nel caso di specie l'assunzione ad oggetto di tutela di un bene giuridico strettamente connesso al principio di autorita' in se' considerato, e conseguentemente al dovere di obbedienza del privato nei confronti dello Stato, finiva col compromettere non solo i contenuti ma anche la forma stessa di un diritto penale liberale, scivolando verso modelli illiberali, come quelli propri del diritto penale della volonta' o dell'atteggiamento interiore, a sfondo eticizzante, o del diritto penale dell'infedelta' allo Stato; modelli cioe' che tendono a concepire il reato in termini di pura disobbedienza alle norme statuali. Un altro principio fondamentale che viene in considerazione e' il principio di proporzione, desumibile dalla funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione., purche' estesa anche alla fase dell'astratta previsione normativa, oltre che alla fase dell'applicazione giudiziale e dell'esecuzione. Infatti la finalita' rieducativa postula che il reo avverta che il trattamento punitivo inflittogli sia proporzionato al disvalore del fatto commesso, perche' altrimenti si stimola un atteggiamento di ostilita' nei confronti dell'ordinamento. Si tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico, e che costituisce un'applicazione del piu' generale principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, risolvendosi nella necessita' che la scelta dello strumento per raggiungere il fine sia limitata da considerazioni razionali rispetto ai valori, ma che, in materia penale, acquista una forza cogente tutta particolare in ragione del fatto che lo strumento penale viene ad incidere su diritti fondamentali dell'individuo. Quale vincolo alla discrezionalita' legislativa in materia penale il principio equivale a negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e dei valori delle predette incriminazioni (sentenza n. 409/1989 cit.). Da questo punto di vista il principio di proporzione opera su due piani, altrettanto importanti: a) sul piano della congruenza tra gravita' del fatto tipico e sanzione, comportando la necessita' di un giudizio relazionale interno alla norma (tra fatto e pena), in considerazione del bene della liberta' personale sacrificato dalla pena (con possibilita' di un esito diverso a seconda del tipo di pena previsto, posto che la pena pecuniaria solo eventualmente ed in misura minore viene ad incidere su quel bene, attraverso la conversione in liberta' controllata o in lavoro sostitutivo in caso di insolvibilita': art. 102 legge n. 689/1981), ed in tal caso il giudizio non riguardera' direttamente lo scopo o la ratio dell'incriminazione, che rimarra', per cosi' dire sullo sfondo, ma piuttosto gli elementi di definizione dell'offesa (modalita' di lesione e bene giuridico tutelato) ed il suo eventuale esito negativo comportera' conseguenze esclusivamente sulla disciplina sanzionatoria; b) sul piano della congruenza tra strumento normativo, ossia la fattispecie criminosa, e finalita' che con l'incriminazione si intende perseguire, ed in tal caso e' evidente che l'ambito della valutazione e' piu' ampio perche' coinvolgente la ratio politico - criminale della norma, che e' un elemento esterno alla norma stessa. In questo seconda prospettiva cio' che assume rilevanza in via diretta non e' il profilo sanzionatorio, bensi' la struttura del reato, perche' e' il riferimento alle caratteristiche tipologiche dell'offesa a consentire il giudizio di congruenza con la finalita' perseguita, mentre l'eventuale esito negativo del giudizio dovrebbe comportare l'incostituzionalita' dell'intera fattispecie, perche' in tal caso la sproporzione attiene non al quantum ma all'an della tutela penalistica. Quanto ai casi in cui si realizza la sproporzione, nel senso da ultimo indicato, ritiene questo giudice che cio' si verifichi quando le condotte punite siano descritte in modo tanto ampio da abbracciare non solo alcune ipotesi marginali (il che non comporterebbe profili di illegittimita' costituzionale della norma ma, semmai, semplici motivi di inopportunita' politica), ma addirittura l'assolta maggioranza di condotte, la cui punizione non ha alcuna attinenza col fine perseguito. In tal caso infatti non si potrebbe escludere la macroscopica irragionevolezza dell'incriminazione, non solo in riferimento all'art. 27, comma 3 della