ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei giudizi di legittimita' costituzionale: (a) degli artt. 53, primo
e  secondo  comma,  54, terzo comma, e 30-bis del codice di procedura
civile;  e  (b)  dell'art. 53,  primo  e secondo comma, del codice di
procedura  civile, promossi, rispettivamente, con ordinanza emessa il
6 ottobre  2000  dalla  Corte  di  appello di Perugia e con ordinanza
emessa  il  12 marzo 2001 dalla Corte di appello di Roma, iscritte al
n. 793  del  registro  ordinanze  2000  ed  al  n. 519  del  registro
ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 51,  1a serie speciale, dell'anno 2000 e n. 27, 1a serie speciale,
dell'anno 2001.
    Visti gli atti di costituzione di Wilfredo Vitalone;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  29 gennaio  2002  il  giudice
relatore Valerio Onida;
    Udito, per se' medesimo, l'avvocato Wilfredo Vitalone.

                          Ritenuto in fatto

    1.1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  6 ottobre 2000, pervenuta in
cancelleria il 20 novembre 2000 (reg. ord. n. 793 del 2000), la Corte
di  appello  di Perugia ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,
24,   104   e  111  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale:
        a)  dell'art. 53, primo comma, del codice di procedura civile
(giudice  competente),  nella  parte  in cui prevede, nell'ambito del
processo civile, che "sulla ricusazione ... decide, con ordinanza non
impugnabile,   [lo   stesso]  collegio  [cui  appartiene  il  giudice
ricusato]  se  e'  ricusato  uno dei componenti del tribunale o della
corte" e non gia' (come e' previsto dall'art. 40, comma 1, del codice
di procedura penale), "una sezione della corte [d'appello] diversa da
quella  cui appartiene il giudice [della Corte di appello] ricusato",
con ordinanza ricorribile per cassazione;
        b) del combinato disposto degli articoli 53, secondo comma, e
54, terzo comma, cod. proc. civ. (Ordinanza sulla ricusazione), nella
parte  in cui prevede che l'ordinanza che decide sulla ricusazione di
un  giudice  non  e' impugnabile, nonche' nella parte in cui prevede,
sempre  con  statuizione  non impugnabile, l'automatica condanna - in
caso  di  declaratoria di rigetto o di inammissibilita' del ricorso -
della  parte  che ha proposto la ricusazione al pagamento di una pena
pecuniaria,  senza  consentire  al  giudice  della ricusazione alcuna
doverosa valutazione, ai predetti fini, della temerarieta' o meno del
ricorso  e,  quindi,  l'opportunita'  di  applicare  o  meno  la pena
pecuniaria, eventualmente graduandola caso per caso;
        c) dell'art. 30-bis cod. proc. civ. (Foro per le cause in cui
sono parti magistrati), introdotto dall'art. 9 della legge 2 dicembre
1998,  n. 420,  nella  parte  in  cui  non  prevede  che  il giudizio
incidentale  sulla  ricusazione  di  un  giudice della sezione civile
della  Corte  di  appello venga devoluto alla cognizione del giudice,
ugualmente  competente  per  materia,  che  ha sede nel capoluogo del
distretto  di  Corte di appello determinato ai sensi dell'art. 11 del
codice  di  procedura penale, allorquando nella sede non vi sia altra
sezione "diversa" da quella cui appartiene il magistrato ricusato.
    Le  questioni  sono  sorte  nell'ambito  di  un  procedimento  di
ricusazione, promosso nei confronti dei componenti del collegio della
Corte   di  appello  investito  del  reclamo  contro  il  decreto  di
inammissibilita'  di  una domanda di risarcimento dei danni cagionati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie.
    Il  remittente, sottolineata l'esigenza del giudice di apparire -
ancor  prima che essere - sereno, imparziale ed indipendente, ritiene
che   tali  requisiti  vengano  a  mancare  allorquando  il  giudizio
sull'accoglimento,    sul    rigetto    o   sulla   declaratoria   di
inammissibilita'  di  un  ricorso per ricusazione di un giudice debba
essere espresso addirittura dai colleghi del medesimo collegio.
    Posto  che  con  le  norme  sulla  translatio dettate dalla legge
n. 420  del 1998 il legislatore ha voluto porre sullo stesso piano la
garanzia  che  il  magistrato debba "apparire ancor prima che essere"
imparziale ed indipendente tanto nel processo penale quanto in quello
civile,   estendendo  a  quest'ultimo  la  regolamentazione  prevista
dall'art. 11   cod.   proc.  pen.,  sarebbe  irrazionale  la  diversa
disciplina  tra  il  procedimento incidentale di ricusazione nel rito
civile  e  l'analogo  procedimento nel rito penale. Solo in penale, a
norma  dell'art. 40,  comma 1, cod. proc. pen., e' previsto che sulla
ricusazione  di  un  giudice  del  tribunale, della corte di assise o
della  corte  di  assise  di  appello decide la corte di appello e su
quella  di  un  giudice  della Corte di appello decide, con ordinanza
ricorribile per cassazione, una sezione della Corte di appello penale
"diversa"  da  quella  cui  appartiene  il  giudice  [della  Corte di
appello] ricusato; nel rito civile, invece, a norma dell'art. 53 cod.
proc.  civ.,  sulla  ricusazione di un giudice del tribunale civile o
della   Corte  di  appello  civile  decide  lo  stesso  collegio  cui
appartiene   il  magistrato  ricusato,  peraltro  con  ordinanza  non
impugnabile,  con  la  quale  la  parte che l'ha proposta, in caso di
rigetto  o  declaratoria  di  inammissibilita',  deve essere comunque
condannata   al  pagamento,  oltre  che  delle  spese,  di  una  pena
pecuniaria.
