La Regione Umbria, in persona del presidente della giunta regionale pro tempore Maria Rita Lorenzetti, rappresentata e difesa, per procura apposta a margine del presente atto e giusta delibera della giunta regionale n. 124 del 13 febbraio 2002, dagli avv. Giandomenico Falcon e Maurizio Pedetta ed elettivamente domiciliata in Roma, presso l'avv. Luigi Manzi, in via Confalonieri n. 5, Contro la Presidenza del Consiglio dei ministri in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 28 dicembre 2001, n. 448, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 301 del 29 dicembre 2001, contenente "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)" con particolare riferimento alle disposizioni contentute negli artt. 11, 17, comma 2; 25, comma 10; 33, 35, 41, 52, comma 10, 17, 39, 83; 60 comma 1, lett. d), 64; 66; 67; 70 per violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione. F a t t o Nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 301 del 29 dicembre 2001 e' stata pubblicata la legge 28 dicembre 2001, n. 448, contenente "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato" (legge finanziaria 2002). In linea generale, tale legge - che comprende molte norme prive di qualsiasi carattere "finanziario" in contrasto con i principi enunciati dall'art. 11 della legge n. 468 del 1978 (come modificato dalla legge n. 208 del 1999) in ordine al suo contesto essenziale, circoscritto a "norme tese a realizzare effetti finanziari con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale" e con esplicita esclusione di norme di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio - appare chiaramente elaborata e approvata, per quanto riguarda l'ordine delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni, nel segno della continuita' col quadro costituzionale precedente a quello introdotto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, confermata col referendum del 7 ottobre 2001, che, nell'introdurre "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", ha totalmente ridefinito detto ordine nel nuovo art. 117, dettando, altresi, una nuova e conseguente disciplina delle competenze amministrative (art. 118) e dei rapporti finanziari (art. 119). Quanto al nuovo art. 117, esso, nel quadro di una riforma complessiva con cui si introducono nel nostro ordinamento elementi di federalismo o, comunque, di regionalismo avanzato, puo' a ragione essere considerato come la norma generale regolatrice della competenza legislativa dello Stato e delle Regioni ovvero della competenza legislativa tout court. Essa infatti, dopo aver riconosciuto, al comma 1, la pari spettanza della potesta' legislativa allo Stato e alle Regioni, "nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", elenca analiticamente, al comma 2, le materie nelle quali lo Stato ha "legislazione esclusiva"; al comma 3 specifica le "materie di legislazione concorrente", precisando che nelle stesse "spetta alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato"; al comma 4 riconosce alle Regioni "la potesta' legislativa in ferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato"; secondo, poi, il comma 5 le Regioni "nelle materie di loro competenza partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea"; infine, per quel che qui rileva, il comma 5 riconosce allo Stato la potesta' regolamentare con esclusivo riferimento alle "materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni", mentre la medesima potesta' "spetta alle Regioni in ogni altra materia". Da questa disciplina costituzionale discende dunque che: a) allo Stato e le Regioni hanno ciascuno una sfera di potesta' legislativa esclusiva, vale a dire che trova un limite immediato, nell'ordinamento interno, soltanto nella Costituzione. Peraltro quella dello Stato e' limitata alle materie specificate al comma 2 mentre quella delle Regioni e' residuale, generale e innominata in quanto estesa "ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (comma 4). b) Vi e' una sfera, con contenuto predeterminato attraverso la indicazione delle materie, di legislazione concorrente: anche qui "la potesta' legislativa spetta alle Regioni" mentre quella dello Stato e' limitata alla "determinazione dei principi fondamentali". c) Nelle materie di loro competenza, quindi, le Regioni - oltre a partecipare alla loro formazione - attuano ed eseguono in ambito interno gli accordi internazionali e gli atti della UE. d) La potesta' regolamentare spetta alle Regioni in via generale, mentre lo Stato puo' emanare regolamenti soltanto nelle materie di legislazione esclusiva. Deve essere ancora ricordato, per i fini che qui interessano, che il nuovo art. 118 della Costituzione attribuisce le funzioni amministrative essenzialmente ai comuni (salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario siano conferite a province, citta' metropolitane, regioni e Stato) richiamando in proposito i principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza; mentre l'art. 119 sancisce il principio dell'"autonomia finanziaria di entrata e di spesa" di comuni, province, citta' metropolitane e regioni. E' dunque con riferimento a questo nuovo quadro costituzionale - da cui derivano obiettivamente molti piu' vincoli per lo Stato che per le Regioni (nel senso che l'ambito di azione dello Stato, nel contesto della sostanziale parificazione delle rispettive potesta', e' molto piu' limitato di quello delle Regioni) - che devono essere esaminate e valutate la legittimita' delle disposizioni della c.d. "legge finanziaria 2002" impugnate in questa sede. Di questo quadro costituzionale completamente mutato la legge finanziaria 2002 non ha tenuto minimamente conto, conformandosi nel suo complesso come espressione di un rinnovato e accentuato centralismo