Costituzione ma anche in riferimento allo stesso art. 3 della Costituzione. Nel caso di specie si e' gia' abbondantemente argomentata la particolare "distanza" tra la struttura del reato di cui all'art. 341 c.p. e gli scopi di tutela legittimamente assumibili alla stregua del vigente assetto costituzionale, ossia il prestigio, inteso come stima e "fiducia" presso la collettivita', ovvero il buon andamento della p.a., nel senso cioe' che solo in un numero irrisorio dei casi, quei fini trovavano corrispondenza nella realta', mentre nella maggioranza dei casi si trattava di condotte che nulla vi avevano a che fare e la cui punizione, sulla base di un titolo di reato autonomo e distinto rispetto al reato di cui all'art. 594 c.p., trovava esclusiva ed effettiva giustificazione sulla base dell'originaria ratio di tutela, ossia il principio di autorita' ed il rapporto di sudditanza tra Stato e cittadini. Ma al riguardo appare violato o comunque messo in crisi anche un altro principio fondamentale, con funzione di garanzia, ossia il principio di sufficiente determinatezza, direttamente desumibile dalla riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2 della Costituzione, perche' nel caso di specie ed in riferimento alle ratio di tutela individuate, appare evidente che le espressioni utilizzate per collocare l'offesa all'onore del p.u. in una dimensione "pubblicistica" (in particolare l'espressione "a causa o nell'esercizio delle sue funzioni", ma anche il riferimento a tutti i p.u. e, a norma dell'art. 344 c.p., ai pubblici dipendenti che prestino un pubblico servizio), erano caratterizzate da un grado di estensione tale da designare realta' profondamente diverse o addirittura eterogenee quanto a disvalore, venendo cosi' ad integrare un vizio classico di deficit di determinatezza, quello per eccessiva onnicomprensivita' della realta' rappresentata ( cfr. circolare Presidenza del Consiglio dei ministri cit., 18). Insomma il "tipo" individuato dall'art. 341 c.p. non risultava espressivo di un omogeneo contenuto di disvalore. La spiegazione del perche' cio' sia accaduto e' ancora una volta storica e riposa sull'osservazione che, come e' noto, il legislatore nell'elaborare le norme compie un procedimento di astrazione dagli oggetti della realta' sensibile, tutti in quanto tali diversi tra loro, in base al quale sono apprezzate le somiglianze e trascurate le differenze sino ad ottenere una classe di oggetti ritenuti sostanzialmente "uguali" e riconducibili nel significato concettuale espresso dal segno linguistico. Cio' che pero' orienta questo processo sono scelte di valore, sicche' diverse scelte di valore comportano generalmente esiti diversi. Nel caso di specie l'elaborazione della norma e' avvenuta, nel 1930, su di una scelta di valore, fondata sul principio di autorita', nel cui ambito il reato era effettivamente in grado di esprimere un contenuto di disvalore del tutto omogeneo. Invece una volta che la scelta di valore viene cambiata, perche' cio' era imposto dall'avvento della Costituzione, l'estensione della norma, rimasta invariata, non poteva non destare fondate perplessita' di legittimita' costituzionale, perche' a questo punto si' realizza quella insopportabile sfasatura tra la realta' significata e i contenuti valutativi sottesi alla fattispecie, nella quale consiste la ragione piu' profonda della violazione dell'art. 25, comma 2 della Costituzione e, sotto il profilo della ragionevolezza, dell'art. 3 della Costituzione. Cio', naturalmente, comporta la necessita' di superare la tradizionale diffidenza verso il principio di tassativita', riconoscendo la sua violazione non solo quando i limiti "esterni" della fattispecie siano indeterminati, cosi' da rendere incerti i confini tra lecito ed illecito, ma anche quando e' la stessa fattispecie al suo interno a risultare indeterminata, perche' espressiva di contenuti eterogenei, rispetto al bene giuridico protetto e/o alle finalita' di tutela. Del resto si tratta di un passaggio che la Corte costituzionale ha gia' adombrato dichiarando l'incostituzionalita' dell'art. 708 c.p., riscontrando un deficit di tassativita' non in via assoluta ma perche' strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato rispetto alle finalita' di tutela, anche in relazione alle mutate condizioni