    Questa  diversita'  di disciplina non sarebbe giustificata, posto
che  anche in civile il procedimento incidentale di ricusazione ha ad
oggetto  la  valutazione  della  sussistenza o meno di un "interesse"
nella  causa da parte del giudice ricusato, che - qualora sussistente
-  sarebbe  idoneo  a  ledere  il diritto soggettivo del cittadino ad
essere   giudicato   da   un   giudice  indipendente  ed  imparziale.
L'irragionevolezza  della norma denunciata risiederebbe anche nel suo
meccanismo  di  reciprocita', la competenza sulla ricusazione essendo
prevista  in capo allo "stesso" collegio cui appartiene il magistrato
ricusato, il quale, a sua volta, in base alla norma denunciata, sara'
chiamato ad esprimere il medesimo giudizio sull'eventuale ricusazione
proposta nei riguardi degli stessi colleghi che l'hanno giudicato.
    Ad  avviso  del  giudice remittente, la disciplina processuale di
cui al combinato disposto degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ. si pone
in  contrasto,  oltre  che  con  il  principio di ragionevolezza, con
l'art. 24   della   Costituzione,   sia   perche'   sancisce  la  non
impugnabilita'  dell'ordinanza  che  decide  sulla  ricusazione di un
giudice  civile,  sia  perche'  prevede,  in  caso di declaratoria di
inammissibilita'   o   di   rigetto   del   relativo  ricorso,  anche
l'automatica  condanna  della parte che ha proposto la ricusazione al
pagamento  di  una pena pecuniaria, senza consentire al giudice della
ricusazione  alcuna  doverosa  valutazione,  ai  predetti fini, della
temerarieta'  o  meno  del  ricorso  e,  quindi, dell'opportunita' di
applicare  o  meno la pena pecuniaria, eventualmente graduandola caso
per  caso.  E  questo  sarebbe fonte di ulteriore compromissione "sia
della  funzionalita'  e  credibilita' dell'attivita' giurisdizionale,
sia   della   stessa  serenita',  imparzialita'  e  -  soprattutto  -
indipendenza  della  coscienza dei giudici" investiti dell'istanza di
ricusazione.
    Per  completezza,  e con concreto riferimento alla fattispecie al
suo  esame,  il giudice ritiene di dover sollevare anche la questione
di   costituzionalita'   dell'art. 30-bis   cod.   proc.   civ.  Esso
contrasterebbe  con  il  principio  di  ragionevolezza  (art. 3 della
Costituzione),  nonche'  con  il  diritto  del  cittadino  ad  essere
giudicato  da  un  giudice indipendente ed imparziale, nella parte in
cui  non  prevede che il giudizio incidentale sulla ricusazione di un
giudice  della  sezione  civile della Corte di appello venga devoluto
alla cognizione di un giudice, ugualmente competente per materia, che
ha  sede  nel  capoluogo di un diverso distretto di Corte di appello,
determinato  ai  sensi  dell'art. 11  del codice di procedura penale,
allorquando  nella  sede  del  distretto  non  vi  sia altra "sezione
diversa"   da  quella  cui  appartiene  il  magistrato  ricusato.  La
rilevanza  della questione, sottolinea l'ordinanza di rimessione, nel
caso   di  accoglimento  della  questione  di  costituzionalita'  del
combinato disposto degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ., discenderebbe
dal  fatto  che  presso  la Corte di appello di Perugia "esistono una
sola  sezione penale ed una sola sezione civile, oltre ad una sezione
promiscua   della   quale,   nei  giudizi  di  rinvio  a  seguito  di
annullamento  da  parte  della  Corte  suprema di cassazione civile o
penale,  ovvero  nelle ipotesi di astensione o di incompatibilita' di
consiglieri  della  sezione  civile  o della sezione penale di questa
Corte,  sono  stati  e  saranno  chiamati  a  farne  parte,  in varia
composizione   e   spesso  nel  medesimo  collegio,  sia  alcuni  dei
consiglieri  ricusati, sia i componenti di questo collegio remittente
e,  pertanto,  di fatto non esiste, presso questa Corte, una "sezione
diversa da quella cui appartengono i magistrati ricusati".
    1.2.  - Nel giudizio dinanzi alla Corte si e' costituita la parte
ricusante  nel giudizio a quo la quale, sulla premessa di condividere
integralmente  e  di  far  proprie  le  motivazioni dell'ordinanza di
remissione,    chiede    che    sia    dichiarata    l'illegittimita'
costituzionale,  nei  sensi  e  nei  termini  di cui all'ordinanza di
rinvio,  degli  artt. 53,  primo  e secondo comma, 54, terzo comma, e
30-bis    cod.    proc.    civ.,    "con    la    precisazione    che
l'incostituzionalita'    dell'art. 30-bis    va    dichiarata   anche
nell'ipotesi in cui il giudizio sulla ricusazione di un magistrato di
una  determinata  Corte  di  appello  debba essere demandato ad altra
sezione  della  stessa  corte,  diversa  da  quella cui appartiene il
magistrato  ricusato,  cio'  perche'  le  ragioni di incompatibilita'
derivano  dai  rapporti  di  colleganza,  conoscenza,  frequenza  e/o
possibile  amicizia  tra  i  magistrati della stessa Corte di appello
civile".