statalistico sistematicamente invasivo, anche con normative di settore di carattere organico, della sfera di attribuzioni riservata alle regioni a titolo di competenza esclusiva generale e residuale (art. 117, comma 4) ovvero di competenza concorrente (art. 117, comma 3), nonche' lesivo dell'ordine delle competenze amministrative sancito dall'art. 118 e del principio dell'autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali di cui all'art. 119. In particolare appaiono chiaramente adottate in violazione della competenza regionale le disposizioni dettate con gli articoli il in materia di Fondazioni bancarie; 17, comma 2, in tema di contrattazione integrativa di comparto; 25, comma 10, relativo all'istituzione di un fondo per la riqualificazione urbana dei comuni; 33, in tema di gestione dei servizi volti alla valorizzazione dei beni culturali; 35, riguardante le forme di gestione dei servizi degli enti locali; 41, sull'accesso al mercato dei capitali degli enti locali e delle regioni; 52, comma 17, in materia di fiere a carattere religioso, benefico e politico; 70, in materia di asili nido; 60 comma 1, lett. d), in tema di tipologie di investimenti per le imprese agricole; 64, riguardante i vigneti abusivamente impiantati; 66, che dispone di finanziamenti ad aziende zootecniche e cooperative di allevamento bovino; 67, relativo al finanziamento di patti territoriali e contratti di programma in agricoltura; 52, commi 10, 39 e 83, in tema di quote latte, contributi agli allevamenti ippici, sviluppo dell'ippoterapia e fondo per la copertura dei rischi in agricoltura. Le disposizioni sopra indicate sono illegittime per violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione. La Regione Umbria, pertanto, rappresentata e difesa come in epigrafe, chiede all'ecc.ma Corte adita che siano dichiarate costituzionalmente illegittime per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 11. L'articolo 11 e' dedicato alle fondazioni bancarie. Esso e' di per se' estraneo al contenuto tipico della legge finanziaria, e continua il ben noto processo di "allontanamento" delle fondazioni dalla gestione bancaria. Va preliminarmente notato che, benche' la legge preveda che le fondazioni bancarie assumano personalita' giuridica di diritto privato, la legislazione statale non le ha mai considerate quali soggetti che godono di autonomia privata. Le stesse disposizioni del presente articolo 11 lo confermano, intervenendo profondamente sia nell'organizzazione sia nell'attivita' di tali fondazioni: come non sarebbe ovviamente ammesso fare se si trattasse di fondazioni frutto ed espressione di autonomia privata. Deve percio' ritenersi che la legislazione statale consideri la personalita' privatistica delle fondazioni bancarie quale pura determinazione di un regime giuridico dei relativi atti, e non come espressione della qualita' effettiva del soggetto, del quale si dispone con normativa pubblica. Cio' esclude radicalmente, in particolare, che la disciplina dell'art. 11 possa riferirsi alla materia dell'ordinamento civile. Risulta evidente, invece, che la disciplina dell'art. 11 si fonda ancora in larga misura sull'assimilazione delle fondazioni bancarie agli enti di credito, sulla quale la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale ha gia' avuto varie occasioni di soffermarsi (v. in particolare le decisioni n. 163 del 1995 e n. 341 del 2001), non senza notare che, una volta che venisse meno tale collegamento, le fondazioni gia' bancarie apparirebbero come enti che operano istituzionalmente a scopi di utilita' sociale, in larghissima misura ricadenti nelle competenze legislative delle Regioni. Infatti, nella stessa sentenza n. 341 del 2001 codesta ecc.ma Corte notava che, una volta terminato il periodo di transizione da ente di credito a ente operante per scopi di pubblica utilita', "si porra' il problema del coordinamento con il nuovo regime delle persone giuridiche private e delle trasformate istituzioni pubbliche di assistenza in associazioni e fondazioni con personalita' di diritto privato senza fine di lucro, anche in relazione agli scopi ed ai settori di attivita' previsti per la fondazione (ex bancaria) e alle materie di competenza (esclusiva o concorrente) regionale (o provinciale)". Ora, sembra alla ricorrente regione che sia la intervenuta modifica della Costituzione (che attribuisce alle Regioni ordinarie potesta' legislativa concorrente con termini praticamente identici a quelli usati dallo statuto del Trentino-Alto Adige/Südtirol all'art. 5, n. 3), sia la nuova disciplina dei settori di intervento conducano ad anticipare al presente il momento in cui il problema si pone. Attualmente, in definitiva le fondazioni bancarie vengono al momento in considerazione: quanto al profilo soggettivo, in parte quali enti assimilati ad enti di credito, in parte quali enti che svolgono per compito istituzionale funzioni di pubblica utilita'; mentre sotto il profilo dell'attivita' la loro azione ricade nelle materie di volta in volta prese in considerazione. Ora, considerati come enti (assimilati a) enti di credito, essi ricadono nella competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni, almeno per la parte in cui si estende la materia relativa a "casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale"; considerati come enti che svolgono funzioni di pubblica utilita' essi ricadono nella competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, in quanto vi ricadano le attivita' da esse svolte. Il comma 1 dell'art. 11 ridisciplina i settori di attivita' delle fondazioni, prevedendo che siano "ammessi" i seguenti settori: 1) famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e formazione, incluso l'acquisto di prodotti editoriali per la