ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 1, primo e
terzo  comma,  del  regio  decreto-legge  27 novembre  1933,  n. 1578
(Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito
dalla  legge 22 gennaio 1934, n. 36, promosso con ordinanza emessa il
28 dicembre  2000  dal  pretore  di  Venezia,  iscritta al n. 258 del
registro  ordinanze  2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 15, 1a serie speciale, dell'anno 2001.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 21 novembre 2001 il giudice
relatore Valerio Onida;
    Ritenuto che, con ordinanza emessa il 28 dicembre 2000, pervenuta
a  questa Corte il 19 marzo 2001, il pretore di Venezia, nel corso di
un  procedimento  penale  a  carico  di  un  imputato  del  reato  di
usurpazione  di  titolo  (art. 498  cod.  pen.)  per avere assunto il
titolo  di  procuratore legale senza essere iscritto al relativo albo
professionale,  ma avendo superato l'esame di idoneita' all'esercizio
della   professione,   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  agli articoli 33, quinto comma, e 3
della  Costituzione,  dell'art. 1,  primo  e  terzo  comma, del regio
decreto-legge    27 novembre   1933,   n. 1578   (Ordinamento   delle
professioni  di  avvocato  e  procuratore),  convertito  dalla  legge
22 gennaio  1934,  n. 36,  ai  cui  sensi  "nessuno  puo' assumere il
titolo,  ne'  esercitare  le funzioni di avvocato o di procuratore se
non  e'  iscritto  nell'albo professionale" (primo comma), divieto la
cui  violazione  e'  punita,  nel  caso  di usurpazione del titolo di
avvocato  o  di  procuratore, a norma dell'art. 498 del codice penale
(terzo comma);
        che  detta  questione  era  stata gia' sollevata dallo stesso
Pretore di Venezia con ordinanza emessa il 23 marzo 1999, iscritta al
n. 363 del reg. ord. 1999;
        che  nella  predetta  ordinanza  si  osservava  anzitutto che
l'art. 33,   quinto  comma,  della  Costituzione,  prescrivendo,  per
l'abilitazione   all'esercizio   professionale,   esclusivamente   il
superamento  di  un  esame di Stato, senza menzionare l'iscrizione in
albi  professionali  come  condizione  per  l'esercizio professionale
medesimo,  e tanto meno per la semplice utilizzazione del titolo, non
consentirebbe di sanzionare addirittura come delitto il comportamento
di chi, avendo superato l'esame di abilitazione, utilizzi il relativo
titolo  pur  non essendo iscritto all'albo, il quale avrebbe funzioni
di  mera  pubblicita';  e  che  tale  normativa appare irragionevole,
tenuto  conto  che l'iscrizione all'albo, una volta superato l'esame,
costituirebbe sostanzialmente un atto dovuto;
        che,  sempre  nella ordinanza del 23 marzo 1999, si affermava
che   la   normativa  in  questione  realizzerebbe  un'ingiustificata
disparita'   di   trattamento,   con   violazione  del  principio  di
eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, fra i procuratori
legali  ed  i dottori commercialisti, per i quali l'art. 2 del d.P.R.
27 ottobre  1953,  n. 1067 stabilisce che il relativo titolo spetta a
chi  abbia  superato  l'esame  di  abilitazione;  e  che essa sarebbe
irragionevole anche sotto l'aspetto che il medesimo art. 1 del r.d.l.
n. 1578  del  1933,  al  secondo  comma,  consente  agli  avvocati  e
procuratori,   cancellati   dall'albo   per  causa  che  non  sia  di
indegnita', di usare il titolo;
      che   sulla  questione  cosi'  sollevata  questa  Corte  si  e'
pronunciata   con   l'ordinanza   n. 192   del  2000,  disponendo  la
restituzione  degli  atti  al  giudice  a  quo  per  un riesame della
rilevanza,  a  seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo
30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma
del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'art. 1 della legge 25 giugno
1999,  n. 205),  il quale, all'art. 43, ha modificato l'art. 498 cod.
