La  Regione  Umbria,  in  persona  del  presidente  della  giunta
regionale  pro tempore Maria Rita Lorenzetti, rappresentata e difesa,
per  procura  apposta  a  margine del presente atto e giusta delibera
della  giunta  regionale  n. 124  del  13  febbraio  2002, dagli avv.
Giandomenico  Falcon  e Maurizio Pedetta ed elettivamente domiciliata
in Roma, presso l'avv. Luigi Manzi, in via Confalonieri n. 5,
    Contro  la  Presidenza  del Consiglio dei ministri in persona del
Presidente  del  Consiglio  pro  tempore,  per  la  dichiarazione  di
illegittimita'  costituzionale  della legge 28 dicembre 2001, n. 448,
pubblicata  nel  supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 301
del  29 dicembre 2001, contenente "Disposizioni per la formazione del
bilancio  annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)"
con  particolare riferimento alle disposizioni contentute negli artt.
11,  17, comma 2; 25, comma 10; 33, 35, 41, 52, comma 10, 17, 39, 83;
60  comma 1, lett. d), 64; 66; 67; 70 per violazione degli artt. 117,
118 e 119 della Costituzione.

                              F a t t o

    Nel  supplemento  ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 301 del 29
dicembre  2001 e' stata pubblicata la legge 28 dicembre 2001, n. 448,
contenente  "Disposizioni  per  la  formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato" (legge finanziaria 2002). In linea generale,
tale  legge  - che comprende molte norme prive di qualsiasi carattere
"finanziario"  in  contrasto  con  i  principi enunciati dall'art. 11
della  legge  n. 468 del 1978 (come modificato dalla legge n. 208 del
1999)  in  ordine  al  suo contesto essenziale, circoscritto a "norme
tese  a  realizzare  effetti finanziari con decorrenza dal primo anno
considerato  nel  bilancio pluriennale" e con esplicita esclusione di
norme  di  carattere  ordinamentale  ovvero  organizzatorio  - appare
chiaramente elaborata e approvata, per quanto riguarda l'ordine delle
competenze  legislative  dello Stato e delle Regioni, nel segno della
continuita'  col quadro costituzionale precedente a quello introdotto
con  la  legge  costituzionale  18 ottobre 2001, n. 3, confermata col
referendum  del  7 ottobre  2001,  che, nell'introdurre "Modifiche al
titolo  V  della  parte  seconda  della  Costituzione", ha totalmente
ridefinito  detto  ordine  nel nuovo art. 117, dettando, altresi, una
nuova   e  conseguente  disciplina  delle  competenze  amministrative
(art. 118) e dei rapporti finanziari (art. 119).
    Quanto  al  nuovo  art. 117,  esso,  nel  quadro  di  una riforma
complessiva con cui si introducono nel nostro ordinamento elementi di
federalismo  o,  comunque,  di  regionalismo avanzato, puo' a ragione
essere   considerato   come   la  norma  generale  regolatrice  della
competenza  legislativa  dello  Stato  e  delle  Regioni ovvero della
competenza   legislativa   tout   court.   Essa  infatti,  dopo  aver
riconosciuto,   al   comma   1,  la  pari  spettanza  della  potesta'
legislativa   allo   Stato   e  alle  Regioni,  "nel  rispetto  della
Costituzione,   nonche'   dei   vincoli   derivanti  dall'ordinamento
comunitario  e dagli obblighi internazionali", elenca analiticamente,
al  comma  2,  le  materie  nelle  quali  lo  Stato  ha "legislazione
esclusiva";   al  comma  3  specifica  le  "materie  di  legislazione
concorrente",  precisando  che  nelle  stesse "spetta alle Regioni la
potesta'  legislativa,  salvo  che per la determinazione dei principi
fondamentali,  riservata  alla  legislazione dello Stato"; al comma 4
riconosce  alle Regioni "la potesta' legislativa in ferimento ad ogni
materia  non  espressamente riservata alla legislazione dello Stato";
secondo, poi, il comma 5 le Regioni "nelle materie di loro competenza
partecipano   alle  decisioni  dirette  alla  formazione  degli  atti
normativi  comunitari  e  provvedono  all'attuazione e all'esecuzione
degli  accordi  internazionali  e  degli  atti  dell'Unione europea";
infine,  per  quel che qui rileva, il comma 5 riconosce allo Stato la
potesta'  regolamentare  con  esclusivo  riferimento alle "materie di
legislazione   esclusiva,  salva  delega  alle  Regioni",  mentre  la
medesima potesta' "spetta alle Regioni in ogni altra materia".
    Da questa disciplina costituzionale discende dunque che:
        a)  allo  Stato  e  le  Regioni  hanno  ciascuno una sfera di
potesta'  legislativa  esclusiva,  vale  a  dire  che trova un limite
immediato,  nell'ordinamento  interno,  soltanto  nella Costituzione.
Peraltro  quella  dello Stato e' limitata alle materie specificate al
comma  2  mentre  quella  delle  Regioni  e'  residuale,  generale  e
innominata  in  quanto  estesa  "ad  ogni  materia  non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato" (comma 4).
        b)  Vi  e' una sfera, con contenuto predeterminato attraverso
la  indicazione delle materie, di legislazione concorrente: anche qui
"la  potesta'  legislativa  spetta  alle Regioni" mentre quella dello
Stato e' limitata alla "determinazione dei principi fondamentali".
        c)  Nelle  materie  di  loro competenza, quindi, le Regioni -
oltre  a  partecipare  alla  loro formazione - attuano ed eseguono in
ambito interno gli accordi internazionali e gli atti della UE.
        d)  La  potesta'  regolamentare  spetta  alle  Regioni in via
generale,  mentre  lo  Stato  puo' emanare regolamenti soltanto nelle
materie di legislazione esclusiva.
    Deve essere ancora ricordato, per i fini che qui interessano, che
il   nuovo   art. 118  della  Costituzione  attribuisce  le  funzioni
amministrative  essenzialmente  ai comuni (salvo che, per assicurarne
l'esercizio    unitario    siano   conferite   a   province,   citta'
metropolitane,  regioni  e Stato) richiamando in proposito i principi
di  sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza; mentre l'art. 119
sancisce  il  principio  dell'"autonomia  finanziaria di entrata e di
spesa" di comuni, province, citta' metropolitane e regioni.
    E'  dunque con riferimento a questo nuovo quadro costituzionale -
da  cui  derivano  obiettivamente molti piu' vincoli per lo Stato che
per  le  Regioni  (nel  senso che l'ambito di azione dello Stato, nel
contesto  della  sostanziale parificazione delle rispettive potesta',
e'  molto  piu' limitato di quello delle Regioni) - che devono essere
esaminate  e  valutate  la legittimita' delle disposizioni della c.d.
