IL TRIBUNALE

    Nella  causa  iscritta  al  n. 812  dell'anno  1998 del r.g.a.c.,
introdotta  dalla  Curatela del Fallimento Parco dei Faggi S.r.l. nei
confronti  di Galassi Monica, letti gli atti e sciogliendo la riserva
del 6 novembre 2001 ha pronunciato la seguente ordinanza.
    E'  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 281-ter  c.p.c.  in relazione
agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

    1.  -  La  Curatela  del  Fallimento  Parco  dei  Faggi S.r.l. ha
avanzato  domanda  di risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 2394
c.c.,  per  asserita responsabilita' della convenuta, Galassi Monica,
nell'espletamento della carica di amministratore unico della medesima
societa' relativamente al periodo 26 ottobre 1995-20 marzo 1997, data
quest'ultima  in  cui  e' stato dichiarato il fallimento della stessa
compagine sociale.
    La   convenuta,  regolarmente  citata  in  giudizio,  e'  rimasta
contumace.
    Parte  attrice,  esponendo  i  fatti  a  fondamento della propria
pretesa,  ha  tra  l'altro  fatto  riferimento  ad alcune circostanze
riferite  al  curatore  fallimentare  dal  sig.  Fabio Nulli, custode
dell'immobile  di  proprieta'  della  societa' fallita, che rivestono
decisiva importanza ai fini del decidere.
    In particolare, il sig. Nulli ha riferito al curatore in merito:
        a)  alla  consistenza  degli arredamenti e delle attrezzature
aziendali   che   sarebbero   stati  consegnati  alla  convenuta  dal
precedente amministratore;
        b) alla cessazione di ogni attivita' economica e di qualsiasi
attivita'  di  custodia  dei  beni  aziendali da parte della medesima
Galassi a partire dal mese di aprile del 1996;
        c)  infine,  alla  perpetrazione  di  furti  a  discapito del
patrimonio  aziendale ad opera di terzi sconosciuti successivamente a
quest'ultima data.
    Si  tratta,  a  ben vedere, di circostanze di fatto che rientrano
nel  thema decidendum, sia per quanto concerne la dimostrazione delle
condotte  di  responsabilita',  sia per la esatta quantificazione dei
danni causati.
    Essendo  gia'  maturate  le  preclusioni  istruttorie, alla parte
attrice   non   e'   consentito   di  articolare  la  suddetta  prova
testimoniale,  per cui sarebbe necessario poter disporre d'ufficio la
prova  per  testi  del  sig.  Fabio Nulli sulle circostanze da questi
riferite al curatore del fallimento ed allegate dalla parte attrice.
    Tuttavia,  l'art. 281-ter consente la suddetta prova testimoniale
d'ufficio  solo nei procedimenti davanti al Tribunale in composizione
monocratica (non essendovi spazio per una interpretazione che conduca
alla  applicazione della norma de qua anche alle cause riservate alla
decisione  collegiale),  mentre  nel  caso  di specie, trattandosi di
causa di responsabilita' promossa contro un amministratore di S.r.l.,
la  controversia  deve  essere  decisa  dal Tribunale in composizione
collegiale   (v.  art. 48,  secondo  comma,  n. 7,  ord.  giud.  R.D.
n. 12/41,  norma questa applicabile alla presente causa, che e' stata
introdotta  prima  del 2 giugno 1999, in virtu' della disposizione di
cui all'art. 135, lett. b, ultima parte, d.lgs. n. 51/1998).
    A  parere  di  questo  giudice, e' rilevante e non manifestamente
infondata     la    questione    di    legittimita'    costituzionale
dell'art. 281-ter,  in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione
nella  parte  in  cui  non  prevede  che  il giudice istruttore possa
disporre  d'ufficio la prova testimoniale prevista dalla disposizione
impugnata anche nelle cause riservate alla decisione collegiale.

    2.  -  Il  nuovo  articolo 281-ter, a tenore del quale il giudice
puo'   disporre   d'ufficio  la  prova  testimoniale  formulandone  i
capitoli,  quando  le  parti  nella  esposizione  dei  fatti  si sono
riferite  a persone che appaiono in grado di conoscere la verita', e'
stato  introdotto  dal  d.lgs.  n. 51/1998  ed e' entrato in vigore a
partire dal 2 giugno 1999.
