ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 23 marzo
1999   relativa   alla   insindacabilita'   delle  opinioni  espresse
dall'on. Vittorio  Sgarbi  nei confronti del dott. Giancarlo Caselli,
promosso  con  ricorso  della  Corte  di  appello di Roma, sezione IV
penale,  notificato il 3 agosto 2000, depositato in cancelleria il 11
successivo ed iscritto al n. 36 del registro conflitti 2000.
    Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;
    Udito nell'udienza pubblica del 5 giugno 2001 il giudice relatore
Valerio Onida;
    Udito l'avv. Roberto Nania per la Camera dei deputati.

                          Ritenuto in fatto

    1. - La Corte d'appello di Roma, IV sezione penale, ha proposto -
con  ordinanza  in data 25 ottobre 1999, depositata nella cancelleria
della  Corte  il  21 febbraio  2000,  nel  corso  di  un giudizio nei
confronti del deputato Vittorio Sgarbi, per il delitto previsto dagli
artt. 81,  595,  primo,  secondo  e terzo comma, del codice penale, e
dagli  artt. 13 e 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in danno del
dr.  Giancarlo  Caselli  - conflitto di attribuzione fra poteri dello
Stato  nei  confronti  della Camera dei deputati, in riferimento alla
deliberazione, adottata dall'Assemblea nella seduta del 23 marzo 1999
(documento  IV-quater  n. 65),  con  la  quale  e'  stata  dichiarata
l'insindacabilita' delle dichiarazioni rese dal parlamentare.
    2.  -  La  Corte d'appello premette che si procede in sede penale
nei   confronti   del   deputato  Vittorio  Sgarbi  per  le  seguenti
dichiarazioni,  da  lui  rese  nel  corso di un pubblico dibattito al
Palalido di Milano: "solo la mente perversa di alcuni magistrati puo'
permettere  di  attribuire  a Berlusconi l'associazione mafiosa. Loro
che arrivano dal Piemonte per inquinare la Sicilia", pubblicate nelle
note  A.G.I. ed A.N.S.A. del 27 marzo 1996. La Corte d'appello deduce
altresi'  di  avere  gia'  emesso  sentenza  di non luogo a procedere
perche'  il  fatto  non  costituisce reato nei confronti degli autori
delle  due  note d'agenzia e che la Corte di cassazione ha dichiarato
inammissibile,  per rinuncia, il ricorso proposto dalla parte civile,
rinviando  il giudizio alla stessa Corte d'appello per un nuovo esame
nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi.
    Dopo  avere ricordato che la Camera dei deputati, in accoglimento
della   conforme  proposta  della  Giunta  per  le  autorizzazioni  a
procedere   in   giudizio,  ha  dichiarato  l'insindacabilita'  delle
opinioni  de  quibus,  la  Corte  d'appello  sostiene  che,  ai sensi
dell'art. 68,  primo  comma, della Costituzione, dovrebbero ritenersi
insindacabili esclusivamente gli atti tipici del mandato parlamentare
compiuti nei vari organi parlamentari o "para-parlamentari" (gruppi),
con  esclusione,  quindi,  delle  attivita'  che,  sebbene  latamente
connesse  con  l'esercizio  di tali funzioni, siano ad esse estranee,
quale   appunto  l'attivita'  politica  extra-parlamentare  espletata
all'interno dei partiti.
    A  suo  avviso, poiche' le dichiarazioni in esame sono state rese
in occasione di un dibattito politico in corso in un pubblico locale,
non sussisterebbe alcun nesso tra esse e le funzioni parlamentari, in
quanto  a  detto  fine  sarebbe  necessario  che  le  opinioni  siano
strumentali   rispetto  all'ufficio  ricoperto  e  alla  funzione  da
svolgere,  mentre  la stessa Giunta per le autorizzazioni a procedere
ha riconosciuto che il deputato Vittorio Sgarbi avrebbe esercitato il
legittimo  diritto  di  critica  parlamentare  "in modo paradossale e
forse non conveniente".
    La  Corte d'appello conclude, infine, affermando che "il dissenso
in merito alla deliberazione della Camera dei deputati (...) comporta
il dover sollevare il controllo sulla sua legittimita' da parte della
Corte costituzionale".
    3.  -  Nel  giudizio  preliminare  di  delibazione  in  camera di
consiglio  il  conflitto  e'  stato  dichiarato ammissibile da questa
Corte  con  ordinanza  del  20 luglio  2000,  n. 315, notificata alla
Camera dei deputati, il 3 agosto 2000.