sociali, e, in quanto tale, irragionevole a norma dell'art. 3 della Costituzione (sentenza 17 ottobre - 2 novembre 1996, n. 370). Ne' il vizio appariva sanabile in via interpretativa. Infatti il compito di una selezione delle condotte meritevoli della maggiore, rispetto al reato di ingiuria, tutela di cui all'art. 341 c.p., nella misura in cui impone la scelta su diverse opzioni di politica criminale, spetta necessariamente al legislatore. D'altra parte va ricordato che il principio di determinatezza, analogamente al divieto di analogia in malam partem, si pone come garanzia a salvaguardia degli eccessi del potere giudiziario, e la sua violazione comporta tipicamente la necessita' di operazioni interpretative dirette a meglio delimitare il contenuto normativo della disposizione senza che pero' siano offerte sufficienti indicazioni da parte del segno linguistico (Circolare Presidenza del Consiglio dei ministri cit., 19), scadendo in un'opera interpretativa necessariamente intuitiva, variabile da interprete ad interprete a seconda della sensibilita' e delle inclinazioni ideologiche di ciascuno. Neppure era possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata al giudice in sede di applicazione della pena tra il minimo ed il massimo a norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe' che spettava al giudice individuare i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il solo bene dell'onore del singolo p.u., da punire col minimo della pena, differenziandoli dai casi piu' gravi, perche' offensivi anche del bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli di una pena piu' severa, magari sottolineando che era proprio l'ampia forbice editale conseguente alla sentenza n. 341/1994 che consentiva di ricondurre in uno stesso modello di genere una pluralita' di sotto - fattispecie diverse per struttura e disvalore. In particolare non poteva essere a tal fine citato come precedente la sentenza della Corte costituzionale 23 maggio - 18 giugno 1991, n. 285, per almeno tre ragioni. In primo luogo in quella occasione la questione di legittimita' costituzionale era stata sollevata con esclusivo riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell'ingiustificata parificazione di trattamento di ipotesi diversificate, mentre in questi casi assume preminente rilievo piuttosto l'art. 25, comma 2 della Costituzione. In secondo luogo in quel caso la normativa ordinaria denunziata poteva avvalersi di una attenuante ad effetto speciale (art. 5 legge 2 ottobre 1967, n. 895) che consente una riduzione della pena sino a due terzi, permettendo di differenziare le diverse ipotesi e la Corte costituzionale, nel respingere la questione, ha sottolineato con forza l'importanza di questo elemento. In terzo luogo in quella occasione mancava una fattispecie che potesse assumersi come termine di paragone, mentre in questo caso non puo' sfuggire che la medesima strada interpretativa diviene impraticabile proprio per la naturale vocazione dell'art. 594 c.p. a porsi come tertium paragonis. Infatti una volta ammesso che i "casi lievi" in nulla si distinguono dalle ipotesi punite a norma dell'art. 594 c.p. (e art. 61, n. 10 c.p.) non sembra possibile giustificare razionalmente una diversa disciplina. Insomma la disomogeneita' e' gia' a livello astratto e ad essa non puo' porsi rimedio mediante le valutazioni che, sul piano concreto, il giudice deve compiere ai fini della determinazione in concreto della pena, perche' e' lo stesso trattamento punitivo minimo di cui all'art. 341 c.p., a risultare sproporzionato e, in confronto con l'art. 594 c.p., irragionevole per la mancata previsione della pena pecuniaria (e dell'intera disciplina propria dell'art. 594 c.p., compresa la procedibilita). D'altra parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2 della Costituzione si riferisce anche alla pena e deve pertanto ritenersi violata dalla previsione di fattispecie "ad amplissimo spettro" con forbici edittali tanto ampie da far scivolare la discrezionalita' del giudice nella determinazione della pena nell'arbitrio punitivo. Anche in tal caso infatti si affida - si potrebbe dire sulla base di una sorta di delega in bianco nelle scelte punitive - al giudice l'individuazione, gia' a livello astratto, della gravita' del fatto, smarrendo la "significativita'" del tipo e la funzione di guida della norma penale, nonche' confondendo il piano della quantificazione del disvalore del fatto sulla base di ragionevoli scelte di valore, riservato al legislatore, col piano della commisurazione della pena, in relazione alle infinite variabili del caso concreto, di pertinenza del giudice. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza sopra citata, non ha mancato di ribadire che l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti - reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensivita', spetta al legislatore; mentre al giudice compete di valutare la particolarita' del caso singolo onde individualizzare la pena, stabilendo in base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali quella adeguata in concreto. Poiche' gli ambiti delle due sfere non vanno confuse e' compito del legislatore di rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata articolazione dei trattamenti sanzionatori. Non solo ma la stessa Corte costituzionale non ha esitato dal dichiarare incostituzionale una norma incriminatrice, sulla base degli stessi rilievi, in presenza di un divario eccessivo tra minimo e massimo di pena (da due a 24 anni di reclusione, con un rapporto di 1 a 12), di una questione sollevata in relazione all'art. 25, comma 2 della Costituzione e di una diversa norma incriminatrice piu' generale, alla quale le condotte previste dalla norma dichiarata incostituzionale potessero essere ricondotte, funzione che, nel caso di specie, e' svolta agevolmente dall'art. 594 c.p. (sentenza 15 - 24 giungo 1992, n. 299). Da questo punto di vista era la stesso ampia forbice editale prevista dall'art. 341 c.p., a seguito della sentenza n. 341/1994, che va da 15 giorni a 2 anni di reclusione (con un rapporto da 1 a 48) a destare serie perplessita' sotto il profilo della legittimita' costituzionale della norma. 4.l). - (segue) c) principio del buon andamento della p.a. Ultimo profilo di possibile illegittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., nel suo complesso, che va evidenziato e' il principio del buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 della Costituzione, che potrebbe apparire paradossale se si pensa che il medesimo principio era generalmente individuato come il fine dell'incriminazione, se non addirittura come il bene giuridico protetto. Tuttavia a ben vedere cio' non deve sorprendere perche' i fini di politica criminale impongono l'adozione di strumenti congruenti con essi e non di strumenti assolutamente sproporzionati e sovrabbondanti e, in quanto tali, controproducenti. Ora, la prassi mostra come l'incriminazione indiscriminata delle condotte descritte dall'art. 341 c.p. non risultava il piu' delle volte per nulla funzionale all'efficienza delle stesse amministrazioni di appartenenza del singolo p.u. offeso, obbligato a denunziare il fatto a norma dell'art. 361 c.p., ad assentarsi dal suo ufficio per presentarsi a rendere testimonianza anche a distanza di anni, magari affrontando viaggi notevoli a seguito di trasferimenti successivi al fatto, con correlativo dispiegamento di tutta un'attivita' burocratica, prima ancora che giudiziaria, del tutto sproporzionata alla scarsissima rilevanza del disvalore sociale (sotto il profilo dell'interesse pubblicistico del prestigio o del buon andamento della p.a.) riscontrabile in simili fatti, con un bilancio, in termini di analisi costi/benefici, gravemente deficitario anche dal punto di vista della p.a. stessa. Non solo, ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita' di reazione da parte dei p.u., imposta per legge, avverso comportamenti certo disdicevoli ed anche penalmente illeciti, sotto il profilo dell'offesa all'onore del singolo p.u., ma che la coscienza sociale stentava del tutto a riconoscere come qualificati da una quota aggiuntiva di disvalore, finiva proprio con l'inficiare quella "fiducia" dei consociati nella p.a. che e' essenziale per un corretto svolgimento delle funzioni pubbliche secondo il modello di p.a. accolto dalla Costituzione, finendo per porsi come fattore di "estraneita'" e di "distanza" tra p.a. e cittadino. 