scuola; volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani; diritti civili; 2) prevenzione della criminalita' e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualita'; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attivita' sportiva; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologia e disturbi psichici e mentali; 3) ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualita' ambientale; 4) arte, attivita' e beni culturali. Esso inoltre prevede che "i settori indicati possono essere modificati con regolamento dell'Autorita' di vigilanza da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400". Tuttavia, la Costituzione oggi vigente statuisce che "la potesta' regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni" e che la stessa potesta' regolamentare "spetta alle Regioni in ogni altra materia" (art. 117, comma 6). Di qui l'illegittimita' costituzionale della disposizione in quanto prevede che, in materia non appartenente in esclusiva allo Stato, sia il regolamento statale, e non la legge regionale, a disciplinare la materia. Per la stessa ragione risulta illegittimo anche il comma 14, il quale prevede che il regolamento di attuazione della legge sia emanato dall'Autorita' di vigilanza. Sotto altro profilo, ma da un punto di vista logico in via preliminare, le stesse disposizioni risultano illegittime anche in quanto non assegnano alle Regioni, per gli enti ricadenti sotto la loro competenza, il ruolo dell'autorita' di vigilanza. E' chiaro infatti che tale riconoscimento riporterebbe ad armonia il sistema riunificando i poteri normativi nel soggetto che ne ha la competenza costituzionale, sia pure concorrente con quella di principio dello Stato. I rimanenti commi dell'art. 11 sono ad avviso della ricorrente Regione illegittimi anch'essi, nella parte in cui non riconoscono la competenza concorrente della regione sia in relazione agli enti di credito di cui all'art. 117, comma terzo, sia in relazione alle materie di attivita', e non prevedono che in tali ambiti le disposizioni statali vincolino le regioni soltanto quanto ai principi fondamentali. 2. - Illegittimita' dell'art. 17, comma 2. Il comma 2 dell'art. 17, nell'introdurre l'art. 40-bis ("Compatibilita' della spesa in materia di contrattazione integrativa") nel testo unico sul pubblico impiego, approvato con d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, prevede che "i comitati di settore ed il Governo procedono a verifiche congiunte in merito alle implicazioni finanziarie complessive della contrattazione integrativa di comparto definendo metodologie e criteri di riscontro anche a campione sui contratti integrativi delle singole amministrazioni"; inoltre si stabilisce che "gli organi di controllo interno indicati all'articolo 48, comma 6, inviano annualmente specifiche informazioni sui costi della contrattazione integrativa al Ministero dell'economia e delle finanze, che predispone, allo scopo, uno specifico modello di rilevazione, d'intesa con la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica", e che, "nel caso in cui i controlli e le rilevazioni di cui ai commi 1 e 2 evidenzino costi non compatibili con i vincoli di bilancio, secondo quanto prescritto dall'articolo 40, comma 3, le relative clausole dell'accordo integrativo sono nulle di diritto". Il controllo sulla spesa del personale pubblico e sulle compatibilita' finanziaria della contrattazione collettiva (nazionale e integrativa) e' uno dei punti piu' importanti del testo unico sul pubblico impiego, che dedica ad esso diverse e analitiche norme. In particolare, il necessario rispetto dei vincoli di bilancio da parte della contrattazione integrativa e' sancito dall'art. 40, comma 3, testo unico (richiamato dallo stesso art. 17, comma 2, qui impugnato), che prevede anche la nullita' delle clausole difformi. L'art. 48, comma 6, del testo unico prevede poi che il controllo sulla compatibilita' economica della contrattazione integrativa e' svolto "dal collegio dei revisori dei conti ovvero, laddove tale organo non sia previsto, dai nuclei di valutazione o dai servizi di controllo interno". Gli artt. 58 ss., poi, dettano analitiche norme sulla rilevazione, comunicazione e controllo dei dati relativi alla spesa per il personale. Il testo unico, dunque, appresta gia' un completo sistema di controllo sui costi della contrattazione integrativa, e non sembra esserci spazio per ulteriori principi in tale materia (volendo ricondurre questa al "coordinamento della finanza pubblica" assegnato alla legislazione concorrente). La disposizione qui impugnata, infatti, oltre ad introdurre illegittimamente norme di dettaglio (come quella sulla definizione delle modalita' del controllo), prevede una verifica di non meglio precisate "implicazioni finanziarie complessive" da parte del Governo congiuntamente al comitato di settore (costituito, per le regioni, nell'ambito della Conferenza dei presidenti delle regioni: v. l'art. 41, comma 3, testo unico). In tal modo si attribuisce al Governo un ruolo di controllo sulle implicazioni finanziarie delle scelte delle singole regioni che non ha fondamento costituzionale e che non e' neppure coerente con il ruolo che in generale il Governo ricopre in relazione alla contrattazione collettiva per il pubblico impiego, dato che il controllo di compatibilita' finanziaria viene svolto dalla Corte dei conti. 