    E'  bene  anzi  tutto  precisare, ai fini della dimostrazione del
requisito  della  rilevanza  della  questione  in esame, che la norma
suddetta  e'  applicabile  anche  ai procedimenti pendenti davanti al
Tribunale  alla  data di efficacia del menzionato decreto legislativo
(2  giugno  1999)  con riferimento ai quali, come nel caso di specie,
non  siano  gia'  state  precisate  le  conclusioni (art. 135, d.lgs.
n. 51/1998).
    Cio'  chiarito,  occorre  dire  che la disposizione impugnata non
costituisce  una  novita'  assoluta  all'interno  del  nostro sistema
processuale,  in  quanto  la  stessa  altro non e' che una riedizione
dell'art. 312,  come  modificato  dalla  legge n. 374/1991 (che aveva
sostituito  la parola giudice di pace a quella di conciliatore). Tale
norma,  contenuta originariamente nell'art. 317, aveva le sue origini
nei progetti, preliminare e definitivo, Solmi (artt. 318 e 335).
    Attualmente,   pertanto,   e   questa  e'  la  vera  novita',  la
disposizione   de  qua  riguarda  tutti  i  procedimenti  davanti  al
Tribunale  in  composizione  monocratica, oltre che quelli davanti al
giudice di Pace (in virtu' del richiamo contenuto nell'art. 311), con
esclusione   dei   procedimenti   relativi  a  cause  spettanti  alla
cognizione del collegio.
    Quest'ultima  limitazione  e'  da  ricondurre  ai limiti previsti
dalla  legge  delega  n. 254/1997,  che escludeva la estensione delle
norme pretorili alle cause spettanti alla decisione collegiale.

    2.1. - Ora, ai fini soprattutto della dimostrazione del requisito
della  rilevanza  della  questione in oggetto, va rilevato come poche
norme  come quella in esame abbiano provocato interpretazioni diverse
riguardo  la  misura dell'esercizio del potere discrezionale da parte
del giudice.
    Non  puo'  dubitarsi,  anzi  tutto,  della sussistenza del doppio
limite derivante, rispettivamente, dal divieto di utilizzazione della
scienza  privata del giudice e dal principio di allegazione: per cui,
da  un  lato  il  giudice  non  puo'  disporre  la prova testimoniale
d'ufficio  con  riferimento  a fatti o a fonti di prova che non siano
gia'  acquisiti  al  processo,  dall'altro  puo' deferire la medesima
prova  solo  se  le  parti  si  siano riferite, nella esposizione dei
fatti, a persone in grado di conoscere la verita'.
    Ebbene,  nel  caso  di specie, la parte attrice ha esplicitamente
fatto  riferimento  in  sede  di atto di citazione alle dichiarazioni
rese  al  curatore  dal  sig. Fabio Nulli, per cui non e' ravvisabile
alcuna possibilita' di violazione dei limiti suddetti.
    L'ulteriore    questione    relativa    allo   spazio   operativo
dell'art. 281-ter  e'  direttamente  collegata ad un limite per cosi'
dire  temporale,  ci  si chiede cioe' se il giudice debba disporre la
prova  prima  del maturare delle preclusioni istruttorie ovvero se lo
stesso  potere  officioso  debba  ritenersi esercitatile in qualunque
momento del processo.
    A sommesso avviso di questo giudice, e' da preferire quest'ultima
tesi,  che e' quella oltre tutto che ha riscosso maggiori consensi in
ambito  dottrinale e giurisprudenziale: depone, infatti, in tal senso
sia  la  considerazione  legata  al fatto che il potere in esame deve
essere  inteso  quale  potere-dovere che va esercitato dal giudice in
via  residuale  rispetto alle iniziative probatorie di parte, al fine
di   evitare   la   meccanica   applicazione   della  regola  formale
dell'art. 2697  c.c.  (per  cui  tale valutazione potra' essere fatta
solo  quando  siano gia' maturate le preclusioni istruttorie), sia in
relazione   alla   previsione   di  cui  all'art. 184,  ultimo  comma
(disposizione  da  ritenere  applicabile  nel  caso  di esercizio del
potere  officioso ex art. 281-ter), previsione che avrebbe poco senso
ove  si  ritenesse  ammissibile la prova d'ufficio solo in un momento
anteriore  al  maturare  delle  preclusioni  istruttorie in capo alle
parti.