4.m). - Profili di incostituzionalita' parziali: a) mancata previsione della pena pecuniaria. Venendo ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali", essi attengono alla mancata previsione, almeno per i casi di minore gravita', della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva, e della procedibilita' a querela di parte. Quanto alla mancata previsione della pena pecuniaria, viene in considerazione, oltre al principio di uguaglianza sotto il profilo del criterio di ragionevolezza ed in generale tutte le norme ed i principi costituzionali sopra evidenziati, soprattutto il principio di proporzione di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione, nella sua versione che si potrebbe definire "classica", ossia come criterio di congruenza tra tipo e quantita' di pena e gravita' del fatto tipico. Nel caso di specie va osservato che la mancata previsione della pena pecuniaria comportava l'impossibilita' di adeguare il trattamento sanzionatorio all'effettivo disvalore del fatto in concreto commesso. L'illegittimita' costituzionale di questa soluzione, almeno per i "casi piu' lievi", emerge ancora una volta dal raffronto col reato di ingiuria, sotto il profilo del criterio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione. D'altra parte se un simile raffronto, giustificato, come si e' visto, dal fatto che in questi casi entrambe le fattispecie finiscono col tutelare il medesimo bene giuridico, senza apprezzabili differenze, portava a considerare irragionevole una pena detentiva superiore di dodici volte nel limite minimo (sentenza n. 314/1994 cit.), a fortiori si poteva ritenere incostituzionale la mancata previsione della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva, prevista invece dall'art. 594 c.p. Non si deve infatti dimenticare che la previsione della sola pena detentiva va limitata alle sole ipotesi in cui la gravita' dell'illecito sia particolarmente elevata, ed assolutamente indispensabile il ricorso alla detenzione, mentre le sperequazioni punitive tra ipotesi di reato comparabili, per relativa omogeneita' di contenuto offensivo, in ordine alla qualita' prima ancora che alla quantificazione della pena, finiscono con l'incidere negativamente sulla funzione di prevenzione generale, perche' denunciano casualita' ed eccentricita' dell'incriminazione (circolare Presidenza del Consiglio dei ministri, cit., 16, 6.2). Si e' peraltro gia' osservato che la previsione di una pena pecuniaria modifica il giudizio sulla proporzione della pena, in termini generali, rispetto alla gravita' del fatto reato, venendo ad incidere sul bene fondamentale della liberta' personale (art. 13 della Costituzione) solo in via eventuale ed in minor misura (attraverso la sostituzione in liberta' controllata o lavoro sostitutivo). Infine il problema dell'individuazione dei limiti edittali della pena pecuniaria, conseguenti ad un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' della norma, limitata a questo aspetto, poteva agevolmente essere risolto mediante il riferimento o ai limiti generali di cui all'art. 24 c.p. oppure ai limiti previsti dall'art. 594 c.p., ossia previsti per il reato assunto quale tertium paragonis, secondo una tecnica non nuova e seguita dalla stessa Corte costituzionale in un caso in cui l'omogeneita' strutturale tra le due fattispecie poste a confronto era certamente minore (sentenza 409/89 cit.). 4.n). - (segue) b) Procedibilita'. In ordine alla procedibilita', poteva essere sottolineato il profilo di una disparita' di trattamento questa volta ai darmi dei pubblici ufficiali, discriminati, rispetto ai comuni cittadini, perche' privati del potere di proporre, come anche di non proporre, nonche' di rimettere, la querela a tutela della propria onorabilita' ( cfr. Pret. Prato 15 gennaio 1975 in Giur. della Costituzione 1975, 1732, la relativa questione, sollevata con esclusivo riferimento all'art. 3 della Costituzione, e' stata respinta dalla sentenza 2 - 14 aprile 1980 n. 51). In questa sede la questione deve essere riproposta, anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione e. soprattutto, all'art. 25 comma 2 della Costituzione, sia sulla base di tutto quanto gia' si e' detto in ordine all'obiettivita' giuridica del reato, sia cercando di svelare i nessi tra funzione della procedibilita' a querela e natura del bene protetto dall'art. 594 c.p., in rapporto al principio di determinatezza. Sotto il primo profilo bastera' ricordare come l'originaria configurazione del