"legge finanziaria 2002" impugnate in questa sede.
    Di  questo  quadro  costituzionale  completamente mutato la legge
finanziaria  2002  non ha tenuto minimamente conto, conformandosi nel
suo   complesso   come  espressione  di  un  rinnovato  e  accentuato
centralismo   statalistico   sistematicamente   invasivo,  anche  con
normative   di   settore   di  carattere  organico,  della  sfera  di
attribuzioni  riservata alle regioni a titolo di competenza esclusiva
generale  e  residuale  (art. 117,  comma  4)  ovvero  di  competenza
concorrente  (art. 117,  comma  3),  nonche' lesivo dell'ordine delle
competenze  amministrative  sancito  dall'art. 118  e  del  principio
dell'autonomia  finanziaria  delle regioni e degli enti locali di cui
all'art. 119.
    In  particolare appaiono chiaramente adottate in violazione della
competenza  regionale  le disposizioni dettate con gli articoli il in
materia   di   Fondazioni   bancarie;   17,   comma  2,  in  tema  di
contrattazione  integrativa  di  comparto;  25,  comma  10,  relativo
all'istituzione  di  un  fondo  per  la  riqualificazione  urbana dei
comuni; 33, in tema di gestione dei servizi volti alla valorizzazione
dei  beni culturali; 35, riguardante le forme di gestione dei servizi
degli  enti  locali;  41,  sull'accesso al mercato dei capitali degli
enti  locali  e  delle  regioni;  52, comma 17, in materia di fiere a
carattere  religioso,  benefico  e  politico; 70, in materia di asili
nido;  60 comma 1, lett. d), in tema di tipologie di investimenti per
le   imprese   agricole;   64,  riguardante  i  vigneti  abusivamente
impiantati; 66, che dispone di finanziamenti ad aziende zootecniche e
cooperative  di  allevamento bovino; 67, relativo al finanziamento di
patti territoriali e contratti di programma in agricoltura; 52, commi
10,  39  e  83,  in  tema di quote latte, contributi agli allevamenti
ippici, sviluppo dell'ippoterapia e fondo per la copertura dei rischi
in agricoltura.
    Le  disposizioni  sopra  indicate sono illegittime per violazione
degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione.
    La  Regione  Umbria,  pertanto,  rappresentata  e  difesa come in
epigrafe,   chiede   all'ecc.ma  Corte  adita  che  siano  dichiarate
costituzionalmente illegittime per i seguenti motivi di

                            D i r i t t o

    1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 11.
    L'articolo  11  e'  dedicato alle fondazioni bancarie. Esso e' di
per  se'  estraneo  al  contenuto  tipico  della legge finanziaria, e
continua  il  ben  noto processo di "allontanamento" delle fondazioni
dalla gestione bancaria.
    Va  preliminarmente  notato  che, benche' la legge preveda che le
fondazioni   bancarie  assumano  personalita'  giuridica  di  diritto
privato,  la  legislazione  statale  non  le ha mai considerate quali
soggetti  che godono di autonomia privata. Le stesse disposizioni del
presente  articolo  11  lo confermano, intervenendo profondamente sia
nell'organizzazione  sia  nell'attivita' di tali fondazioni: come non
sarebbe  ovviamente ammesso fare se si trattasse di fondazioni frutto
ed espressione di autonomia privata.
    Deve  percio'  ritenersi che la legislazione statale consideri la
personalita'   privatistica  delle  fondazioni  bancarie  quale  pura
determinazione  di  un regime giuridico dei relativi atti, e non come
espressione  della  qualita'  effettiva  del  soggetto,  del quale si
dispone con normativa pubblica.
    Cio'  esclude  radicalmente,  in  particolare,  che la disciplina
dell'art. 11 possa riferirsi alla materia dell'ordinamento civile.
    Risulta evidente, invece, che la disciplina dell'art. 11 si fonda
ancora  in  larga misura sull'assimilazione delle fondazioni bancarie
agli enti di credito, sulla quale la giurisprudenza di codesta ecc.ma
Corte costituzionale ha gia' avuto varie occasioni di soffermarsi (v.
in  particolare  le decisioni n. 163 del 1995 e n. 341 del 2001), non
senza  notare  che,  una volta che venisse meno tale collegamento, le
fondazioni   gia'   bancarie  apparirebbero  come  enti  che  operano
istituzionalmente  a scopi di utilita' sociale, in larghissima misura
ricadenti nelle competenze legislative delle Regioni.
    Infatti,  nella  stessa  sentenza  n. 341 del 2001 codesta ecc.ma
Corte  notava  che,  una volta terminato il periodo di transizione da
ente  di  credito a ente operante per scopi di pubblica utilita', "si
porra'  il  problema  del  coordinamento  con  il  nuovo regime delle
persone  giuridiche private e delle trasformate istituzioni pubbliche
di  assistenza  in  associazioni  e  fondazioni  con  personalita' di
diritto privato senza fine di lucro, anche in relazione agli scopi ed
ai  settori  di  attivita' previsti per la fondazione (ex bancaria) e
alle  materie  di  competenza  (esclusiva o concorrente) regionale (o
provinciale)".  Ora,  sembra  alla  ricorrente  regione  che  sia  la
intervenuta modifica della Costituzione (che attribuisce alle Regioni
ordinarie  potesta'  legislativa concorrente con termini praticamente
identici   a   quelli   usati   dallo   statuto   del   Trentino-Alto
Adige/Südtirol all'art. 5, n. 3), sia la nuova disciplina dei settori
di  intervento  conducano ad anticipare al presente il momento in cui
il problema si pone.
    Attualmente,  in  definitiva  le  fondazioni  bancarie vengono al
momento  in  considerazione:  quanto  al profilo soggettivo, in parte
quali  enti  assimilati  ad  enti di credito, in parte quali enti che
svolgono  per  compito  istituzionale  funzioni di pubblica utilita';
mentre  sotto  il  profilo dell'attivita' la loro azione ricade nelle
materie di volta in volta prese in considerazione.
    Ora,  considerati  come enti (assimilati a) enti di credito, essi
ricadono nella competenza legislativa concorrente dello Stato e delle
regioni,  almeno per la parte in cui si estende la materia relativa a
"casse  di  risparmio,  casse  rurali, aziende di credito a carattere
regionale";  considerati  come enti che svolgono funzioni di pubblica
utilita'  essi  ricadono  nella  competenza legislativa concorrente o
residuale  delle  Regioni, in quanto vi ricadano le attivita' da esse
svolte.