    2.1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  12 marzo  2001, pervenuta in
cancelleria il 2 aprile 2001 (reg. ord. n. 519 del 2001), la Corte di
appello  di  Roma,  nel  corso  di  un  procedimento  incidentale  di
ricusazione  proposto  nel  corso  di  un  giudizio  di  appello  per
risarcimento  dei  danni, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e
104  della  Costituzione e all'art. 6, comma 1, della convenzione per
la  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,
resa  esecutiva  in  Italia  con  la  legge  4 agosto  1955,  n. 848,
questione   di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 53,  primo  e
secondo  comma,  cod.  proc.  civ.,  nella  parte  in  cui prevede la
competenza dello stesso collegio, cui il giudice ricusato appartiene,
a  decidere  sulla  ricusazione  di  un giudice del tribunale o della
Corte di appello.
    Osserva  il giudice remittente che le condizioni di obiettivita',
trasparenza,  credibilita'  ed indipendenza del giudice costituiscono
un  bene  primario  e  necessario  nella  dialettica  processuale. La
mancanza  di  tali  condizioni,  in  contrasto  con  il  principio di
ragionevolezza    posto    dall'art. 3    della    Costituzione,   si
verificherebbe    allorquando    la    decisione   sull'accoglimento,
inammissibilita'  o  rigetto  di  un  ricorso  per  ricusazione di un
giudice   sia  adottata  dai  componenti  dello  stesso  collegio  di
appartenenza  del giudice ricusato, con il quale vengono decise tutte
le  altre  cause,  e  che  potrebbe,  a  sua volta, essere chiamato a
decidere  sulla  ricusazione diretta ad altri componenti del medesimo
collegio,  attraverso  un  anomalo  ed inusitato scambio reciproco di
ruoli.  Infatti  -  argomenta  la  Corte  di appello - lo svolgere le
funzioni  giudicanti  in  un  medesimo  collegio puo' dar luogo ad un
condizionamento  ambientale nell'ipotesi in cui gli stessi componenti
dell'organo  collegiale  siano chiamati a decidere in processi in cui
siano   coinvolti   i   colleghi  in  qualita'  di  parti,  a  motivo
dell'inevitabile instaurarsi di rapporti interpersonali di vario tipo
tra  magistrati,  con  il  conseguente  possibile  verificarsi di una
turbativa della serenita' ed imparzialita' dei giudizi.
    Il   remittente   considera   la   diversa   disciplina   dettata
dall'art. 40,  comma  1,  cod.  proc.  pen.,  nonche'  quella dettata
dall'art. 30-bis  cod.  proc.  civ.  per  i  giudizi  civili in cui i
magistrati  siano coinvolti in qualita' di parti, ed osserva che tale
differenza  e'  ingiustificata,  posto che, tanto in civile quanto in
penale,  comune e' l'esigenza di garantire la trasparenza e serenita'
del  magistrato che "deve apparire ancor prima che essere" imparziale
ed indipendente.
    L'irrazionalita'  dell'attribuzione  della  competenza a decidere
sull'istanza  di  ricusazione  al  collegio  al  quale  appartiene il
giudice  ricusato,  allorche'  sia  ricusato  uno  dei componenti del
tribunale  o  della Corte di appello civile, sarebbe confermata dalla
non impugnabilita' del provvedimento nel rito civile - impugnabilita'
invece  prevista dall'art. 41 cod. proc. pen., che ammette il ricorso
per  cassazione  - e dalla previsione, per il caso di declaratoria di
inammissibilita' o di rigetto, della condanna, ai sensi dell'art. 54,
terzo comma, cod. proc. civ., del ricorrente al pagamento di una pena
pecuniaria,  senza alcuna discrezionalita' per il giudice di valutare
l'opportunita' di applicazione o graduazione della pena.
    Il  contrasto  con  gli altri parametri evocati e' motivato dalla
Corte  remittente  considerando  che  il  procedimento incidentale di
ricusazione  avrebbe  ad  oggetto  la valutazione della sussistenza o
meno di un "interesse" nella causa da parte del giudice ricusato, che
- qualora sussistente - sarebbe idoneo a ledere il diritto soggettivo
del  cittadino  ad  essere  giudicato  da  un giudice indipendente ed
imparziale  (art. 104  della  Costituzione  ed art. 6, comma 1, della
convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali).
    2.2. - Anche in questo giudizio si e' costituito il ricusante, il
quale,   condividendo   e   facendo  proprie  le  argomentazioni  del
remittente,  e  richiamando l'ordinanza 6 ottobre 2000 della Corte di
appello  di  Perugia,  chiede  -  come  nell'altro giudizio - che sia
dichiarata  l'illegittimita' costituzionale, "nei sensi e nei termini
di  cui all'ordinanza citata", degli artt. 53, primo e secondo comma,
54,  terzo  comma, e 30-bis cod. proc. civ., "con la precisazione che
l'incostituzionalita'    dell'art. 30-bis    va    dichiarata   anche
nell'ipotesi in cui il giudizio sulla ricusazione di un magistrato di
una  determinata  Corte  di  appello  debba essere demandato ad altra
sezione  della  stessa  corte,  diversa  da  quella cui appartiene il
magistrato  ricusato,  cio'  perche'  le  ragioni di incompatibilita'
derivano  dai  rapporti  di  colleganza,  conoscenza,  frequenza  e/o
possibile  amicizia  tra  i  magistrati della stessa Corte di appello
civile".