pen.,  stabilendo,  per le violazioni ivi previste, l'applicazione di
una sanzione amministrativa pecuniaria;
        che  il  pretore di Venezia, con l'ordinanza introduttiva del
presente  giudizio,  richiamate  per  intero  le motivazioni espresse
nella  precedente  ordinanza  del  23 marzo  1999,  considera  che la
questione   conserverebbe   piena   rilevanza,   poiche'   l'avvenuta
depenalizzazione  imporrebbe  al  giudice,  qualora  la  norma  fosse
conforme  alla Costituzione, di assolvere l'imputato perche' il fatto
non e' piu' previsto come reato, e contestualmente di trasmettere gli
atti  all'autorita'  amministrativa, laddove, invece, nel caso in cui
venisse  accertata  l'incostituzionalita' della norma incriminatrice,
il  giudice  dovrebbe  assolvere sic et simpliciter l'imputato, senza
trasmettere gli atti all'autorita' amministrativa;
        che  e' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio,
chiedendo   di  dichiarare  la  questione  inammissibile  o  comunque
infondata;
        che,  in  una  successiva  memoria,  l'interveniente osserva,
quanto  alla  lamentata  violazione dell'art. 33, quinto comma, della
Costituzione,  che  l'esame  di  Stato  sarebbe necessario al fine di
ottenere l'abilitazione professionale, ma non sarebbe escluso che per
tale  abilitazione  e  per  fregiarsi  del  relativo  titolo  occorra
l'iscrizione ad un apposito albo; e, quanto alla lamentata disparita'
di  trattamento  rispetto  alla  disciplina  dettata  per  i  dottori
commercialisti,  che  le  due situazioni sarebbero differenti, o come
tali  sarebbero  state  discrezionalmente  valutate  dal legislatore,
atteso anche che gli avvocati svolgerebbero un servizio pubblico.
    Considerato  che,  ai  sensi  dell'art. 102,  comma 1, del d.lgs.
n. 507  del 1999, l'autorita' giudiziaria, entro novanta giorni dalla
data  di  entrata  in vigore dello stesso decreto, doveva disporre la
trasmissione  all'autorita'  amministrativa competente degli atti dei
procedimenti  penali  in  corso,  relativi  a  reati  trasformati  in
illeciti  amministrativi,  salvo solo il caso che il reato risultasse
prescritto  o  estinto  per  altra causa alla medesima data; e che,ai
sensi  del successivo comma 3, se l'azione penale, come nella specie,
e'  stata  gia'  esercitata, il giudice, ove l'imputato o il pubblico
ministero  non  si opponga, pronuncia in camera di consiglio sentenza
inappellabile  di  assoluzione  o di non luogo a procedere perche' il
fatto   non  e'  previsto  dalla  legge  come  reato,  disponendo  la
trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa;
      che,  dunque  --  a  differenza di quanto aveva stabilito a suo
tempo  l'art. 41,  primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689,
per  le  ipotesi  di  depenalizzazione ivi previste, condizionando la
trasmissione  degli atti all'autorita' amministrativa al fatto che il
giudice  stesso  non  dovesse  pronunciare decreto di archiviazione o
sentenza  di  proscioglimento  -- il legislatore delegato del 1999 ha
escluso  che  in  capo  al  giudice  dei processi pendenti rimanga il
potere-dovere  di  valutare  la  condotta contestata sotto il profilo
della  sua  sussistenza  e  della sua corrispondenza alla fattispecie
della  norma  incriminatrice,  sia pure al solo fine di una eventuale
sentenza di proscioglimento nel merito;
        che,  pertanto,  il  giudice  a  quo  non e' piu' chiamato ad
applicare  la  norma che prevede la condotta costituente illecito, un
tempo  penale e ora amministrativo, ma semplicemente a verificare che
la  violazione  contestata  non  e'  prevista come reato ed e' quindi
sottratta  alla giurisdizione del giudice penale, e a trasmettere gli
atti (salvo che il reato risultasse gia' estinto alla data di entrata
in  vigore  del  d.lgs.  n. 507  del  1999) alla competente autorita'
amministrativa,  alla  quale  soltanto spetta, ora, fare applicazione
della  norma  che  prevede  l'illecito e stabilisce la sanzione: onde
anche  le  eventuali questioni di legittimita' costituzionale di tale
norma, o di norme che ne condizionano l'applicazione, potranno essere
rilevanti  solo  nei  giudizi  instaurati davanti al giudice civile a
seguito della eventuale applicazione della sanzione amministrativa;
        che  la  determinazione di trasmettere gli atti all'autorita'
amministrativa  non  costituisce  a  sua  volta applicazione, nemmeno
parziale,  della  norma  (gia)  incriminatrice,  ma solo applicazione
vincolata  (e  per questo assoggettata ad un breve termine: art. 102,
comma  1,  cit.)  della statuizione legislativa che ha abrogato detta
norma  incriminatrice,  sostituendola con la previsione dell'illecito
amministrativo e della relativa sanzione;
        che  la  questione e' dunque manifestamente inammissibile per
difetto di rilevanza.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.