    Il comma 1 dell'art. 11 ridisciplina i settori di attivita' delle
fondazioni,  prevedendo  che  siano  "ammessi" i seguenti settori: 1)
famiglia   e   valori  connessi;  crescita  e  formazione  giovanile;
educazione,  istruzione  e formazione, incluso l'acquisto di prodotti
editoriali  per  la  scuola; volontariato, filantropia e beneficenza;
religione  e  sviluppo  spirituale;  assistenza agli anziani; diritti
civili;  2)  prevenzione  della  criminalita'  e  sicurezza pubblica;
sicurezza  alimentare  e  agricoltura di qualita'; sviluppo locale ed
edilizia  popolare  locale;  protezione  dei  consumatori; protezione
civile;   salute   pubblica,  medicina  preventiva  e  riabilitativa;
attivita'  sportiva;  prevenzione e recupero delle tossicodipendenze;
patologia  e  disturbi  psichici  e mentali; 3) ricerca scientifica e
tecnologica;  protezione  e qualita' ambientale; 4) arte, attivita' e
beni culturali.
    Esso  inoltre  prevede  che  "i  settori  indicati possono essere
modificati  con regolamento dell'Autorita' di vigilanza da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400".
    Tuttavia, la Costituzione oggi vigente statuisce che "la potesta'
regolamentare   spetta  allo  Stato  nelle  materie  di  legislazione
esclusiva,  salva  delega  alle  Regioni"  e  che  la stessa potesta'
regolamentare  "spetta alle Regioni in ogni altra materia" (art. 117,
comma 6).
    Di  qui  l'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione in
quanto  prevede  che,  in  materia non appartenente in esclusiva allo
Stato,  sia  il  regolamento  statale,  e  non  la legge regionale, a
disciplinare la materia.
    Per  la  stessa ragione risulta illegittimo anche il comma 14, il
quale  prevede  che  il  regolamento  di  attuazione  della legge sia
emanato dall'Autorita' di vigilanza.
    Sotto  altro  profilo,  ma  da  un  punto  di vista logico in via
preliminare,  le  stesse  disposizioni risultano illegittime anche in
quanto  non  assegnano  alle Regioni, per gli enti ricadenti sotto la
loro  competenza,  il  ruolo  dell'autorita'  di vigilanza. E' chiaro
infatti  che  tale  riconoscimento riporterebbe ad armonia il sistema
riunificando  i poteri normativi nel soggetto che ne ha la competenza
costituzionale,  sia  pure  concorrente con quella di principio dello
Stato.
    I  rimanenti  commi  dell'art. 11 sono ad avviso della ricorrente
Regione  illegittimi anch'essi, nella parte in cui non riconoscono la
competenza  concorrente  della  regione sia in relazione agli enti di
credito  di  cui  all'art. 117,  comma  terzo,  sia in relazione alle
materie  di  attivita',  e  non  prevedono  che  in  tali  ambiti  le
disposizioni statali vincolino le regioni soltanto quanto ai principi
fondamentali.
    2. - Illegittimita' dell'art. 17, comma 2.
    Il    comma   2   dell'art. 17,   nell'introdurre   l'art. 40-bis
("Compatibilita'   della   spesa   in   materia   di   contrattazione
integrativa")  nel  testo  unico  sul pubblico impiego, approvato con
d.lgs.  30  marzo 2001, n. 165, prevede che "i comitati di settore ed
il   Governo   procedono   a   verifiche  congiunte  in  merito  alle
implicazioni finanziarie complessive della contrattazione integrativa
di  comparto  definendo  metodologie  e  criteri di riscontro anche a
campione  sui  contratti  integrativi delle singole amministrazioni";
inoltre  si  stabilisce che "gli organi di controllo interno indicati
all'articolo 48, comma 6, inviano annualmente specifiche informazioni
sui costi della contrattazione integrativa al Ministero dell'economia
e delle finanze, che predispone, allo scopo, uno specifico modello di
rilevazione,  d'intesa con la Presidenza del Consiglio dei ministri -
Dipartimento  della  funzione  pubblica",  e  che, "nel caso in cui i
controlli e le rilevazioni di cui ai commi 1 e 2 evidenzino costi non
compatibili  con  i  vincoli  di  bilancio, secondo quanto prescritto
dall'articolo   40,   comma  3,  le  relative  clausole  dell'accordo
integrativo sono nulle di diritto".
    Il   controllo   sulla  spesa  del  personale  pubblico  e  sulle
compatibilita' finanziaria della contrattazione collettiva (nazionale
e  integrativa)  e' uno dei punti piu' importanti del testo unico sul
pubblico  impiego,  che dedica ad esso diverse e analitiche norme. In
particolare,  il necessario rispetto dei vincoli di bilancio da parte
della  contrattazione  integrativa  e' sancito dall'art. 40, comma 3,
testo   unico   (richiamato   dallo  stesso  art. 17,  comma  2,  qui
impugnato),  che  prevede  anche la nullita' delle clausole difformi.
L'art. 48,  comma  6,  del  testo  unico prevede poi che il controllo
sulla  compatibilita'  economica  della contrattazione integrativa e'
svolto  "dal  collegio  dei  revisori  dei conti ovvero, laddove tale
organo  non  sia previsto, dai nuclei di valutazione o dai servizi di
controllo  interno".  Gli artt. 58 ss., poi, dettano analitiche norme
sulla  rilevazione,  comunicazione e controllo dei dati relativi alla
spesa per il personale.
    Il  testo  unico,  dunque,  appresta  gia' un completo sistema di
controllo  sui  costi  della contrattazione integrativa, e non sembra
esserci  spazio  per  ulteriori  principi  in  tale  materia (volendo
ricondurre questa al "coordinamento della finanza pubblica" assegnato
alla   legislazione  concorrente).  La  disposizione  qui  impugnata,
infatti,  oltre  ad  introdurre  illegittimamente  norme di dettaglio
(come  quella  sulla  definizione  delle  modalita'  del  controllo),
prevede   una   verifica   di   non  meglio  precisate  "implicazioni
finanziarie  complessive"  da  parte  del  Governo  congiuntamente al
comitato  di  settore  (costituito, per le regioni, nell'ambito della
Conferenza dei presidenti delle regioni: v. l'art. 41, comma 3, testo
unico).  In  tal modo si attribuisce al Governo un ruolo di controllo
sulle implicazioni finanziarie delle scelte delle singole regioni che
non ha fondamento costituzionale e che non e' neppure coerente con il
ruolo   che   in  generale  il  Governo  ricopre  in  relazione  alla
contrattazione  collettiva  per  il  pubblico  impiego,  dato  che il
controllo  di compatibilita' finanziaria viene svolto dalla Corte dei
conti.