                       Considerato in diritto

    1. - Entrambe  le  Corti d'appello remittenti sollevano questione
di   costituzionalita'  della  disciplina  contenuta  nel  codice  di
procedura   civile,   relativa   alla  competenza  a  decidere  sulla
ricusazione  di  uno  o  piu'  giudici del tribunale o della Corte di
appello.  Si  tratta  dell'art. 53 (giudice competente), primo comma,
seconda parte, ai cui sensi "sulla ricusazione decide ... il collegio
se  e'  ricusato  uno dei componenti del tribunale o della corte". La
Corte  di Perugia (che denuncia, anche sotto altri profili di seguito
richiamati,  il  "combinato disposto" degli artt. 53, primo e secondo
comma,  e  54,  terzo  comma,  cod.  proc.  civ.)  censura  la  norma
limitatamente  alla  parte  che  si  riferisce alla ricusazione di un
magistrato  della  Corte  di appello; la Corte di Roma (che coinvolge
nella  denuncia,  oltre  al  primo,  il  secondo  comma dell'art. 53)
censura  la norma che prevede la competenza dello stesso collegio per
la decisione sulla ricusazione di un magistrato del tribunale o della
Corte  di  appello,  "con irragionevole reciprocita' per l'ipotesi in
cui lo stesso magistrato sia chiamato a decidere quale componente del
collegio   sull'eventuale  ricusazione  proposta  nei  confronti  dei
colleghi  che  lo  avevano  giudicato". I parametri invocati sono gli
artt. 3,  24  (di  cui  si  fa  cenno solo nella motivazione, non nel
dispositivo  dell'ordinanza),  104  e  111  della Costituzione per la
Corte  di  appello di Perugia, gli artt. 3 e 104 della Costituzione e
l'art. 6,  comma 1, della convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle liberta' fondamentali (sul diritto ad un
giudizio  equo  da  parte di un tribunale indipendente ed imparziale)
per la Corte di appello di Roma.
    In  sostanza  entrambi  i  remittenti  ritengono che la decisione
sulla  ricusazione  da  parte dello stesso collegio cui appartiene il
ricusato  (sia pure con la sostituzione di quest'ultimo, come avviene
in   base   alla   costante  interpretazione  giurisprudenziale)  non
garantisca un giudizio imparziale, in quanto la serenita' di giudizio
potrebbe essere pregiudicata a motivo dell'inevitabile instaurarsi di
rapporti  interpersonali  di  vario tipo fra i magistrati che operano
quotidianamente   nello   stesso  collegio,  con  la  possibilita'  -
sottolineata  in  particolare dalla Corte di Roma - che il magistrato
ricusato  sia  chiamato  a  sua volta a decidere sulla ricusazione di
altri  componenti  dello  stesso  collegio.  Entrambi  i  remittenti,
inoltre,  ritengono  tale disciplina in contrasto con il principio di
ragionevolezza desunto dall'art. 3 della Costituzione, sulla base del
raffronto   con  la  diversa  disciplina  apprestata  dal  codice  di
procedura  penale,  che  all'art. 40,  comma  1, demanda la decisione
sulla  ricusazione di un giudice del tribunale alla Corte di appello,
e quella sulla ricusazione di un magistrato della Corte di appello ad
una  sezione  della  stessa corte diversa da quella cui appartiene il
giudice ricusato; nonche' con la disciplina prevista dall'art. 30-bis
del  codice  di  procedura civile, introdotto dall'art. 9 della legge
2 dicembre  1998,  n. 420, il quale attribuisce le cause in cui siano
comunque   parti   magistrati,   che   secondo   le  norme  ordinarie
spetterebbero  alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel
distretto  in  cui  il  magistrato esercita le proprie funzioni, alla
competenza  del  giudice,  ugualmente  competente per materia, che ha
sede  nel  capoluogo del distretto di Corte di appello determinato ai
sensi  dell'art. 11  del  codice  di  procedura  penale  (cioe' di un
diverso  distretto  indicato  dalla  legge  in  modo  da  evitare  la
"reciprocita'").
    A tale questione, per cosi' dire, principale, la Corte di appello
di Perugia ne aggiunge altre tre. Due riguardano ancora la disciplina
codicistica  della  ricusazione  nel  processo  civile, censurata per
violazione  degli  stessi  parametri,  e  specificamente (stando alla
motivazione) dell'art. 24 della Costituzione:
        a)   nella   parte  in  cui  prevede  che  la  decisione  sia
pronunciata  con  ordinanza  non impugnabile (art. 53, secondo comma,
cod. proc. civ.), nonche':
        b)  nella  parte in cui prevede che l'ordinanza che rigetta o
dichiara   inammissibile   il   ricorso   per   ricusazione  comporti
automaticamente  la  condanna  dell'istante  ad  una pena pecuniaria,
senza  consentire  al  giudice  alcuna  valutazione  in  ordine  alla
temerarieta'  del ricorso stesso ne' alla eventuale graduazione della
sanzione, in caso di colpa del ricorrente (art. 54, terzo comma, cod.
proc.  civ. - Ordinanza sulla ricusazione). Anche la Corte di appello
di  Roma  fa riferimento a queste due previsioni normative, ma solo a
conferma della affermata irrazionalita' della norma denunciata.