    4.  -  La  Camera  dei  deputati  si e' ritualmente costituita in
giudizio,  chiedendo  che  la  Corte  dichiari che spetta alla Camera
affermare  l'insindacabilita'  delle  opinioni  espresse  dal proprio
deputato.
    Secondo  la difesa della Camera, tra le opinioni dei parlamentari
riconducibili   alla  previsione  dell'art. 68,  primo  comma,  della
Costituzione  rientrerebbero  anche quelle espresse, come nel caso in
esame,  "nel  corso  di  un  dibattito  politico"  ed in un "pubblico
locale".  A  suo  avviso,  contrasterebbe  con la logica dell'odierna
societa'  pluralista, che ruota attorno al rafforzamento del raccordo
tra  l'organo  parlamentare  e la societa' civile, un'interpretazione
diretta   a   distinguere   nettamente   l'attivita'  parlamentare  e
l'attivita'  politica,  soprattutto  qualora  quest'ultima sia svolta
nell'imminenza  delle  elezioni.  La  relazione  di  "inerenza" delle
opinioni  all'esercizio  delle  funzioni  parlamentari  non  potrebbe
essere  configurata  in  termini  cosi'  restrittivi  da  rendere  in
sostanza  inoperante  il  criterio dell'applicabilita' della garanzia
costituzionale  alle  dichiarazioni  rese  al  di  fuori  della  sede
istituzionale,  mentre  la  Corte d'appello avrebbe affermato in modo
apodittico l'inesistenza del nesso funzionale.
    4.1.  -  La  difesa  della  Camera  sostiene che ricorrerebbero i
presupposti  per  ritenere  riconducibili  le  opinioni in esame alla
previsione  dell'art. 68,  primo comma, della Costituzione, in quanto
il deputato Vittorio Sgarbi, nell'esercizio dell'attivita' ispettiva,
avrebbe   costantemente  manifestato  un  atteggiamento  critico  nei
confronti  dell'operato  della  Procura  della  Repubblica  presso il
Tribunale di Palermo, come dimostrerebbero molteplici interrogazioni:
la  n. 3/00009  e  la n. 3/00010 dell'aprile 1994 (in cui si chiedono
accertamenti  ispettivi sull'ufficio di detta procura e la promozione
dell'azione   disciplinare   nei   confronti  del  dr.  Caselli);  la
n. 4/08683  del marzo  1995  (avente  ad  oggetto  l'operato  del dr.
Caselli);   e   ancora,   fra   le  altre,  la  n. 3/01624  del  1997
(particolarmente  critica nei confronti di alcuni magistrati di detta
Procura).
    Tra le dichiarazioni oggetto della delibera di insindacabilita' e
le  opinioni  formalizzate  in  sede  ispettiva  non  intercorrerebbe
soltanto  un  rapporto  di  comunanza tematica, ma una vera e propria
identita'  di  impostazione  e  di svolgimento dei medesimi contenuti
critici:  le  prime  costituirebbero anzi una mera divulgazione - sia
pure  nei  termini  sintetici  ed  icastici  che  sono  propri  degli
interventi  resi  nel  corso  di  manifestazioni  politiche  -  delle
seconde.
    La  difesa  della  Camera  conclude,  infine,  sostenendo  che la
fattispecie in esame presenterebbe molteplici profili di analogia con
quella  decisa  con  la sentenza della Corte n. 321 del 2000 e chiede
che il conflitto sia dichiarato infondato.
    5. - In prossimita' dell'udienza pubblica, la difesa della Camera
dei  deputati  ha  depositato  memoria,  nella  quale  ha ribadito le
argomentazioni svolte nell'atto di costituzione.
    6.  -  All'udienza  pubblica  la  difesa  della  Camera,  in  via
preliminare, ha eccepito l'inammissibilita' del conflitto per difetto
dei  presupposti,  sostenendo,  tra  l'altro, che l'atto introduttivo
mancherebbe  della  esposizione  dei  motivi  del  conflitto, i quali
sarebbero   stati   affermati   in  modo  apodittico  e  senza  alcun
riferimento  alla  fattispecie  concreta. Nel merito ha insistito per
l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  dello Stato,
sollevato   con  l'atto  indicato  in  epigrafe,  ha  ad  oggetto  la
deliberazione  adottata  nella seduta del 23 marzo 1999, con la quale
la  Camera  dei deputati ha dichiarato che i fatti per i quali era in
corso,  innanzi alla Corte d'appello di Roma - IV sezione penale - il
giudizio  per  diffamazione  aggravata  nei  confronti  del  deputato
Vittorio  Sgarbi  concernono  opinioni  espresse nell'esercizio delle
funzioni  parlamentari e quindi insindacabili, ai sensi dell'art. 68,
primo comma, della Costituzione.