    3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 25, comma 10.
    L'art. 25 istituisce inoltre una serie di Fondi speciali presso i
Ministeri,  la  cui  gestione e' da disciplinarsi con regolamenti del
Ministro  competente.  Quello  che  incide  sugli interessi specifici
della  Regione  Umbria e' il Fondo per la riqualificazione urbana dei
comuni previsto dal comma 10. Si tratta di un Fondo istituito ex novo
per  il  2002, ma destinato a permanere negli esercizi successivi (lo
stanziamento   annuale  e'  infatti  determinato  dal  comma  11  con
l'espressione   tipica  della  quantificazione  annuale  della  spesa
ricorrente), diretto a finanziare l'adozione di programmi di sviluppo
e  riqualificazione del territorio da parte dei comuni: una quota non
inferiore  all'85%  e'  riservata  ai  comuni  minori  delle  regioni
meridionali.  Le  modalita'  degli  interventi  e la ripartizione del
Fondo "tra gli enti interessati" saranno disciplinate con regolamento
governativo, sentita la Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali.
    Come si vede si tratta di interventi diretti dello Stato a favore
dei  comuni  che,  sia  per  quanto  riguarda  la  definizione  della
tipologia  dei  comuni  beneficiari,  sia  per  cio' che attiene alla
ripartizione  tra  le  regioni  di  appartenenza,  sia  infine per la
disciplina  attuativa  esclude qualsiasi ruolo delle Regioni. L'unico
titolo  che  lo  Stato  puo'  vantare  in  materia  e'  la competenza
concorrente in materia di "governo del territorio".
    Ora,  la ricorrente Regione ritiene che tale competenza non possa
includere  generici  "programmi  di  sviluppo  e riqualificazione del
territorio" adottati dai comuni, e prevalentemente dai comuni minori,
e  privi  di qualunque impatto strategico sul territorio. Ma se anche
si potesse fare rientrare la materia in tale ambito, va ricordato che
la  competenza  statale  e'  relativa  alla  definizione dei principi
fondamentali della materia, e non potrebbe dunque giustificare che lo
Stato  istituisca  proprie  autonome  linee  di  intervento  diretto,
frazionato sul territorio, riservandosene la disciplina.
    Ne  restano  lese  le  attribuzioni legislative regionali, sia in
generale  che  anche  con  riferimento  alla violazione specifica dei
limiti  posti  dall'art. 117,  comma  6  (illegittima attribuzione di
poteri regolamentari statali); ne resta altresi' leso il principio di
leale  collaborazione,  che  certo  non puo' essere soddisfatto da un
generico  richiamo  "di stile" al d.lgs. n. 281/1997 (specie dopo che
la  disposizione ha espressamente previsto che sia la sola Conferenza
Stato-citta'  ed  autonomie  locali ad essere sentita); ne resta lesa
l'autonomia  finanziaria delle Regioni, garantita dall'art. 119 della
Costituzione,  poiche'  questo  finanziamento,  di  non  trascurabile
grandezza,  viene  sottratto  ai  trasferimenti  finanziari  verso le
regioni.
    Va  osservato a questo proposito che il Fondo contestato non puo'
essere  ricondotto alla previsione dell'art. 119, quinto comma, della
Costituzione.  Tale  disposizione prevede infatti che lo Stato possa,
per motivi specificamente elencati (promuovere lo sviluppo economico,
la  coesione  e  la  solidarieta'  sociale;  rimuovere  gli squilibri
economici e sociali; favorire l'effettivo esercizio dei diritti della
persona;  provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro
funzioni),   possa   o  destinare  risorse  aggiuntive  o  effettuare
interventi  speciali  purche'  a  favore di determinati enti locali o
Regioni.  In  questo  caso  invece, il finanziamento e' rivolto verso
destinatari  indeterminati, poiche' il particolare favor per i comuni
minori  del  Mezzogiorno  e'  posto  soltanto  come criterio cui deve
ispirarsi la futura disciplina regolamentare.
    Ma  se  anche  si  dovesse  ritenere  che  un intervento siffatto
rientri tra quelli previsti dall'art. 119, quinto comma, per cio' che
attiene  le  finalita'  e  la  tipologia, lo stesso risultato avrebbe
potuto  comunque essere conseguito ripartendo il fondo tra le Regioni
e  indicando  ad  esse i criteri di destinazione delle risorse. Anche
nell'interpretazione  piu' benigna, dunque, la disposizione impugnata
risulta violare comunque le attribuzioni regionali.
    4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 1.
    L'art. 33, comma 1 (ed unico) novella il comma 1 dell'art. 10 del
d.lgs.  n. 368  del  20 ottobre  1998 (istitutivo del Ministero per i
beni  e  le  attivita'  culturali)  prevedendo che il Ministero possa
"dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione
di  servizi  finalizzati  al miglioramento della fruizione pubblica e
della  valorizzazione  del  patrimonio artistico" secondo "modalita',
criteri   e  garanzie  definiti  con  regolamento  emanato  ai  sensi
dell'articolo  17,  comma  3, della legge 23 agosto 1988, n. 400". Si
tratta cioe' di un regolamento ministeriale.
    Tale  regolamento  dovra',  tra  l'altro, fissare le procedure di
affidamento  del  servizio  (mediante licitazione privata), i compiti
dello  Stato  e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai
restauri  e  all'ordinaria  manutenzione  dei  beni,  i  parametri di
offerta al pubblico e di gestione dei siti culturali, la durata della
concessione   comunque   non   inferiore  a  cinque  anni.  La  norma
stabilisce,  altresi',  che  costituisce  titolo di preferenza per la
concessione   della   gestione  dei  servizi  di  valorizzazione  del
patrimonio,  la  presentazione  da  parte dei soggetti concorrenti di
progetti  di  gestione  e  valorizzazione  complessi  e  plurimi  che
includano  - accanto a beni e siti di maggiore rilevanza - anche beni
e  siti  definiti "minori" collocati in centri urbani con popolazione
pari   o   inferiore   a   30.000   abitanti,  purche'  sia  comunque
salvaguardata  l'autonomia  scientifica e di immagine individuale del
museo  minore. Altre norme di dettaglio sono contenute nella legge, e
per il resto rinviate al regolamento.
    Non  e'  dubbio,  per  dichiarazione  testuale  della  legge (che
riguarda   il   "miglioramento   della  fruizione  pubblica  e  della
valorizzazione  del  patrimonio  artistico")  che  si  tratta  di  un
intervento  che  ricade  nella materia della "valorizzazione dei beni
culturali   e  ambientali"  (e  "promozione  e  organizzazione  delle
attivita'   culturali")   di  cui  al  comma  3  dell'art. 117  della
Costituzione,  cioe'  in  materia  di competenza "concorrente" tra lo
Stato e le Regioni.