    L'ultima  questione,  sollevata  dalla  sola  Corte di appello di
Perugia,  investe,  "per completezza", in riferimento al principio di
ragionevolezza  (art. 3  Cost.)  nonche'  al diritto del cittadino ad
essere  giudicato  da un giudice indipendente ed imparziale (art. 104
della  Costituzione  e  art. 6  della convenzione europea dei diritti
dell'uomo), l'art. 30-bis del codice di procedura civile, nella parte
in  cui  non prevede che il giudizio incidentale sulla ricusazione di
un giudice della sezione civile della Corte di appello venga devoluto
alla cognizione di un giudice, ugualmente competente per materia, che
ha sede nel capoluogo del distretto determinato ai sensi dell'art. 11
del  codice di procedura penale, allorquando nella sede del distretto
non  vi  sia  altra  "sezione  diversa"  da  quella cui appartiene il
magistrato  ricusato:  situazione che si verificherebbe nel distretto
di  Perugia, presso la cui Corte di appello esistono una sola sezione
penale ed una civile, oltre ad una sezione promiscua della quale sono
stati  o  saranno  chiamati a far parte, anche nel medesimo collegio,
sia  alcuni  dei  giudici  ricusati,  sia  i  componenti del collegio
remittente.
    Quest'ultima  censura  e'  prospettata in termini piu' ampi dalla
parte  privata  (anche, ma irritualmente, nel giudizio promosso dalla
Corte  di  appello  di  Roma,  in  cui  non  e'  sollevata  questione
sull'art. 30-bis  cod. proc. civ.): essa afferma che l'illegittimita'
costituzionale   investirebbe   la   norma   anche   con  riferimento
all'ipotesi  in cui vi sia nella Corte di appello una sezione diversa
da quella cui appartiene il magistrato ricusato, in quanto le ragioni
di  "incompatibilita'"  derivanti  dai  rapporti  di  colleganza e di
frequentazione  sussisterebbero  tra  i  magistrati appartenenti alla
stessa Corte di appello civile.
    2. - Le  questioni  sono  oggettivamente  connesse,  e pertanto i
giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
    3. - Non  e'  fondata  la questione - riferibile all'articolo 53,
primo  comma,  del  codice  di procedura civile, benche' estesa dalla
Corte di appello di Roma anche al secondo comma dello stesso articolo
-  relativa  alla  attribuzione  della  competenza  a  decidere sulla
ricusazione  di  un giudice del tribunale o della Corte di appello al
medesimo collegio cui appartiene il ricusato.
    Il  diritto  ad  un  giudizio  equo  ed imparziale, implicito nel
nucleo   essenziale  del  diritto  alla  tutela  giudiziaria  di  cui
all'art. 24   della   Costituzione,  ed  oggi  espressamente  sancito
dall'art. 111,   secondo  comma,  della  stessa  Costituzione,  sulla
falsariga  dell'art. 6, primo comma, della convenzione europea per la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali,
comporta  certamente che la decisione sulla istanza di ricusazione di
un  giudice - diretta appunto a far valere concretamente quel diritto
-  sia assunta da un organo e secondo procedure che assicurino a loro
volta l'imparzialita' del giudizio.
    La  legge  puo'  provvedere  (come  in effetti provvede) a questo
scopo  in  modi  diversi,  purche' ragionevolmente idonei, componendo
l'interesse   a   garantire   l'imparzialita'   del  giudizio  con  i
concorrenti  interessi  ad  assicurare la speditezza dei processi (la
cui  "ragionevole  durata"  e'  oggetto,  oltre  che  di un interesse
collettivo,  di  un  diritto  di  tutte  le parti, costituzionalmente
tutelato  non  meno  di quello ad un giudizio equo e imparziale, come
oggi  espressamente risulta dal dettato dell'art. 111, secondo comma,
della  Costituzione)  e  la salvaguardia delle esigenze organizzative
dell'apparato  giudiziario. Cio' che non potrebbe comunque ammettersi
e'  che  la  decisione  sulla  ricusazione  sia  rimessa  allo stesso
magistrato  ricusato, o ad un collegio di cui egli faccia parte anche
ai fini di tale decisione. Per questo l'attribuzione - disposta dalla
norma impugnata - della competenza a decidere al "collegio", nel caso
in cui sia ricusato un giudice del tribunale o della Corte di appello
in  sede civile, non puo' che intendersi, secondo una interpretazione
conforme  a  Costituzione  -  d'altronde costantemente adottata dalla
giurisprudenza -,  come attribuzione ad un collegio di cui continuano
a far parte solo i componenti diversi da quello o da quelli ricusati.