    La  Corte  d'appello  di  Roma  - IV sezione penale - contesta la
predetta  deliberazione  della  Camera dei deputati, in quanto, a suo
avviso,  non sussisterebbe alcun nesso tra le funzioni parlamentari e
le  opinioni  espresse  dal deputato Sgarbi, che possa determinare la
loro  insindacabilita'  in  base  al  primo  comma dell'art. 68 della
Costituzione,  cosicche'  deduce  che  l'adozione  della  delibera in
oggetto   "comporta   il  dover  sollevare  il  controllo  sulla  sua
legittimita'" da parte della Corte costituzionale.
    2. - Va premesso che questa Corte con l'ordinanza n. 315 del 2000
ha ritenuto, in linea di prima e sommaria delibazione, ammissibile il
conflitto,   riservando   peraltro   espressamente   ogni  definitiva
decisione  sul  punto  all'attuale  fase  processuale, nella quale il
giudizio  si  svolge nel contraddittorio tra le parti. In questa sede
va quindi sciolta definitivamente, e con cognizione piena, la riserva
formulata  in  ordine  alle  questioni di ammissibilita' del proposto
conflitto.
    3. - Il conflitto e' inammissibile.
    All'udienza  pubblica  la  difesa  della  Camera  dei deputati ha
formalmente  eccepito,  in  via  preliminare,  l'inammissibilita' del
conflitto,  sostenendo,  tra l'altro, che l'atto introduttivo sarebbe
carente  di  motivazione, mancando la puntuale esposizione dei motivi
del  conflitto, i quali sarebbero stati affermati in modo apodittico,
senza  un  preciso  riferimento  alla fattispecie concreta, cosicche'
difetterebbero  i  presupposti per ritenere ritualmente introdotto il
giudizio.
    L'eccezione  va  accolta  e  non  puo' pertanto essere confermato
l'esito  della  delibazione  effettuata  nella  fase  sommaria con la
citata  ordinanza  n. 315  del  2000,  poiche' l'atto con il quale e'
stato sollevato il conflitto e' carente dei requisiti stabiliti dagli
artt. 37  e  38 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'art. 26 delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
    Va premesso che secondo la giurisprudenza costituzionale, ai fini
dell'ammissibilita'  del  conflitto  di attribuzione tra poteri dello
Stato,   e'   assolutamente  rilevante  che  dall'atto  introduttivo,
indipendentemente dalla forma dell'ordinanza eventualmente rivestita,
sia in ogni caso individuabile un duplice contenuto in relazione alla
duplice  funzione  cui esso e' diretto: per una parte, provvedendo in
ordine   al  processo  in  corso;  per  l'altra,  e  contestualmente,
denunciando  l'insorto  conflitto  e chiedendone la risoluzione (cfr.
ordinanze nn. 228 e 229 del 1975).
    Ed  infatti  nel  conflitto di attribuzione - a differenza che in
sede  di  questione  di  legittimita' costituzionale sollevata in via
incidentale  -  occorre che il giudice, quale titolare della funzione
giurisdizionale,   si   faccia  promotore  del  giudizio  come  parte
ricorrente,  in  vista  della  tutela  di  un interesse astrattamente
fornito   di   protezione   costituzionale;   a  questo  fine  l'atto
introduttivo  deve  assumere  i  contenuti  e  le  forme del giudizio
costituzionale sui conflitti e seguirne le regole (sentenza n. 10 del
2000). Occorre pertanto che tale atto contenga un preciso riferimento
agli elementi indispensabili per l'identificazione delle "ragioni del
conflitto"  e  inoltre  non  sia  privo  di  una  domanda chiaramente
individuabile   (cfr.   ordinanza   n. 264   del   2000),   anche  se
implicitamente desumibile dal contesto dell'atto (sentenza n. 137 del
2001), consistente nella sostanziale richiesta di una pronuncia della
Corte  che  dichiari  non  spettare  alla  Camera  di appartenenza la
valutazione  contenuta  nella  deliberazione  impugnata e che annulli
quest'ultima (cfr. sentenza n. 10 del 2000).