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 25, comma 10. L'art. 25 istituisce inoltre una serie di Fondi speciali presso i Ministeri, la cui gestione e' da disciplinarsi con regolamenti del Ministro competente. Quello che incide sugli interessi specifici della Regione Umbria e' il Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni previsto dal comma 10. Si tratta di un Fondo istituito ex novo per il 2002, ma destinato a permanere negli esercizi successivi (lo stanziamento annuale e' infatti determinato dal comma 11 con l'espressione tipica della quantificazione annuale della spesa ricorrente), diretto a finanziare l'adozione di programmi di sviluppo e riqualificazione del territorio da parte dei comuni: una quota non inferiore all'85% e' riservata ai comuni minori delle regioni meridionali. Le modalita' degli interventi e la ripartizione del Fondo "tra gli enti interessati" saranno disciplinate con regolamento governativo, sentita la Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali. Come si vede si tratta di interventi diretti dello Stato a favore dei comuni che, sia per quanto riguarda la definizione della tipologia dei comuni beneficiari, sia per cio' che attiene alla ripartizione tra le regioni di appartenenza, sia infine per la disciplina attuativa esclude qualsiasi ruolo delle Regioni. L'unico titolo che lo Stato puo' vantare in materia e' la competenza concorrente in materia di "governo del territorio". Ora, la ricorrente Regione ritiene che tale competenza non possa includere generici "programmi di sviluppo e riqualificazione del territorio" adottati dai comuni, e prevalentemente dai comuni minori, e privi di qualunque impatto strategico sul territorio. Ma se anche si potesse fare rientrare la materia in tale ambito, va ricordato che la competenza statale e' relativa alla definizione dei principi fondamentali della materia, e non potrebbe dunque giustificare che lo Stato istituisca proprie autonome linee di intervento diretto, frazionato sul territorio, riservandosene la disciplina. Ne restano lese le attribuzioni legislative regionali, sia in generale che anche con riferimento alla violazione specifica dei limiti posti dall'art. 117, comma 6 (illegittima attribuzione di poteri regolamentari statali); ne resta altresi' leso il principio di leale collaborazione, che certo non puo' essere soddisfatto da un generico richiamo "di stile" al d.lgs. n. 281/1997 (specie dopo che la disposizione ha espressamente previsto che sia la sola Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali ad essere sentita); ne resta lesa l'autonomia finanziaria delle Regioni, garantita dall'art. 119 della Costituzione, poiche' questo finanziamento, di non trascurabile grandezza, viene sottratto ai trasferimenti finanziari verso le regioni. Va osservato a questo proposito che il Fondo contestato non puo' essere ricondotto alla previsione dell'art. 119, quinto comma, della Costituzione. Tale disposizione prevede infatti che lo Stato possa, per motivi specificamente elencati (promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale; rimuovere gli squilibri economici e sociali; favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona; provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni), possa o destinare risorse aggiuntive o effettuare interventi speciali purche' a favore di determinati enti locali o Regioni. In questo caso invece, il finanziamento e' rivolto verso destinatari indeterminati, poiche' il particolare favor per i comuni minori del Mezzogiorno e' posto soltanto come criterio cui deve ispirarsi la futura disciplina regolamentare. Ma se anche si dovesse ritenere che un intervento siffatto rientri tra quelli previsti dall'art. 119, quinto comma, per cio' che attiene le finalita' e la tipologia, lo stesso risultato avrebbe potuto comunque essere conseguito ripartendo il fondo tra le Regioni e indicando ad esse i criteri di destinazione delle risorse. Anche nell'interpretazione piu' benigna, dunque, la disposizione impugnata risulta violare comunque le attribuzioni regionali. 4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 1. L'art. 33, comma 1 (ed unico) novella il comma 1 dell'art. 10 del d.lgs. n. 368 del 20 ottobre 1998 (istitutivo del Ministero per i beni e le attivita' culturali) prevedendo che il Ministero possa "dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico" secondo "modalita', criteri e garanzie definiti con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400". Si tratta cioe' di un regolamento ministeriale. Tale regolamento dovra', tra l'altro, fissare le procedure di affidamento del servizio (mediante licitazione privata), i compiti dello Stato e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni, i parametri di offerta al pubblico e di gestione dei siti culturali, la durata della concessione comunque non inferiore a cinque anni. La norma stabilisce, altresi', che costituisce titolo di preferenza per la concessione della gestione dei servizi di valorizzazione del patrimonio, la presentazione da parte dei soggetti concorrenti di progetti di gestione e valorizzazione complessi e plurimi che includano - accanto a beni e siti di maggiore rilevanza - anche beni e siti definiti "minori" collocati in centri urbani con popolazione pari o inferiore a 30.000 abitanti, purche' sia comunque salvaguardata l'autonomia scientifica e di immagine individuale del museo minore. Altre norme di dettaglio sono contenute nella legge, e per il resto rinviate al regolamento. Non e' dubbio, per dichiarazione testuale della legge (che riguarda il "miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico") che si tratta di un intervento che ricade nella materia della "valorizzazione dei beni culturali e ambientali" (e "promozione e organizzazione delle attivita' culturali") di cui al comma 3 dell'art. 117 della Costituzione, cioe' in materia di competenza "concorrente" tra lo Stato e le Regioni. Secondo le ben note regole costituzionali, allo Stato spetta di dettare i "principi fondamentali" alle Regioni dettare la disciplina rispettando tali principi. La disciplina qui considerata non si attiene a tali regole, statuendo