IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla richiesta di riesame avanzata nell'interesse di Iannazzo Francesco, nato a Lamezia Terme l'8 marzo 1955, avverso l'ordinanza emessa il 10 settembre 2001 con la quale il G.I.P. del Tribunale di Catanzaro applicava al predetto la misura cautelare della custodia in carcere. Considerato quanto segue In data 10 settembre 2001 il G.I.P. di Catanzaro, accogliendo la richiesta del P.M. DDA, applicava a Iannazzo Francesco, indagato per alcuni episodi di estorsione (tentata e consumata, con l'aggravante di cui all'art. 7 legge n. 203/1991) in danno di tale La Gamba Antonio, la misura cautelare della custodia in carcere. In sede di riesame, la difesa produceva documenti, contestava il quadro indiziario e cautelare, chiedeva la revoca della misura in atto ovvero la sostituzione della stessa con altra meno gravosa. La vicenda procedimentale puo' essere riassunta nei termini che seguono. In data 22 marzo 2000 La Gamba Antonio, imprenditore edile, veniva assunto a s.i.t. da ufficiali di P.G. della Squadra Mobile della Questura di Catanzaro e dichiarava quanto segue: nel 1995 alcuni componenti della famiglia Iannazzo avevano riportato una condanna per una vicenda estorsiva ai suoi danni, in conseguenza della quale erano ancora detenuti; subito dopo la sentenza, i condannati, tramite il loro cugino Iannazzo Francesco, gli avevano chiesto di farsi carico delle spese legali del processo; egli, non potendo opporre un aperto rifiuto, aveva sempre cercato di prendere tempo, dicendo che si trovava in difficolta' economiche (cosa, peraltro, vera); nel 1997, pero', aveva dovuto sottostare alle pressioni dello Iannazzo, assumendone il figlio alle proprie dipendenze per circa 2 anni; nel frattempo, aveva realizzato dei lavori per incarico di tale De Luca, nei cui confronti accreditava un compenso complessivo di circa L. 300.000.000; nel luglio 1999 lo Iannazzo gli aveva chiesto di inserirsi in tale rapporto (si sarebbe fatto consegnare direttamente dal De Luca la somma di L. 20.000.000, da scomputarsi sul credito complessivo di cui sopra); anche questa volta, gli era riuscito di evitare il danno, con la "scusa" delle precarie condizioni economiche; lo Iannazzo, comunque, gli aveva fatto intendere che avrebbe dovuto versargli venti milioni di lire per ogni lavoro ultimato (capannoni industriali); egli, tuttavia, era riuscito a non versare soldi se non in un'occasione, quando, il 23 dicembre 1999, aveva dovuto consegnare a Iannazzo Francesco un assegno di L. 8.000.000, tratto sul suo c/c personale ed intestato "a m.m.". Veniva acquisita copia della summenzionata sentenza di condanna nei confronti di alcuni componenti della famiglia Iannazzo. In data 12 aprile 2000, De Luca Peppino: confermava alla P.G. l'esistenza del rapporto con il La Gamba; aggiungeva di aver versato il dovuto in rate mensili di circa 20/30 milioni di lire; escludeva di aver avuto contatti di sorta con l'indagato. Dagli accertamenti espletati (vedi note informative, documenti e verbali di s.i.t. in atti) risultava che: l'assegno bancario di cui sopra era stato portato all'incasso in data 24 dicembre 1999 da tale Saladino Nicolino; quest'ultimo aveva "cambiato" il titolo al proprio amico Scerbo Domenico, il quale gli aveva detto di averlo ricevuto dal suo datore di lavoro, La Gamba Antonio; Scerbo Domenico era il cognato di Iannazzo Francesco e lavorava alle dipendenze della "Gecoprem", ditta facente capo al La Gamba, dal 12 gennaio 1994; Iannazzo Pierdomenico, figlio dell'indagato, aveva lavorato alle dipendenze del La Gamba dal 27 novembre 1997 al 30 settembre 1999; sulla matrice del ripetuto assegno figuravano le annotazioni "23 dicembre 1999", "8.000.000", "Iannazzo Francesco". In data 14 giugno 2000, il La Gamba, sentito da altra autorita' di P.G., prendeva visione dell'assegno e dichiarava di averlo "emesso a favore di Scerbo Domenico", suo dipendente, per delle spettanze di lavoro arretrate (forse si trattava della liquidazione). In pari data, Scerbo Domenico, presa visione del titolo in argomento, dichiarava di averlo ricevuto dal La Gamba quale trattamento di fine rapporto per il lavoro svolto alle dipendenze della ditta "Premasud"; specificava, inoltre, di aver prestato lavoro dipendente, in ordine cronologico: per la ditta La Gamba (nei primi otto mesi del 1987); per la "Premasud"; per la "Gecoprem" (rapporto di lavoro iniziato il 12 gennaio 1994 e tuttora in corso). In data 14 maggio 2001, La Gamba Antonio confermava al P.M., il quale gli mostrava la matrice dell'assegno sopra ripetutamente richiamato, di aver apposto di suo pugno le annotazioni che vi figuravano. Il P.M. espletava consulenza grafica sulla predetta matrice ed i relativi risultati corroboravano la rivendicazione di paternita' delle annotazioni operata dal La Gamba. Queste, in estrema sintesi, le emergenze dell'indagine. A questo punto, appare necessario qualificare la posizione processuale di La Gamba Antonio. Sotto un profilo meramente formale, non v'e' dubbio che il medesimo, non risultando a suo carico alcuna iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p., debba considerarsi tuttora come p.o. - informata dei fatti. Tuttavia, ai fini della individuazione delle regole da seguire nella valutazione del materiale indiziario, il collegio ritiene che la condotta tenuta dal La Gamba imponga di qualificarlo come persona indagata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371 comma 2 lettera b) c.p.p.. Ed invero, e' sufficiente "affiancare" le dichiarazioni rese dal La Gamba in data 22 marzo e 14 giugno 2000, per rilevare come le stesse, relativamente all'episodio dell'assegno di L. 8.000.000, siano del tutto inconciliabili fra loro. Basti pensare come alla dazione della somma sia attribuita, prima, una causale estorsiva e, poi, una del tutto lecita. In tali frangenti, si imponeva il rispetto delle formalita' di cui agli articoli 63 e 335 c.p.p. (in relazione al reato di favoreggiamento personale, doverosamente ipotizzabile dopo le inequivocabili dichiarazioni del 14 giugno 2000) e la mancata ottemperanza a tali obblighi di legge non puo' certo ritorcersi in pregiudizio dell'indagato. Di conseguenza, deve trovare applicazione nella specie il disposto di cui all'art. 273, comma 1-bis, c.p.p., che, con il richiamo alle regole di valutazione di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., impone al giudice della cautela, dopo la valutazione dell'attendibilita' dell'accusatore e del suo racconto, la ricerca di un c.d. "riscontro esterno individualizzante". Le iniziali dichiarazioni accusatorie del La Gamba appaiono intrinsecamente attendibili, poiche' logiche, coerenti, dettagliate e supportate dall'antefatto desumibile dalla sentenza di condanna emessa dal G.U.P. di Catanzaro in data 30 marzo 1996 nei confronti di alcuni cugini dell'indagato per una precedente vicenda estorsiva, consumata con modalita' mafiose. Al contrario, la versione resa dal medesimo in data 14 giugno 2000, in primo luogo concerne esclusivamente "l'episodio dell'assegno" ed, inoltre, appare del tutto inverosimile, poiche' smentita: dalle annotazioni, sicuramente di pugno del La Gamba, presenti sulla matrice del titolo; dall'incongruenza logica della dedotta causale del pagamento nei confronti dello Scerbo (coordinando le dichiarazioni di quest'ultimo con quelle del La Gamba, si ottiene che il datore di lavoro avrebbe versato il T.F.R. a distanza di oltre 5 anni dalla cessazione del rapporto, per giunta utilizzando il suo c/c personale). Per le stesse ragioni, deve ritenersi inattendibile Scerbo Domenico (almeno limitatamente alla parte in cui afferma di aver ricevuto l'assegno dal La Gamba, in pagamento del T.F.R.). Infine, deve rilevarsi