    L'ordinanza  della  Corte  d'appello  di  Roma  in  esame  non si
conforma  invece  a  queste  regole, dal momento che difetta, innanzi
tutto,  la  richiesta alla Corte di una declaratoria di non spettanza
alla Camera dei deputati del potere in contestazione e di conseguente
annullamento   della  deliberazione  impugnata.  Ne'  puo'  ritenersi
sufficiente,  a  tal  fine, rilevare, come si legge nell'ordinanza in
esame, che il dissenso in ordine alla delibera parlamentare "comporta
il dover sollevare il controllo sulla sua legittimita' da parte della
Corte  costituzionale,  attraversoil  conflitto di attribuzione tra i
poteri  dello  Stato",  poiche' e' invece consolidato orientamento di
questa  Corte che la giurisdizione sui conflitti, essendo determinata
in  relazione  alle  competenze  la  cui  integrita' viene difesa dai
soggetti confliggenti (sentenza n. 457 del 1999), non da' adito ad un
generale controllo di legittimita' dell'atto invasivo, ma consente la
sola  disamina  delle  censure che configurano una diretta lesione di
tali attribuzioni.
    D'altra  parte,  la  richiesta  del  controllo sulla legittimita'
della  delibera e' l'unica forma di petitum indirettamente ricavabile
nell'atto in questione, giacche' il dispositivo si limita a stabilire
che  la  Corte  d'appello  di Roma "sospende" il giudizio in corso ed
"ordina"    l'immediata    trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale,  "sollevando  conflitto  di attribuzione tra i poteri
dello  Stato".  Si puo' quindi dire che, sotto questo aspetto, l'atto
in esame si conforma, in modo inammissibile, allo schema del giudizio
di  legittimita'  in  via incidentale, anziche' a quello del giudizio
per   risoluzione   dei  conflitti  di  attribuzione,  giacche'  sono
individuabili  solo i profili propri dell'ordinanza e sono invece del
tutto carenti quelli propri del ricorso.
    Appare  poi lacunosa l'indicazione delle "ragioni del conflitto",
in  quanto  esse  vengono  enunciate  in  modo  generico ed astratto,
prevalentemente  attraverso  citazioni  della  giurisprudenza,  senza
essere  puntualmente riferite al caso concreto. Valga in proposito la
considerazione  che l'ordinanza afferma la pretesa inesistenza, nella
specie,  del  nesso  funzionale  tra  opinioni  espresse ed attivita'
parlamentare,  sulla  base  della  sola  constatazione  che  le frasi
incriminate sono state pronunciate nel corso di un dibattito politico
in  un  pubblico locale. Ma non indica alcuna ragione di diritto o di
fatto  perche',  ad  avviso  del ricorrente, non sarebbe, nelle frasi
considerate,  individuabile  un  intento  divulgativo  di  precedente
attivita'   ispettiva   parlamentare   e  non  sarebbe  stato  quindi
correttamente usato "il potere di autotutela spettante alla Camera di
appartenenza".
    D'altra  parte,  il  difetto  di  motivazione  su  questo profilo
comporta  anche  il  mancato  chiarimento sui modi con cui si sarebbe
verificata  l'interferenza  della  Camera, che avrebbe determinato la
menomazione   delle   prerogative   costituzionali,   subita,   nella
fattispecie concreta, dal giudice ricorrente.
    Difettano  quindi  in  questa  vicenda  processuale i presupposti
formali  e  sostanziali  che  possano far riconoscere il giudice come
parte  ricorrente  di  un conflitto di attribuzione, in quanto l'atto
introduttivo,  non osservando le regole del giudizio, sembra superare
la fondamentale distinzione tra conflitto di attribuzione e controllo
di costituzionalita'. Inoltre non si consente a questa Corte un esame
adeguato  delle  ragioni  poste  a  base del sollevato conflitto, non
risultando  espressa  in  maniera  compiuta la censura che si intende
muovere nei confronti della delibera che ha dato origine al conflitto
(ordinanza  n. 318  del  1999),  venendo cosi' a "mancare un elemento
essenziale del ricorso" (sentenza n. 477 del 2000).