    Secondo  le  ben note regole costituzionali, allo Stato spetta di
dettare  i "principi fondamentali" alle Regioni dettare la disciplina
rispettando tali principi.
    La  disciplina  qui  considerata  non  si  attiene a tali regole,
statuendo  accanto  al  possibile  principio  (quello  dell'eventuale
affidamento  in  concessione dei servizi in questione) anche numerose
regole  di  dettaglio,  e  invade  cosi'  l'ambito  della  competenza
legislativa regionale.
    Ancora  piu'  gravemente  illegittima  e  lesiva, tuttavia, e' la
parte  della  disposizione che affida lo svolgimento della disciplina
legislativa   al   regolamento   ministeriale   anziche'  alla  legge
regionale, alla quale costituzionalmente spetta.
    Risultano   cosi'  violati  contemporaneamente  i  commi  3  e  6
dell'art. 117:  il  3  in  quanto  viene  misconosciuta  la  potesta'
legislativa regionale, il 6 in quanto in aggiunta viene istituita una
potesta'  regolamentare  statale (e per di piu' ministeriale), per la
quale manca il fondamento costituzionale.
    Ad  avviso  della ricorrente Regione percio' la disposizione deve
essere  dichiarata costituzionalmente illegittima, sia nella parte in
cui  vincola  il  legislatore regionale a norme di dettaglio, sia - e
soprattutto  - nella parte in cui prevede che il compito di attuare i
principi  legislativi  spetti  al  Ministero  anziche'  alle  Regioni
competenti.
    La  normativa  in  questione,  infatti,  viola  anche l'art. 118,
secondo  il quale le funzioni amministrative spettano in via generali
ai  comuni  salvo  che  esigenze  di  carattere unitario ne impongano
l'allocazione  alle province, alle citta' metropolitane, alle regioni
o allo Stato, per violazione del principio di sussidiarieta'.
    5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 35.
    L'art. 35 introduce una disciplina che si sostituisce interamente
all'art. 113  del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali,   approvato  con  decreto  legislativo  n. 267/2000,  di  cui
modifica inoltre varie altre disposizioni.
    La nuova disciplina comprende, tra l'altro, i seguenti aspetti:
        e'   introdotta   la  distinzione  fra  servizi  a  rilevanza
industriale  -  per  i  quali si prevedono trasformazioni societarie,
privatizzazioni e gare - da quelli privi di rilevanza industriale per
i   quali   si   conferma  la  gestione  con  affidamento  diretto  a
istituzioni,  aziende  speciali,  societa'  di  capitali costituite o
partecipate  dagli  enti  locali,  ovvero  in  economia  in base alle
modeste  dimensioni  o  alle  caratteristiche  del servizio. Sara' un
regolamento  statale  ad  individuare,  entro  sei  mesi, i servizi a
rilevanza industriale;
        e'  affermato il principio della separazione della proprieta'
e  gestione  delle reti, impianti ed altre dotazioni (gli enti locali
non  possono  cedere  la  proprieta' di tali reti ed impianti, mentre
possono  conferire  detta  proprieta'  a  S.p.a.  di cui detengano la
maggioranza  che  e'  incedibile)  dall'erogazione  del  servizio  da
consegnarsi  alla  concorrenza  del mercato (deve essere conferita la
titolarita'  del  servizio  a  societa'  di  capitali da individuarsi
attraverso   l'espletamento   di   gare  con  procedure  ad  evidenza
pubblica);
        se  le  norme che regolano i singoli settori non prevedono un
congruo   periodo  di  transizione,  il  regolamento  governativo  di
attuazione  che  definira'  i  servizi  pubblici  locali di rilevanza
industriale  indichera' pure i termini - non inferiori a 3 anni e non
superiori  a  5  anni  - di scadenza o di anticipata cessazione della
concessione  rilasciata con procedure diverse dall'evidenza pubblica.
A  far  data  dal termine del periodo di transizione, e' vietato alle
societa'  di  capitali in cui la partecipazione pubblica e' superiore
al  50%,  se  ancora affidatarie dirette, di partecipare ad attivita'
imprenditoriali al di fuori del proprio territorio;
        entro  il  31 gennaio  2002  gli  enti  locali trasformano in
societa'  di  capitali  le  aziende  speciali  ed i consorzi cui sono
affidati i servizi pubblici di rilevanza industriale;
        sono  poi  dettate  disposizioni  specifiche  per il servizio
idrico  integrato,  prevedendo  che i soggetti competenti individuati
dalle  regioni  possono affidare tale servizio a societa' di capitali
partecipate unicamente dagli enti locali per un periodo non superiore
a  5 anni; entro due anni da tale affidamento, anche se gia' avvenuto
alla data di entrata in vigore della legge, gli enti locali procedono
ad  applicare  le  procedure  dell'evidenza pubblica, pena la perdita
immediata  dell'affidamento del servizio stesso alla societa' da essi
partecipata.
    Si tratta di una riforma di notevole portata, certo non destinata
a  riflettersi sulle previsioni finanziarie dell'anno in corso: anzi,
l'operativita'  della  riforma  e'  affidata  in  larga  misura  alle
disposizioni  del  Regolamento  governativo previsto al comma 16 (uno
dei  molti  previsti  dalla legge finanziaria), da emanarsi entro sei
mesi.
    Poiche'  a  tale  regolamento  il comma 2 dell'art. 35 assegna il
compito  di fissare un periodo di transizione di non meno di tre anni
e  non  piu'  di  cinque anni, ulteriormente incrementabile (nei casi
previsti  dal  successivo  comma 3) sino ad ulteriori cinque anni, si
puo' affermare con sicurezza che effetti finanziari della riforma non
ve  ne potranno essere, almeno per il periodo preso in considerazione
dallo stesso bilancio pluriennale!
    In  realta'  il  legislatore  della  finanziaria ha semplicemente
"colto  l'occasione  per  una  riforma  della  disciplina dei servizi
pubblici  locali  di cui si avvertiva da tempo l'esigenza, rafforzata
anche  dalla  necessita'  di aprire il settore ai principi comunitari
della concorrenza e del mercato.