    Ma  una  volta  garantito  questo  "minimo",  non  puo' ritenersi
costituzionalmente  necessaria  una  specifica disciplina, fra quelle
prescelte   o  che  possono  essere  prescelte  dal  legislatore.  In
particolare,  non  si  puo' ritenere che la semplice appartenenza del
ricusato  e  dei  giudici  chiamati a decidere sulla ricusazione allo
stesso   collegio  giudicante,  e  tanto  meno  allo  stesso  ufficio
giudiziario  o  alla  stessa sezione del medesimo, costituisca di per
se'  causa  di  compromissione  dell'imparzialita'  dei  decidenti. I
motivi  della ricusazione concernono uno specifico processo, ed uno o
piu'  giudici  individualmente considerati, in relazione a situazioni
specifiche  che  li  riguardano, senza investire gli altri magistrati
che  pur facciano parte dello stesso ufficio e dello stesso collegio,
i  quali dunque conservano una posizione di piena imparzialita' (e il
dovere  corrispondente)  allorquando  siano chiamati a decidere sulla
ammissibilita' e sulla fondatezza della ricusazione medesima.
    Ne'  puo' dirsi che la consuetudine a giudicare a fianco di altri
magistrati, nell'ambito dello stesso ufficio e dello stesso collegio,
costituisca,   di  per  se'  sola,  elemento  tale  da  intaccare  la
imparzialita'  di  chi decide sulla ricusazione di uno dei componenti
di   questo,   sul  presupposto  del  costituirsi  di  una  sorta  di
"solidarieta'  di  collegio".  Ogni singolo componente di un collegio
giudicante  concorre  infatti  alle  decisioni  di  questo  in  piena
indipendenza  anche  rispetto  agli  altri  componenti  dello  stesso
collegio,  nel cui ambito ben possono manifestarsi, e di frequente in
fatto  si  manifestano,  opinioni  diverse:  essendo la collegialita'
precisamente  volta  ad  assicurare  il concorso indipendente di piu'
opinioni,  anche  difformi, al fine della formazione del giudizio, se
del  caso in base a prestabilite regole di maggioranza. La maggiore o
minore  frequenza  con la quale un magistrato si trovi a far parte di
un  collegio insieme a determinati altri magistrati non riduce di per
se'   questa   indipendenza   del   singolo  nell'ambito  dell'organo
collegiale.
    Tutto   cio'   non   toglie   che,  sul  piano  delle  scelte  di
opportunita', il legislatore possa ritenere uno od altro criterio per
la   decisione   sulle  ricusazioni  piu'  o  meno  idoneo  a  meglio
assicurarne  la  correttezza: e va comunque ricordato che l'eventuale
violazione  del  diritto  ad un giudizio imparziale, derivante da una
erronea  decisione  negativa sulla ricusazione, puo' trovare rimedio,
pure  se  si  escluda  l'impugnabilita'  ex se di tale decisione, nel
controllo  sulla  pronuncia  resa  col concorso del giudice ricusato.
Cio'  che,  in  questa  sede,  basta  a  dirimere  la questione e' la
constatazione  che il sistema prescelto dal legislatore del codice di
procedura  civile  non  e'  tale  da  ledere  le  garanzie  minime di
imparzialita' come sopra individuate.
    4. - A  conclusioni diverse non conduce nemmeno la considerazione
di  quanto  prospettato  dalle Corti remittenti circa la possibilita'
che  i giudici chiamati a decidere sulla ricusazione di un collega si
trovino  a  loro  volta  a vedere decisa da questo stesso collega una
ricusazione  promossa,  in altra occasione, nei propri confronti, con
una  sorta  di "irragionevole reciprocita'". La ricusazione e' di per
se'  istituto  volto  a  porre rimedio a situazioni eccezionali e non
fisiologiche,  ne'  di  quotidiana verificazione, che riguardano ogni
volta,  in  concreto,  singoli  procedimenti  e  le rispettive parti.
Inoltre  essa  non  apre  una  controversia  il  cui  oggetto  sia la
contrapposizione  fra  un  diritto  del  ricusante  ed un diritto del
ricusato,  sulla quale si pronunci un altro giudice (controversia che
dovrebbe  allora  avere  uno  sviluppo  processuale autonomo), ma da'
luogo  solo  ad  una incidentale verifica delle condizioni perche' il
processo  si  possa svolgere nelle dovute condizioni di imparzialita'
dei  giudicanti,  in  considerazione  delle specifiche ed eccezionali
circostanze invocate dal ricorrente a sostegno della ricusazione. Non
e'  dunque  ipotizzabile  alcuno  "scambio"  tra ricusazioni diverse,
afferenti  a  processi  diversi  e  fondate sulle ragioni singolari e
specifiche  volta  a  volta  avanzate  dalla  parte  interessata.  La
eventualita'   paventata   dai   remittenti   ha  riguardo  dunque  a
circostanze  di  mero fatto, di per se' inidonee a fondare la censura
mossa alla disciplina legislativa.
    5. - Quanto  si  e' finora osservato conduce a ritenere infondata
la  questione  anche sotto il profilo, pure prospettato dai giudici a
quibus,  dell'affermata  violazione  dei  principi  di  eguaglianza e
ragionevolezza,  in  riferimento  alle  differenze  fra la disciplina
impugnata   e  quella  riservata  dal  legislatore  alla  ricusazione
nell'ambito  del  processo  penale,  in  cui la decisione, quando sia
ricusato  un  giudice  della Corte di appello, e' rimessa ad un'altra
sezione della stessa corte.