che il La Gamba, fin dall'inizio, e' apparso poco propenso a riferire sulla vicenda, poiche' fortemente intimidito (egli stesso riferisce a chiare lettere i propri timori - vedi verbale del 22 marzo 2000). Il complesso indiziario sopra descritto induce a ritenere la successiva condotta del La Gamba, altrimenti priva di logica spiegazione, come frutto di pressioni e minacce, tese ad indurlo a ridimensionare le iniziali accuse. Ora, il Tribunale ritiene che, per le ragioni esplicitate con separata ordinanza, le dichiarazioni accusatorie del La Gamba trovino un adeguato riscontro individualizzante per quanto concerne l'episodio delittuoso di cui al capo b) della contestazione (relativo all'assunzione del figlio dell'indagato). Viceversa, nessuna conferma di tal genere e' rinvenibile in ordine agli altri reati attribuiti all'indagato (a questo fine non possono essere valorizzate le annotazioni apposte dal La Gamba sulla matrice dell'assegno piu' volte menzionato, per l'intuitiva considerazione che si tratterebbe di un riscontro non "esterno" ma proveniente dallo stesso dichiarante - c.d. "circolarita' della prova" -); di conseguenza, l'applicazione del combinato disposto degli articoli 273, comma 1-bis, e 192, comma 3 e 4, c.p.p. imporrebbe la revoca della misura in atto per difetto di gravita' indiziaria. Il Tribunale ritiene, pero', che i predetti articoli del codice di rito violino il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., poiche' disciplinano in modo irragionevolmente diverso una fattispecie in tutto analoga a quella di cui all'art. 500, comma 4, c.p.p.. Il caso in esame puo' essere schematicamente riepilogato come segue: una p.o., dopo aver reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un soggetto, indicandolo come responsabile di alcuni reati, rende ulteriori dichiarazioni di contenuto inconciliabile con le prime e favorevoli all'indagato; tali ultime dichiarazioni comportano l'assunzione, da parte della stessa p.o., della qualita' di indagato di reato collegato ma risultano poi effetto d'intimidazione. L'assenza nel combinato disposto normativo di cui sopra di un meccanismo analogo a quello di cui all'art. 500, comma 4, c.p.p. impedisce al giudice della cautela, nonostante l'accertata minaccia nei confronti del testimone, di valorizzare appieno le iniziali, genuine dichiarazioni d'accusa del medesimo (previo, ovviamente, il relativo controllo di attendibilita). Al contrario, il giudice del dibattimento, nell'identica situazione, in forza del richiamato "meccanismo di salvezza", potrebbe pervenire all'affermazione di responsabilita' nei riguardi dell'imputato sulla base delle sole accuse iniziali, ritenute attendibili. Ora, la sopravvenuta assunzione, da parte del testimone d'accusa, della qualita' di indagato non pare elemento idoneo a discriminare le due fattispecie a confronto tanto da giustificarne un diverso trattamento (con quel che ne consegue sul piano della valutazione degli indizi). Ed invero, posto che in entrambi i casi si tratta di un contrasto fra dichiarazioni "di verita'" e "d'intimidazione", risulta irragionevole una disciplina, come quella in argomento, che consenta il recupero pieno delle prime solo nel dibattimento e non nella fase delle indagini preliminari. Ne' la diversita' di trattamento puo' trovare giustificazione in considerazione del fatto che le due vicende si svolgono in distinte fasi processuali, poiche', al contrario, tale rilievo evidenzia ancor piu' l'incongruenza di un sistema che, in presenza degli stessi elementi probatori (le sole "dichiarazioni di verita'" di cui sopra) finisce col non consentire la cattura in un caso e permettere la condanna nell'altro. Le argomentazioni fin qui' svolte danno ragione della rilevanza nel presente giudizio e della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sopra esposta e formalizzata in dispositivo.