    In  tale  prospettiva  numerose iniziative legislative sono state
promosse  nella  passata  come  nell'attuale  legislatura. Nella XIII
legislatura  era  stato  persino  approvato  dal Senato un disegno di
legge  governativo  (S-4014, presentato il 12 maggio 1999 e approvato
il  30  maggio 2000, dopo essere stato unificato con diverse proposte
di  legge  di  iniziativa  parlamentare),  che avrebbe introdotto una
radicale  riforma dei servizi pubblici ispirata, appunto, ai principi
comunitari.
    Di  tale  riforma  l'art. 35  della  legge  finanziaria riproduce
diverse  disposizioni. Dunque, la normativa di cui all'art. 35, ancor
piu'  che  la legge finanziaria in generale, e' stata concepita prima
della  modifica  della Costituzione. Paradossalmente pero', mentre il
disegno  di  legge  presentato  prima  della legge della Costituzione
n. 3/2001  riconosceva  un  ruolo  delle regioni adeguato al contesto
costituzionale  del  tempo,  la  disciplina'  introdotta  dalla legge
finanziaria  2002  dopo la riforma costituzionale del Titolo V ignora
integralmente  qualsiasi  ruolo  del  legislatore regionale. Inoltre,
essa  ignora  totalmente  anche  il  potere  regolamentare degli enti
locali   "in  ordine  alla  disciplina  dell'organizzazione  e  dello
svolgimento"  delle  loro  funzioni  (art. 117,  comma 6, legge della
Costituzione  n. 3/2001)  e  persino la loro autonomia statutaria (si
veda,   ad  esempio,  l'espansione  delle  competenze  del  consiglio
comunale  indotto  dall'art. 35, comma 12, lett. b), che, modificando
l'art. 42, secondo comma, lett. e) del T.U.E.L., assegna al consiglio
comunale,  accanto  all'assunzione  diretta, anche "l'organizzazione"
dei   servizi   pubblici:   mentre   la   relativa  decisione  andava
evidentemente lasciata semmai al comune stesso).
    Venendo  ora alla piu' specifica valutazione di costituzionalita'
delle  disposizioni  dell'art. 35,  puo' essere in generale osservato
che,   in  se'  considerata,  la  materia  dei  servizi  pubblici  e'
costituzionalmente  ripartita  tra  il  legislatore  regionale  e  la
regolamentazione (anche statutaria) degli enti locali.
    Va   dunque   esaminato   se  vi  sia  un  meno  evidente  titolo
giustificativo a fondamento della disciplina da parte del legislatore
statale. In primo luogo, puo' essere escluso sin dall'inizio che tale
titolo  giustificativo  possa  individuarsi  nelle competenze statali
(concorrenti) in materia di coordinamento finanziario, dato che, come
detto,  le disposizioni non sono destinate a produrre effetti su tale
piano nell'arco di previsione del bilancio pluriennale.
    Va poi valutato se idoneo fondamento possa ad esso derivare dalle
esigenze  di attuazione della normativa comunitaria o dalle esigenze,
collegate  alle  prime,  della  tutela  della  concorrenza (materie o
compiti   che,   in   base  all'art. 117,  secondo  comma,  lett.  e)
costituiscono titoli di intervento del legislatore statale).
    Sembra  tuttavia  evidente  che  le  esigenze di protezione della
concorrenzialita'  del  mercato  nel  settore  dei  servizi  pubblici
locali,  pure  innegabilmente  presenti  nel sistema comunitario, non
possono  giustificare una disciplina del tipo di quella approvata dal
legislatore statale.
    Infatti,  senza  entrare  nel merito delle scelte specifiche (per
altro  in  molti  punti  confuse  ed opinabili: ma si tratterebbe, se
cosi'  fosse,  di contestazioni tecniche o politiche) quel che appare
del  tutto  inaccettabile  e'  il  modo  in  cui  il  legislatore  ha
affrontato   una   materia,   che  non  rientra  nelle  sue  potesta'
legislative ne' esclusive ne' concorrenti.
    E'  pacifico,  infatti,  che  la normativa introdotta costituisce
certo  non l'unico ma, semmai, solo uno dei possibili modi di attuare
i  principi  comunitari  della  concorrenza:  la stessa comunicazione
della  Commissione sulle concessioni del 12 aprile 2000 limita le sue
indicazioni  all'esigenza  che  le  concessioni a terzi avvengano nel
rispetto   dei   generali   principi   di   parita'  di  trattamento,
proporzionalita', trasparenza e mutuo riconoscimento.
    Ugualmente  dicasi  per  le esigenze, per cosi' dire, di "diritto
interno"  in  tema  di  concorrenza,  la  cui  tutela e' riservata al
legislatore statale dall'art. 117, secondo comma, lett. e). La stessa
segnalazione  su regolazione e concorrenza inviata il 16 gennaio 2002
al  Governo  e  al  Parlamento dall'Autorita' garante, constatato "il
processo  di  ampliamento  degli  ambiti  e dei poteri di regolazione
delle  attivita'  economiche  attribuiti  alle  regioni  e  agli enti
locali,  oggetto della recente modifica costituzionale", invoca quale
strumento di tutela della concorrenzialita' del mercato la previsione
di   "misure   volte  ad  evitare  forme  di  iper-regolazione  e  di
reintroduzione  al livello locale di restrizioni e vincoli aboliti da
interventi di riforma nazionali".
    In  nessun  caso,  dunque,  tali  titoli  di  intervento  statale
giustificano  l'appropriazione  di  una vasta materia, riservata alla
competenza legislativa delle regioni, mediante una disciplina statale
analitica  e  interamente  avocata  al  centro, tale da azzerare ogni
ambito normativo delle regioni e degli enti locali.
    Non  solo  si  detta,  nella  materia  di  per  se' estranea alla
competenza  statale,  una intera disciplina autoapplicativa, non solo
si  esclude ogni possibilita' di intervento regionale, ma addirittura
si  prevede l'integrazione ed attuazione di tale disciplina con norme
ulteriori prodotte da autorita' ministeriali.
    Sembra  invece  evidente  che lo Stato avrebbe dovuto limitarsi a
dettare  le  norme  rivolte  ad  assicurare  un  determinato grado di
concorrenzialita', in forma di regole da rispettarsi nella disciplina
regionale.
    L'intervento  diretto  ed  analitico della legge statale non solo
contrasta con le regole del riparto per materia, ma non regge neppure
ad uno scrutinio basato sul criterio di proporzionalita': dato che lo
stesso risultato - o piuttosto un risultato migliore - avrebbe potuto
essere  raggiunto  attraverso  prescrizione  di  obiettivi  e tempi e
l'eventuale    attivazione    del    potere    sostitutivo   previsto
dall'art. 120, secondo comma, della Costituzione.