    Gia'  si  e'  detto  come  siano  costituzionalmente  ammissibili
diverse  scelte,  purche'  rispettose del principio di imparzialita',
circa  la  competenza  ed  il  procedimento  per  la  decisione sulla
ricusazione.  Il  fatto  che nell'ambito del processo penale - in cui
sono   sistematicamente   in   gioco   beni  costituzionalmente  piu'
"sensibili", e maggiore puo' essere la preoccupazione di attestare in
modo  piu' evidentemente visibile l'imparzialita' dei giudicanti - il
legislatore  abbia  ritenuto di demandare la decisione ad una sezione
diversa  della  stessa  corte non significa che, per cio' solo, possa
ritenersi irragionevole la diversa disciplina del codice di procedura
civile.  A  diversi  processi possono corrispondere, in base a scelte
discrezionali  del  legislatore, discipline differenziate anche degli
stessi istituti, purche' non siano lesi principi costituzionali, come
quello  di  imparzialita',  che debbono reggere tutti i giudizi (cfr.
sentenza  n. 31  del  1998;  ordinanze  n. 326  del 1999 e n. 465 del
2000).  Il  principio  costituzionale  di eguaglianza non comporta il
divieto  di  regolamentazioni  diverse  dei diversi tipi di processo:
anche  "le  soluzioni  per  garantire  un  giusto processo non devono
seguire  linee  direttive necessariamente identiche per i due tipi di
processo"  (sentenza n. 387 del 1999; e cfr. pure sentenze n. 326 del
1997 e n. 51 del 1998).
    Ancor   meno   puo'   valere   il   riferimento,   come   tertium
comparationis,  alla  disciplina  che  l'art. 30-bis  del  codice  di
procedura  civile  dedica  alla  competenza per le cause in cui siano
parti  magistrati. Infatti, come si e' detto, il giudizio incidentale
sulla  ricusazione  non  puo' assimilarsi ad un processo in cui siano
parti  da un lato il ricusante, dall'altro il magistrato ricusato, il
quale viene bensi' "udito" (art. 53, secondo comma, cod. proc. civ.),
al  fine  di raccoglierne le prospettazioni sulle circostanze, che lo
riguardano, addotte dal ricorrente, ma non acquista qualita' di parte
nel  procedimento,  ne' quindi e' chiamato a tutelare in giudizio una
sua posizione soggettiva protetta.
    Non   puo'   dunque   assumersi  come  irragionevole  la  diversa
disciplina che il codice riserva alla competenza a giudicare su cause
nelle  quali  un  magistrato  dello  stesso  distretto  sia  parte, e
rispettivamente  alla  competenza  a decidere sulla ricusazione di un
giudice dello stesso collegio.
    6. - La  questione,  sollevata dalla Corte di appello di Perugia,
circa  la  legittimita' costituzionale della previsione dell'art. 53,
secondo  comma,  del  codice  di  procedura  civile,  ai cui sensi il
collegio decide sulla ricusazione "con ordinanza non impugnabile", e'
inammissibile, in quanto priva del requisito della rilevanza.
    La  soluzione  del  dubbio  avanzato non e' infatti in alcun modo
necessaria   ai  fini  del  giudizio  incidentale  sulla  ricusazione
demandato  al  collegio  remittente,  ma  assumerebbe  rilevanza solo
nell'eventuale  giudizio  di  impugnazione che venisse promosso, e la
cui  ammissibilita' sarebbe condizionata alla eventuale dichiarazione
di  illegittimita'  costituzionale della norma impugnata, nella parte
in  cui  esclude  l'impugnazione  (cfr.  sentenza  n. 336  del  1995;
ordinanze n. 13 del 1990 e n. 337 del 1994).
    7. - E' invece ammissibile la questione, anch'essa proposta dalla
Corte  di appello di Perugia, concernente l'art. 54, terzo comma, del
codice  di  procedura  civile, ai cui sensi l'ordinanza, che dichiara
inammissibile  o  rigetta  la  ricusazione,  "condanna  la parte o il
difensore  che  l'ha  proposta  a una pena pecuniaria non superiore a
lire ventimila".
    La rilevanza della questione puo' ritenersi attuale, in quanto la
Corte  di  appello  procedente  e' chiamata ad emettere una pronuncia
che, nel caso di dichiarazione di inammissibilita' o di rigetto della
ricusazione, dovrebbe necessariamente contenere la condanna alla pena
pecuniaria, condanna che non potrebbe essere oggetto di una pronuncia
autonoma e successiva. Ne' potrebbe richiedersi che il giudice a quo,
nel  sollevare la questione pregiudiziale rispetto alla pronunzia che
e'  chiamato  a  rendere,  debba  anticipare il proprio convincimento
circa  il  merito  della ricusazione e la sussistenza delle eventuali
condizioni  che potrebbero condurre ad escludere l'applicazione della
pena  pecuniaria,  poiche'  tale  convincimento,  correttamente, puo'
trovare  espressione  solo  nella  pronuncia  sulla  ricusazione, che
d'altra  parte,  se di contenuto negativo, non potrebbe, in base alla
norma vigente, non applicare la sanzione.
    8. - La questione, cosi' ritenuta ammissibile, e' fondata.
    La  norma  impugnata  consente,  contrariamente  a quanto dedotto
dalla  Corte remittente, una eventuale graduazione dell'importo della
pena  pecuniaria,  sia  pure  nei  limiti della modesta somma massima
stabilita,  dovendo la pena stessa essere "non superiore" (ma potendo
essere, invece, inferiore) a detta somma.