reato concepisse la tutela dell'onore del singolo p.u. come semplice "mezzo" per perseguire un fine di piu' ampia portata, ossia il principio di autorita', sicche' veniva imposta una correlazione necessaria tra lesione del bene personale dell'onore del singolo p.u. e dimensione pubblicistica dell'offesa, con una soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore che vi era sottesa, di una certa coerenza, perche' innegabile e' la congruenza con quel fine dello strumento apprestato. Ma, come si e' visto, una simile congruenza inevitabilmente svanisce una volta mutata la prospettiva di tutela mediante l'adozione delle finalita' del prestigio o del buon andamento della p.a., in luogo di quella originaria, perche' a questo punto era la stessa estensione della fattispecie a non trovare piu' valida giustificazione, tanto da far apparire lo strumento di cui all'art. 341 c.p. come palesemente incongruo rispetto a quei fini. Si aggiunga che il significato della procedibilita' della querela per i reati di ingiuria e diffamazione (art. 597 c.p.) va ricercato nell'individualita', si potrebbe dire "intimita'" del bene giuridico protetto dell'onore, quale diritto della personalita' di ciascun uomo in quanto tale, in se' e per se' considerato, e nell'obiettiva scarsa gravita' che spesso queste condotte, sotto il profilo dell'interesse statuale al mantenimento dell'ordine sociale, assumono. Con cio' si vuoi dire che si tratta di condotte che tipicamente si originano nell'ambito di conflitti interpersonali, coinvolgenti una dimensione prima di tutto, per cosi' dire, "privatistica", che spesso trovano un adeguato componimento nell'ambito del medesimo rapporto, mediante ad es., presentazione di scuse o risarcimento dei danni, sicche' appare oltre modo opportuno limitare l'intervento punitivo dello Stato al caso di presentazione di querela anche al fine, mediante l'istituto della remissione, di favorire componimenti in via bonaria. Inoltre la funzione della querela, in stretta correlazione con il principio di determinatezza di cui all'art. 25, comma 2 della costituzione, consiste anche nel selezionare le condotte realmente offensive, in modo da arginare il rischio che l'azione penale sia promossa in relazione ad un'infinita' di fatti bagattellari con evidente pregiudizio di un'efficiente amministrazione della giustizia. Ebbene col reato di oltraggio a p.u., procedibile d'ufficio, si veniva a realizzare una sorta di "sacrificio" o di "strumentalizzazione" di un bene specificatamente personale, quale l'onore del singolo p.u., in funzione del perseguimento di una finalita' pubblicistica trascendente l'interesse della persona fisica, che tuttavia si risolveva alternativamente o in una scelta credibile ma di per se' in contrasto con la Costituzione (principio di autorita), ovvero in una scelta di per se' conforme alla Costituzione (prestigio o buon andamento della p.a.), ma che non trovava alcun riscontro nella struttura del reato, essendo il collegamento con la pubblica funzione tanto generico da risultare evanescente. Vi e' allora da chiedersi se fosse razionalmente giustificabile il sacrificio imposto ai p.u., privati del potere di tutelare autonomamente un bene della loro personalita' ed anzi gravati dell'obbligo di presentare denunzia, da una tutela "pubblicistica", priva in realta' di concreti elementi di riscontro normativo. O non fosse piuttosto preferibile, e costituzionalmente imposto, selezionare, dal punto di vista tipologico, quelle condotte la cui punizione fosse effettivamente funzionale alle finalita' del prestigio e/o del buon andamento della p.a. e lasciare negli altri casi alla libera decisione del singolo p.u. la tutela dei beni propri della sua personalita', mediante l'esercizio del potere di proporre querela. L'art. 341 c.p. incideva anche pesantemente sul buon andamento della p.a. in generale e dell'amministrazione giudiziaria in particolare, imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u. e, dall'altro l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale (art. 112 Cost.) in ordine a tutti i casi, anche quelli obiettivamente bagattellari ed in cui il p.u. non si fosse sentito offeso (e non avrebbe pertanto presentato querela) o avesse ricevuto tutte le scuse del caso (e avrebbe pertanto presumibilmente rimesso la querela).