accanto al possibile principio (quello dell'eventuale affidamento in concessione dei servizi in questione) anche numerose regole di dettaglio, e invade cosi' l'ambito della competenza legislativa regionale. Ancora piu' gravemente illegittima e lesiva, tuttavia, e' la parte della disposizione che affida lo svolgimento della disciplina legislativa al regolamento ministeriale anziche' alla legge regionale, alla quale costituzionalmente spetta. Risultano cosi' violati contemporaneamente i commi 3 e 6 dell'art. 117: il 3 in quanto viene misconosciuta la potesta' legislativa regionale, il 6 in quanto in aggiunta viene istituita una potesta' regolamentare statale (e per di piu' ministeriale), per la quale manca il fondamento costituzionale. Ad avviso della ricorrente Regione percio' la disposizione deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, sia nella parte in cui vincola il legislatore regionale a norme di dettaglio, sia - e soprattutto - nella parte in cui prevede che il compito di attuare i principi legislativi spetti al Ministero anziche' alle Regioni competenti. La normativa in questione, infatti, viola anche l'art. 118, secondo il quale le funzioni amministrative spettano in via generali ai comuni salvo che esigenze di carattere unitario ne impongano l'allocazione alle province, alle citta' metropolitane, alle regioni o allo Stato, per violazione del principio di sussidiarieta'. 5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 35. L'art. 35 introduce una disciplina che si sostituisce interamente all'art. 113 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo n. 267/2000, di cui modifica inoltre varie altre disposizioni. La nuova disciplina comprende, tra l'altro, i seguenti aspetti: e' introdotta la distinzione fra servizi a rilevanza industriale - per i quali si prevedono trasformazioni societarie, privatizzazioni e gare - da quelli privi di rilevanza industriale per i quali si conferma la gestione con affidamento diretto a istituzioni, aziende speciali, societa' di capitali costituite o partecipate dagli enti locali, ovvero in economia in base alle modeste dimensioni o alle caratteristiche del servizio. Sara' un regolamento statale ad individuare, entro sei mesi, i servizi a rilevanza industriale; e' affermato il principio della separazione della proprieta' e gestione delle reti, impianti ed altre dotazioni (gli enti locali non possono cedere la proprieta' di tali reti ed impianti, mentre possono conferire detta proprieta' a S.p.a. di cui detengano la maggioranza che e' incedibile) dall'erogazione del servizio da consegnarsi alla concorrenza del mercato (deve essere conferita la titolarita' del servizio a societa' di capitali da individuarsi attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica); se le norme che regolano i singoli settori non prevedono un congruo periodo di transizione, il regolamento governativo di attuazione che definira' i servizi pubblici locali di rilevanza industriale indichera' pure i termini - non inferiori a 3 anni e non superiori a 5 anni - di scadenza o di anticipata cessazione della concessione rilasciata con procedure diverse dall'evidenza pubblica. A far data dal termine del periodo di transizione, e' vietato alle societa' di capitali in cui la partecipazione pubblica e' superiore al 50%, se ancora affidatarie dirette, di partecipare ad attivita' imprenditoriali al di fuori del proprio territorio; entro il 31 gennaio 2002 gli enti locali trasformano in societa' di capitali le aziende speciali ed i consorzi cui sono affidati i servizi pubblici di rilevanza industriale; sono poi dettate disposizioni specifiche per il servizio idrico integrato, prevedendo che i soggetti competenti individuati dalle regioni possono affidare tale servizio a societa' di capitali partecipate unicamente dagli enti locali per un periodo non superiore a 5 anni; entro due anni da tale affidamento, anche se gia' avvenuto alla data di entrata in vigore della legge, gli enti locali procedono ad applicare le procedure dell'evidenza pubblica, pena la perdita immediata dell'affidamento del servizio stesso alla societa' da essi partecipata. Si tratta di una riforma di notevole portata, certo non destinata a riflettersi sulle previsioni finanziarie dell'anno in corso: anzi, l'operativita' della riforma e' affidata in larga misura alle disposizioni del Regolamento governativo previsto al comma 16 (uno dei molti previsti dalla legge finanziaria), da emanarsi entro sei mesi. Poiche' a tale regolamento il comma 2 dell'art. 35 assegna il compito di fissare un periodo di transizione di non meno di tre anni e non piu' di cinque anni, ulteriormente incrementabile (nei casi previsti dal successivo comma 3) sino ad ulteriori cinque anni, si puo' affermare con sicurezza che effetti finanziari della riforma non ve ne potranno essere, almeno per il periodo preso in considerazione dallo stesso bilancio pluriennale! In realta' il legislatore della finanziaria ha semplicemente "colto l'occasione per una riforma della disciplina dei servizi pubblici locali di cui si avvertiva da tempo l'esigenza, rafforzata anche dalla necessita' di aprire il settore ai principi comunitari della concorrenza e del mercato. In tale prospettiva numerose iniziative legislative sono state promosse nella passata come nell'attuale legislatura. Nella XIII legislatura era stato persino approvato dal Senato un disegno di legge governativo (S-4014, presentato il 12 maggio 1999 e approvato il 30 maggio 2000, dopo essere stato unificato con diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare), che avrebbe introdotto una radicale riforma dei servizi pubblici ispirata, appunto, ai principi comunitari. Di tale riforma l'art. 35 della legge finanziaria riproduce diverse