    Come  ancora  suggerisce  l'Autorita'  garante  "per rendere piu'
efficaci   le  scelte  dei  governi  regionali  e  locali  andrebbero
sviluppati,  ferma restando la necessaria diversificazione normativa,
meccanismi   di   confronto  sistematico  delle  misure  adottate  da
regolatori  allo  stesso  livello  decentrato  (ad  esempio,  governi
regionali)   per   incentivare   l'adozione   delle   best  practices
regolamentari".
    Cio'  va  detto  tanto  piu'  che  l'avocazione  al  centro della
disciplina  analitica non serve ad anticipare, ma al contrario semmai
a rallentare e ad interrompere e rinviare di diversi anni un processo
di  trasformazione dei servizi pubblici locali, gia' in atto in quasi
tutti i comuni della Regione,
    In  definitiva, tutti i commi dell' art. 35 risultano illegittimi
in quanto:
        disciplinano  la  trasformazione  dei servizi pubblici locali
per  aspetti  non  connessi  alla  tutela della concorrenza, anziche'
dettare   in  ipotesi  i  principi  in  tema  di  concorrenza  cui  i
legislatori regionali debbano attenersi;
        ignorano,   ed   anzi  praticamente  escludono,  la  potesta'
legislativa regionale in materia;
        prevedono poteri statali tipo regolamentare e di integrazione
normativa. Specifica censura va poi rivolta al comma 15 dell'art. 35,
in  quanto esso detta una disciplina diretta ed analitica dei servizi
pubblici non industriali, privi della sia pur minima parentela con la
materia  della concorrenza e non correlati neppure alla attuazione di
norme comunitarie.
    6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 41, comma 1.
    Secondo  l'art. 41,  comma 1, "il Ministero dell'economia e delle
finanze  coordina  l'accesso  al mercato dei capitali delle province,
dei comuni, delle unioni di comuni, delle citta' metropolitane, delle
comunita'  montane  e  delle comunita' isolane, di cui all'articolo 2
del  testo  unico  delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di
cui  al  decreto  legislativo  18  agosto  2000,  n. 267, nonche' dei
consorzi tra enti territoriali e delle regioni".
    Inoltre, secondo la terza frase dello stesso comma, "il contenuto
e  le  modalita'  del  coordinamento nonche' dell'invio dei dati sono
stabiliti  con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze da
emanare,  sentita  la  Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281". Di seguito si stabilisce
altresi'  che "con lo stesso decreto sono approvate le norme relative
all'ammortamento  del  debito e all'utilizzo degli strumenti derivati
da parte dei succitati enti".
    Pur  tenendo  conto  del  dichiarato  fine di "contenere il costo
dell'indebitamento   e   di   monitorare  gli  andamenti  di  finanza
pubblica",  tutte  le  disposizioni indicate appaiono illegittime: la
prima   perche'   intesta   ad  un  singolo  ministro  un  potere  di
coordinamento  addirittura  innominato. Peggio ancora, come si evince
dalle  disposizioni  citate,  i  contenuti del coordinamento, insieme
alle modalita', sono unilateralmente stabiliti dallo stesso Ministro,
con atto unilaterale di natura sostanzialmente regolamentare.
    Ora,  secondo la costante giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte,
gia'  nel  precedente  ordinamento  il potere di coordinamento doveva
avere  base  legislativa,  ed essere esercitato dal Governo nella sua
collegialita'.  Inoltre,  l'art. 8,  comma  1,  della legge n. 59 del
1997,  in  attuazione del principio di leale cooperazione stabili' la
regola della previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. Cio',
si    ripete,    gia'    nell'ambito   del   precedente   ordinamento
costituzionale.
    Nel  nuovo  ordinamento,  si  e'  ritenuto  che  non  sia piu' in
generale  ammessa  la  funzione  di  indirizzo e coordinamento in via
amministrativa. Ma se pure si volesse ritenere diversamente, anche in
relazione  alla specifica potesta' legislativa concorrente in materia
di    coordinamento   della   finanza   pubblica,   sembra   evidente
l'illegittimita' dell'intestazione ministeriale del potere, ed ancora
piu'  evidente  quella  dell'attribuzione  al  ministro  stesso di un
potere  normativo:  sia  -  ovviamente  -  in  relazione  alla stessa
definizione  del  contenuto  del  coordinamento,  sia  in genere (non
essendovi  piu'  potere  regolamentare  dello Stato al di fuori delle
materie di legislazione statale esclusiva).
    7. - Legittimita' costituzionale dell'art. 52, comma 17.
    Il  comma  17  dell'art. 52, prescrivendo che "le disposizioni di
cui  alla  legge  11 giugno 1971, n. 426, e successive modificazioni,
non  si  applicano  alle  sagre,  fiere  e manifestazioni a carattere
religioso,  benefico o politico" disciplina la materia commercio, non
elencata  tra quelle riservate in via "esclusiva" allo Stato, ne' tra
quelle  di  potesta' "concorrente", e viola percio' l'art. 117, comma
4, della Costituzione.
    Inoltre,  nel  suo  contenuto  essa deroga ad una disciplina gia'
abrogata   dal   d.lgs.   n. 114/1998,  anche  con  riferimento  alle
"successive modificazioni" della legge n. 426 del 1971.
    Ne' si puo' ritenere che tra le "successive modificazioni" sia da
ricomprendersi  lo  stesso  decreto  legislativo appena citato, anche
perche'  questo  imposta la disciplina delle attivita' commerciali in
termini  tali  da  non  poter  riguardare  il  tipo di manifestazioni
elencate.
    Ne   risulta   la   totale   incertezza   sul  significato  della
disposizione,  non  rimediabile  neppure  in  sede interpretativa, in
violazione del principio di certezza del diritto.
    8.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 10, 39 e
83.
    I  commi  10,  39 e 83 dell'art. 52, riguardano le quote latte, i
contributi   a  favore  degli  allevamenti  ippici  per  lo  sviluppo
dell'ippoterapia   ed  il  fondo  per  la  copertura  dei  rischi  in
agricoltura.
    Essi intervengono in materia ormai di competenza regionale, al di
fuori  dei titoli di competenza statale, in violazione dell'art. 117,
commi 3 e 4.
    Costituiscono inoltre fondi settoriali a gestione ministeriale in
assenza   di   competenza  legislativa,  in  violazione  anche  degli
artt. 118,  per  contrasto  con  il  principio  di  sussidiarieta', e
dell'art. 119,  che  non  prevede fondi settoriali, meno ancora fondi
gestiti dal centro.
    9.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 60, comma 1, lett.
d).