    Ma  cio'  che  il  giudice  non  potrebbe mai fare e' omettere la
condanna.
    Tale  rigido  automatismo sanzionatorio non consente di derogarvi
nemmeno  nel  caso  -  che non si puo' a priori escludere - in cui la
ragione della inammissibilita' o della infondatezza della ricusazione
non  fosse percepibile dal ricusante all'atto della presentazione del
ricorso.
    Deve  dunque  valere,  qui,  la  stessa  ratio  decidendi  che ha
condotto  la  Corte,  nella  sentenza  n. 186  del 2000, a dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 616 del codice di procedura
penale  nella  parte  in cui non prevedeva che la Corte di cassazione
possa  non  pronunciare  la  condanna  in  favore  della  cassa delle
ammende,  nell'ipotesi del ricorso dichiarato inammissibile, a carico
della  parte  privata  che non versasse in colpa nella determinazione
della causa di inammissibilita'.
    Infatti,   pur   non   essendo  la  previsione  di  una  sanzione
pecuniaria,   collegata   alla  reiezione  del  ricorso  e  intesa  a
scoraggiare  l'abuso  o  l'uso  temerario  o  puramente dilatorio del
potere,  di  per  se' in contrasto con l'assolutezza del diritto alla
tutela  giudiziaria,  garantito dall'art. 24 della Costituzione (cfr.
sentenza  n. 69  del 1964) - di cui il potere della parte di proporre
la   ricusazione,  a  tutela  del  proprio  diritto  ad  un  giudizio
imparziale,  costituisce  esplicazione  -,  l'accedere della condanna
sempre    e    necessariamente    alla    reiezione    del   ricorso,
indipendentemente  dalle  circostanze del caso concreto, apprezzabili
dal giudice, comporta una irragionevole compressione di tale diritto,
in  contrasto  con  il  principio  di eguaglianza. Si viene infatti a
trattare  allo  stesso modo, sotto il profilo dell'applicazione della
sanzione,   la   posizione   di   chi   ha  proposto  la  ricusazione
ragionevolmente  fidando nella sua ammissibilita' e nella sussistenza
delle ragioni su cui essa si fondava, e quella del ricorrente che non
versi in tale situazione (cfr. sentenza n. 186 del 2000). Sono dunque
violati gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
    L'eliminazione   dell'automatismo   comporta   l'attribuzione  al
decidente  del potere di apprezzare, nel caso concreto, se sussistano
le  condizioni  per  escludere la condanna alla pena pecuniaria, o se
invece la stessa debba trovare applicazione: e dunque alla necessita'
della  condanna,  attualmente  prevista, si deve sostituire il potere
del  giudice  di applicarla, apprezzando le eventuali circostanze del
caso concreto che la rendano ingiustificata.
    9. - E'  inammissibile  la  questione,  sollevata  dalla Corte di
appello  di  Perugia,  avente  ad  oggetto l'art. 30-bis (Foro per le
cause  in  cui sono parti magistrati) del codice di procedura civile,
nella  parte  in  cui  non  prevede che il giudizio incidentale sulla
ricusazione di un giudice della sezione civile della Corte di appello
venga  devoluto  alla cognizione di un giudice, ugualmente competente
per  materia,  che  ha  sede nel capoluogo di un diverso distretto di
Corte  di  appello,  determinato  ai sensi dell'art. 11 del codice di
procedura  penale,  allorquando  nella  sede del distretto non vi sia
altra  "sezione  diversa"  da  quella  cui  appartiene  il magistrato
ricusato.
    La  norma  dell'art. 30-bis  e'  evocata  dalla  Corte remittente
anzitutto  come tertium comparationis (peraltro improprio, come si e'
detto) per censurare la diversa disciplina dell'art. 53, primo comma,
del  codice  di  procedura  civile,  applicabile alla decisione sulla
ricusazione:  ma  e'  pacifico,  per  ammissione  anche  dello stesso
rimettente,  che essa non trova applicazione nel giudizio incidentale
sulla   ricusazione,   onde   la   questione  difetta  di  rilevanza.
Quest'ultima e' affermata dal giudice a quo "nel caso di accoglimento
della  questione  di  costituzionalita'  del combinato disposto degli
artt. 53  e  54  cod.  proc.  civ.",  evidentemente  nel  presupposto
implicito  - pur non risultante chiaramente dalla configurazione data
dal  remittente  a  tale  ultima questione - che in luogo delle norme
oggi   vigenti   debba   risultare   applicabile   alla   fattispecie
l'art. 30-bis  medesimo.  Non verificandosi tale presupposto, data la
dichiarazione  di non fondatezza della predetta questione, la carenza
di rilevanza di questa ulteriore censura appare comunque palese.
    Tale  irrilevanza  esime  la  Corte - a prescindere da ogni altra
considerazione  sui  limiti  della  questione  proposta  dalla  Corte
remittente  -  dal prendere in esame la prospettazione avanzata dalla
parte    privata,   secondo   cui   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 30-bis  cod. proc. civ. sussisterebbe anche con riferimento
all'ipotesi  in  cui vi sia nella Corte di appello una sezione civile
diversa da quella cui appartiene il magistrato ricusato.