disposizioni. Dunque, la normativa di cui all'art. 35, ancor piu' che la legge finanziaria in generale, e' stata concepita prima della modifica della Costituzione. Paradossalmente pero', mentre il disegno di legge presentato prima della legge della Costituzione n. 3/2001 riconosceva un ruolo delle regioni adeguato al contesto costituzionale del tempo, la disciplina' introdotta dalla legge finanziaria 2002 dopo la riforma costituzionale del Titolo V ignora integralmente qualsiasi ruolo del legislatore regionale. Inoltre, essa ignora totalmente anche il potere regolamentare degli enti locali "in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento" delle loro funzioni (art. 117, comma 6, legge della Costituzione n. 3/2001) e persino la loro autonomia statutaria (si veda, ad esempio, l'espansione delle competenze del consiglio comunale indotto dall'art. 35, comma 12, lett. b), che, modificando l'art. 42, secondo comma, lett. e) del T.U.E.L., assegna al consiglio comunale, accanto all'assunzione diretta, anche "l'organizzazione" dei servizi pubblici: mentre la relativa decisione andava evidentemente lasciata semmai al comune stesso). Venendo ora alla piu' specifica valutazione di costituzionalita' delle disposizioni dell'art. 35, puo' essere in generale osservato che, in se' considerata, la materia dei servizi pubblici e' costituzionalmente ripartita tra il legislatore regionale e la regolamentazione (anche statutaria) degli enti locali. Va dunque esaminato se vi sia un meno evidente titolo giustificativo a fondamento della disciplina da parte del legislatore statale. In primo luogo, puo' essere escluso sin dall'inizio che tale titolo giustificativo possa individuarsi nelle competenze statali (concorrenti) in materia di coordinamento finanziario, dato che, come detto, le disposizioni non sono destinate a produrre effetti su tale piano nell'arco di previsione del bilancio pluriennale. Va poi valutato se idoneo fondamento possa ad esso derivare dalle esigenze di attuazione della normativa comunitaria o dalle esigenze, collegate alle prime, della tutela della concorrenza (materie o compiti che, in base all'art. 117, secondo comma, lett. e) costituiscono titoli di intervento del legislatore statale). Sembra tuttavia evidente che le esigenze di protezione della concorrenzialita' del mercato nel settore dei servizi pubblici locali, pure innegabilmente presenti nel sistema comunitario, non possono giustificare una disciplina del tipo di quella approvata dal legislatore statale. Infatti, senza entrare nel merito delle scelte specifiche (per altro in molti punti confuse ed opinabili: ma si tratterebbe, se cosi' fosse, di contestazioni tecniche o politiche) quel che appare del tutto inaccettabile e' il modo in cui il legislatore ha affrontato una materia, che non rientra nelle sue potesta' legislative ne' esclusive ne' concorrenti. E' pacifico, infatti, che la normativa introdotta costituisce certo non l'unico ma, semmai, solo uno dei possibili modi di attuare i principi comunitari della concorrenza: la stessa comunicazione della Commissione sulle concessioni del 12 aprile 2000 limita le sue indicazioni all'esigenza che le concessioni a terzi avvengano nel rispetto dei generali principi di parita' di trattamento, proporzionalita', trasparenza e mutuo riconoscimento. Ugualmente dicasi per le esigenze, per cosi' dire, di "diritto interno" in tema di concorrenza, la cui tutela e' riservata al legislatore statale dall'art. 117, secondo comma, lett. e). La stessa segnalazione su regolazione e concorrenza inviata il 16 gennaio 2002 al Governo e al Parlamento dall'Autorita' garante, constatato "il processo di ampliamento degli ambiti e dei poteri di regolazione delle attivita' economiche attribuiti alle regioni e agli enti locali, oggetto della recente modifica costituzionale", invoca quale strumento di tutela della concorrenzialita' del mercato la previsione di "misure volte ad evitare forme di iper-regolazione e di reintroduzione al livello locale di restrizioni e vincoli aboliti da interventi di riforma nazionali". In nessun caso, dunque, tali titoli di intervento statale giustificano l'appropriazione di una vasta materia, riservata alla competenza legislativa delle regioni, mediante una disciplina statale analitica e interamente avocata al centro, tale da azzerare ogni ambito normativo delle regioni e degli enti locali. Non solo si detta, nella materia di per se' estranea alla competenza statale, una intera disciplina autoapplicativa, non solo si esclude ogni possibilita' di intervento regionale, ma addirittura si prevede l'integrazione ed attuazione di tale disciplina con norme ulteriori prodotte da autorita' ministeriali. Sembra invece evidente che lo Stato avrebbe dovuto limitarsi a dettare le norme rivolte ad assicurare un determinato grado di concorrenzialita', in forma di regole da rispettarsi nella disciplina regionale. L'intervento diretto ed analitico della legge statale non solo contrasta con le regole del riparto per materia, ma non regge neppure ad uno scrutinio basato sul criterio di proporzionalita': dato che lo stesso risultato - o piuttosto un risultato migliore - avrebbe potuto essere raggiunto attraverso prescrizione di obiettivi e tempi e l'eventuale attivazione del potere sostitutivo previsto dall'art. 120, secondo comma, della Costituzione. Come ancora suggerisce l'Autorita' garante "per rendere piu' efficaci le scelte dei governi regionali e locali andrebbero sviluppati, ferma restando la necessaria diversificazione normativa, meccanismi di confronto sistematico delle misure adottate da regolatori allo stesso livello decentrato (ad esempio, governi regionali) per incentivare l'adozione delle best practices regolamentari". Cio' va detto tanto piu' che