    L'art. 60,   come  quelli  che  lo  seguono,  si  riferiscono  ad
interventi  in  agricoltura.  La  materia  e' da sempre di competenza
delle regioni, e rientra ora, ai sensi del quarto comma dell'art. 117
della   Costituzione,   nella  generale  competenza  residuale  delle
regioni,  mentre un residuo ruolo statale si puo' configurare solo in
quanto lo esiga l'attuazione del diritto dell'UE.
    Anche  in  questo  come  negli  altri  punti la legge finanziaria
mostra di non avvertire il mutamento delle competenze costituzionali,
e continua a proporre diretta normativa e compiti statali, forse gia'
inaccettabili  nell'ambito  del  vecchio  ordinamento costituzionale,
sicuramente (ad avviso della ricorrente regione) incompatibili con il
nuovo.
    Ora,  pur  essendo  estremamente  disagevole  la contestazione di
disposizioni   che   intervengono  a  modificare  singole  parole  di
precedenti  disposizioni,  va qui contestata, in quanto pregiudica il
futuro assetto delle competenze, in particolare la lett. d) del primo
comma,  in  base alla quale con "decreto del Ministro delle politiche
agricole  e  forestali ... sono definite le tipologie di investinento
per  le  imprese  agricole  e per quelle della prima trasformazione e
commercializzazione  ammesse  agli  aiuti,  in  osservanza  di quanto
previsto  dal  piano  di sviluppo rurale di cui al citato regolamento
(CE)  n. 1257/1999  e di quanto previsto dall'articolo 17 del decreto
legislativo 18 maggio 2001, n. 228".
    Si  tratta di un potere normativo ministeriale del tutto privo di
fondamento nella vigente costituzione, che positivamente esclude ogni
potere  regolamentare statale nelle materie che non appartengono alla
competenza  legislativa statale esclusiva. Il vizio di competenza non
puo'  certo  essere  sanato  dallo  strumento  della  "intesa  con la
Conferenza  permanente  per  i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano", pure prevista dalla norma.
    E  si noti che allo stesso modo non ne puo' costituire fondamento
l'esigenza,   del  tutto  ovvia,  che  la  disciplina  si  svolga  in
"osservanza" quanto previsto dalle fonti richiamate sia nazionali che
europee.
    La  fonte  europea,  in  particolare,  dovra'  ovviamente  essere
osservata  dalle Regioni, ma detto questo non vi e' ulteriore ragione
di omogeneita' tra le discipline regionali.
    10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 64.
    L'art. 64,  reca,  modificando  la  precedente  legislazione,  la
disciplina  dell'attivita' di impianto non autorizzato di vigneti, in
modo  differenziato  a  seconda  dell'anno di impianto, fino all'anno
1998.
    Per   gli   impianti  anteriori  al  1993  tale  attivita'  viene
semplicemente  regolarizzata,  per gli altri viene dettata disciplina
sanzionatoria in via amministrativa.
    Anche  tale  disciplina  versa  in  materia appartenente ormai in
esclusiva alle Regioni: sicche' non spetta allo Stato di provvedervi,
in quanto non si tratti di stretta e dovuta attuazione sostitutiva di
normativa comunitaria.
    11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 66.
    L'art. 66,  che prevede il finanziamento ad aziende zootecniche e
alle  cooperative  di allevamento bovini per fronteggiare l'emergenza
dell'influenza catarrale dei ruminanti.
    Sembra    evidente    che,    nell'ambito   del   nuovo   riparto
costituzionale,   spetta   alle   Regioni   di   provvedere   a  tale
finanziamento,  mentre  allo  Stato,  nell'attuale  situazione  della
finanza  pubblica  ancora  non adeguata all'art. 119, puo' non essere
precluso di individuare risorse aggiuntive da assegnare alle Regioni.
    12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 67.
    L'art. 67   disciplina   la  predisposizione  dei  "contratti  di
programma"  e  di  "patti  territoriali"  in  materia di agricoltura,
riservando  alle  autorita'  ministeriali  l'intera  gestione di tali
strumenti, compresa la loro approvazione.
    La  disposizione  viola  l'art. 117  della Costituzione, in primo
luogo  in  quanto,  come sopra detto, la materia "agricoltura" non e'
compresa   tra   quelle  attribuite  in  via  "esclusiva"  o  in  via
"concorrente"  allo  Stato,  e quindi rientra in pieno nella potesta'
residuale delle Regioni.
    La  lesione  risulta  poi  di  tanto  maggiore  in quanto vengono
riservati  al  ministero compiti, per la cui attribuzione ad esso non
vi  e'  il minimo fondamento costituzionale. Anche in questo caso, in
assenza  di  un  proprio  specifico  titolo  di  intervento, lo Stato
dovrebbe  invece  trasferire  le  relative risorse alle Regioni, alle
quali  poi  compete  la  predisposizione dei contratti di programma e
l'emanazione dei bandi di gara per i patti territoriale.
    13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 70.
    L'art. 70  istituisce  ex  novo,  ma  stabilmente  (le previsioni
finanziarie  arrivano  infatti  sino al 2005), il Fondo per gli asili
nido  che deve essere ripartito annualmente dal Ministro del lavoro e
delle  politiche  sociali  tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali
(comma 3).
    Il  comma  2 definisce come "competenze fondamentali dello Stato,
delle regioni e degli enti locali" gli asili nido come "materia", per
cosi'  dire,  "indivisa".  Gia' questa norma merita percio' specifica
censura.   Infatti   la   lett. p)   dell'art. 117,   secondo  comma,
attribuisce  alla  competenza  esclusiva  della  legge dello Stato il
compito  di  definire  le "funzioni fondamentali", ma - si noti - con
riferimento  soltanto  a  quelle  dei  comuni, delle province e delle
(istituende)   citta'   metropolitane.   Sarebbe  percio'  del  tutto
illegittimo  che  lo Stato usasse questo titolo di legittimazione per
riconoscere a se stesso (oltre che alle regioni, che hanno competenza
"residuale")    delle   supposte   "funzioni   fondamentali",   cosi'
trattenendo  a  se'  frange  di  attribuzione  che l'art. 117 non gli
riconosce.  Cio'  posto,  e  derivandone che, infondata questa via, a
nessun  altro  titolo  puo'  riconoscersi  allo  Stato la facolta' di
intervenire in via legislativa su una materia di salda e tradizionale
competenza  regionale, risulta del tutto illegittima l'istituzione di
un  Fondo  nazionale  gestito  dal Ministero, poiche' in questo modo,
oltre  all'art. 117,  quarto  comma  della  Costituzione,  si viene a
violare  anche  l'art. 119, quarto comma, che prevede che le funzioni
ordinarie   attribuite   alle   Regioni  e  agli  enti  locali  siano
integralmente finanziate dallo Stato.