l'avocazione al centro della disciplina analitica non serve ad anticipare, ma al contrario semmai a rallentare e ad interrompere e rinviare di diversi anni un processo di trasformazione dei servizi pubblici locali, gia' in atto in quasi tutti i comuni della Regione, In definitiva, tutti i commi dell' art. 35 risultano illegittimi in quanto: disciplinano la trasformazione dei servizi pubblici locali per aspetti non connessi alla tutela della concorrenza, anziche' dettare in ipotesi i principi in tema di concorrenza cui i legislatori regionali debbano attenersi; ignorano, ed anzi praticamente escludono, la potesta' legislativa regionale in materia; prevedono poteri statali tipo regolamentare e di integrazione normativa. Specifica censura va poi rivolta al comma 15 dell'art. 35, in quanto esso detta una disciplina diretta ed analitica dei servizi pubblici non industriali, privi della sia pur minima parentela con la materia della concorrenza e non correlati neppure alla attuazione di norme comunitarie. 6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 41, comma 1. Secondo l'art. 41, comma 1, "il Ministero dell'economia e delle finanze coordina l'accesso al mercato dei capitali delle province, dei comuni, delle unioni di comuni, delle citta' metropolitane, delle comunita' montane e delle comunita' isolane, di cui all'articolo 2 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonche' dei consorzi tra enti territoriali e delle regioni". Inoltre, secondo la terza frase dello stesso comma, "il contenuto e le modalita' del coordinamento nonche' dell'invio dei dati sono stabiliti con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze da emanare, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281". Di seguito si stabilisce altresi' che "con lo stesso decreto sono approvate le norme relative all'ammortamento del debito e all'utilizzo degli strumenti derivati da parte dei succitati enti". Pur tenendo conto del dichiarato fine di "contenere il costo dell'indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica", tutte le disposizioni indicate appaiono illegittime: la prima perche' intesta ad un singolo ministro un potere di coordinamento addirittura innominato. Peggio ancora, come si evince dalle disposizioni citate, i contenuti del coordinamento, insieme alle modalita', sono unilateralmente stabiliti dallo stesso Ministro, con atto unilaterale di natura sostanzialmente regolamentare. Ora, secondo la costante giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, gia' nel precedente ordinamento il potere di coordinamento doveva avere base legislativa, ed essere esercitato dal Governo nella sua collegialita'. Inoltre, l'art. 8, comma 1, della legge n. 59 del 1997, in attuazione del principio di leale cooperazione stabili' la regola della previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. Cio', si ripete, gia' nell'ambito del precedente ordinamento costituzionale. Nel nuovo ordinamento, si e' ritenuto che non sia piu' in generale ammessa la funzione di indirizzo e coordinamento in via amministrativa. Ma se pure si volesse ritenere diversamente, anche in relazione alla specifica potesta' legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, sembra evidente l'illegittimita' dell'intestazione ministeriale del potere, ed ancora piu' evidente quella dell'attribuzione al ministro stesso di un potere normativo: sia - ovviamente - in relazione alla stessa definizione del contenuto del coordinamento, sia in genere (non essendovi piu' potere regolamentare dello Stato al di fuori delle materie di legislazione statale esclusiva). 7. - Legittimita' costituzionale dell'art. 52, comma 17. Il comma 17 dell'art. 52, prescrivendo che "le disposizioni di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426, e successive modificazioni, non si applicano alle sagre, fiere e manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico" disciplina la materia commercio, non elencata tra quelle riservate in via "esclusiva" allo Stato, ne' tra quelle di potesta' "concorrente", e viola percio' l'art. 117, comma 4, della Costituzione. Inoltre, nel suo contenuto essa deroga ad una disciplina gia' abrogata dal d.lgs. n. 114/1998, anche con riferimento alle "successive modificazioni" della legge n. 426 del 1971. Ne' si puo' ritenere che tra le "successive modificazioni" sia da ricomprendersi lo stesso decreto legislativo appena citato, anche perche' questo imposta la disciplina delle attivita' commerciali in termini tali da non poter riguardare il tipo di manifestazioni elencate. Ne risulta la totale incertezza sul significato della disposizione, non rimediabile neppure in sede interpretativa, in violazione del principio di certezza del diritto. 8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 10, 39 e 83. I commi 10, 39 e 83 dell'art. 52, riguardano le quote latte, i contributi a favore degli allevamenti ippici per lo sviluppo dell'ippoterapia ed il fondo per la copertura dei rischi in agricoltura. Essi intervengono in materia ormai di competenza regionale, al di fuori dei titoli di competenza statale, in violazione dell'art. 117, commi 3 e 4. Costituiscono inoltre fondi settoriali a gestione ministeriale in assenza di competenza legislativa, in violazione anche degli artt. 118, per contrasto con il principio di sussidiarieta', e dell'art. 119, che non prevede fondi settoriali, meno ancora fondi gestiti dal centro. 9. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 60, comma 1, lett. d). L'art. 60, come quelli che lo seguono, si riferiscono ad interventi in agricoltura. La materia e' da sempre di competenza delle regioni, e rientra ora, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, nella generale competenza residuale delle regioni, mentre un residuo ruolo statale si puo' configurare solo in quanto lo esiga l'attuazione del diritto dell'UE. Anche in questo come negli altri punti la legge finanziaria mostra di non avvertire il mutamento delle competenze costituzionali, e continua a proporre diretta normativa e compiti statali, forse gia' inaccettabili nell'ambito del vecchio ordinamento costituzionale, sicuramente (ad avviso della ricorrente regione) incompatibili con il nuovo. Ora, pur essendo estremamente disagevole la contestazione di disposizioni che intervengono a modificare singole parole di precedenti disposizioni, va qui contestata, in quanto pregiudica il futuro assetto delle competenze, in particolare la lett. d) del primo comma, in base alla quale con "decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali ... sono definite le tipologie di investinento per le imprese agricole e per quelle della prima trasformazione e commercializzazione ammesse agli aiuti, in osservanza di quanto previsto dal piano di sviluppo rurale di cui al citato regolamento (CE) n. 1257/1999 e di quanto previsto dall'articolo 17 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228". Si tratta di un potere normativo ministeriale del tutto privo di fondamento nella vigente costituzione, che positivamente esclude ogni potere regolamentare statale nelle materie che non appartengono alla competenza legislativa statale esclusiva. Il vizio di competenza non puo' certo essere sanato dallo strumento della "intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano", pure prevista dalla norma. E si noti che allo stesso modo non ne puo' costituire fondamento l'esigenza, del tutto ovvia, che la disciplina si svolga in "osservanza" quanto previsto dalle fonti richiamate sia nazionali che europee. La fonte europea, in particolare, dovra' ovviamente essere osservata dalle Regioni, ma detto questo non vi e' ulteriore ragione di omogeneita' tra le discipline regionali. 10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 64. L'art. 64, reca, modificando la precedente legislazione, la disciplina dell'attivita' di impianto non autorizzato di vigneti, in modo differenziato a seconda dell'anno di impianto, fino all'anno 1998. Per gli impianti anteriori al 1993 tale attivita' viene semplicemente regolarizzata, per gli altri viene dettata disciplina sanzionatoria in via amministrativa. Anche tale disciplina versa in materia appartenente ormai in esclusiva alle Regioni: sicche' non spetta allo Stato di provvedervi, in quanto non si tratti di stretta e dovuta attuazione sostitutiva di normativa comunitaria. 11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 66. L'art. 66, che prevede il finanziamento ad aziende zootecniche e alle cooperative di allevamento bovini per fronteggiare l'emergenza dell'influenza catarrale dei ruminanti. Sembra evidente che, nell'ambito del nuovo riparto costituzionale, spetta alle Regioni di provvedere a tale finanziamento, mentre allo Stato, nell'attuale situazione della finanza pubblica ancora non adeguata all'art. 119, puo' non essere precluso di individuare risorse aggiuntive da assegnare alle Regioni. 12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 67. L'art. 67 disciplina la predisposizione dei "contratti di programma" e di "patti territoriali" in materia di agricoltura, riservando alle autorita' ministeriali l'intera gestione di tali strumenti, compresa la loro approvazione. La disposizione viola l'art. 117 della Costituzione, in primo luogo in quanto, come sopra detto, la materia "agricoltura" non e' compresa tra quelle attribuite in via "esclusiva" o in via "concorrente" allo Stato, e quindi rientra in pieno nella potesta' residuale delle Regioni. La lesione risulta poi di tanto maggiore in quanto vengono riservati al ministero compiti, per la cui attribuzione ad esso non vi e' il minimo fondamento costituzionale. Anche in questo caso, in assenza di un proprio specifico titolo di intervento, lo Stato dovrebbe invece trasferire le relative risorse alle Regioni, alle quali poi compete la predisposizione dei contratti di programma e l'emanazione dei bandi di gara per i patti territoriale. 13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 70. L'art. 70 istituisce ex novo, ma stabilmente (le previsioni finanziarie arrivano infatti sino al 2005), il Fondo per gli asili nido che deve essere ripartito annualmente dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali (comma 3). Il comma 2 definisce come "competenze fondamentali dello Stato, delle regioni e degli enti locali" gli asili nido come "materia", per cosi' dire, "indivisa". Gia' questa norma merita percio' specifica censura. Infatti la lett. p) dell'art. 117, secondo comma, attribuisce alla competenza esclusiva della legge dello Stato il compito di definire le "funzioni fondamentali", ma - si noti - con riferimento soltanto a quelle dei comuni, delle province e delle (istituende) citta' metropolitane. Sarebbe percio' del tutto illegittimo che lo Stato usasse questo titolo di legittimazione per riconoscere a se stesso (oltre che alle regioni, che hanno competenza "residuale") delle supposte "funzioni fondamentali", cosi' trattenendo a se' frange di attribuzione che l'art. 117 non gli riconosce. Cio' posto, e derivandone che, infondata questa via, a nessun altro titolo puo' riconoscersi allo Stato la facolta' di intervenire in via legislativa su una materia di salda e tradizionale competenza regionale, risulta del tutto illegittima l'istituzione di un Fondo nazionale gestito dal Ministero, poiche' in questo modo, oltre all'art. 117, quarto comma della Costituzione, si viene a violare anche l'art. 119, quarto comma, che prevede che le funzioni ordinarie attribuite alle Regioni e agli enti locali siano integralmente finanziate dallo Stato.