    Nel  caso  di  specie,  pertanto,  pur  essendo  gia' maturate le
preclusioni  istruttorie  e non essendo stata ancora la causa rimessa
al collegio per la decisione, ben potrebbe questo giudice disporre la
prova testimoniale ai sensi dell'art. 281-ter.
    Occorre,  poi,  esaminare  la  questione forse piu' controversa e
relativa  alla  portata applicativa della norma appena citata, vale a
dire  quella  collegata  all'indagine  sul  metro per l'esercizio del
potere  del  giudice,  secondo  un'efficace espressione utilizzata in
dottrina.
    A  parere di questo giudice, merita condivisione la ricostruzione
che  confina  l'esercizio  di  tale  potere entro un doppio limite in
positivo  ed  in  negativo,  nel  senso  che,  tutte le volte che gli
elementi istruttori acquisiti al processo consentono la ricostruzione
del  fatto  rilevante, il potere d'ufficio del giudice deve ritenersi
non  spendibile,  mentre  tutte  le  volte che il fatto da provare e'
rimasto incerto, il giudice deve spendere i poteri officiosi, al fine
di  evitare  la  meccanica  applicazione  della regola formale di cui
all'art. 2697   codice   civile.  Con  l'ulteriore  precisazione  che
l'incertezza  del  fatto rilevante potra' dipendere dall'acquisizione
in  giudizio  di  un  quadro  indiziario  non connotato dei requisiti
prescritti  dall'art. 2729  c.c.  ovvero  dalla incertezza sul valore
probatorio  da  attribuire  a determinati elementi di prova (si pensi
soprattutto  alle incertezze circa l'efficacia delle prove atipiche),
incertezza,  infatti, che potrebbe aver indotto una parte a confidare
sulla  sufficienza  delle  prove  gia'  entrate  nel  processo, cosi'
omettendo di chiedere la prova testimoniale del terzo.
    Ebbene,  nel  caso  di specie, essendo le dichiarazioni del Nulli
contenute  nella relazione redatta dal curatore ai sensi dell'art. 33
l.f.,  e'  prospettabile  una delle situazioni appena evidenziate, in
quanto   la   questione  dell'efficacia  probatoria  della  relazione
suddetta ha registrato posizioni diverse sia in ambito dottrinale sia
in  quello  giurisprudenziale  (secondo  una prima tesi, alcune parti
della relazione farebbero prova fino a querela di falso, mentre altre
varrebbero solo come prova indiziaria; secondo un altro orientamento,
alla   relazione  non  potrebbe  mai  essere  riconosciuta  efficacia
probatoria  sino  a  querela  di  falso,  ma  solo  valore  di  prova
indiziaria;  infine,  secondo  un  terzo  orientamento  la  relazione
prodotta  in  giudizio  non costituirebbe mai prova dei fatti in essa
affermati).
    Proprio  tale  incertezza  di  opinioni  puo' aver condotto parte
attrice,  aderendo  alla teoria piu' permissiva, a ritenere superflua
la prova testimoniale del terzo in quanto ascoltato dal curatore.
    Deve,  tuttavia,  ritenersi che le dichiarazioni rese da un terzo
al  curatore  e  riportate  nella  relazione prodotta in giudizio non
possano  avere  l'efficacia  di  una  testimonianza,  non  foss'altro
perche'   sarebbe  violato  il  principio  del  contraddittorio  (per
l'esclusione  del  valore  di prova testimoniale, v. Corte di Appello
Firenze, 6 febbraio 1963).
    Pertanto,  nel  caso  di  specie,  ricorrerebbero  certamente gli
estremi   per   l'esercizio   del   potere   discrezionale   di   cui
all'art. 281-ter,  posto  che  tale  esercizio  avverrebbe nel giusto
contesto  di  equilibrio  sottinteso dalla norma citata, e non gia' a
discapito  di  una  parte  ed  a vantaggio dell'altra con conseguente
violazione del principio di terzieta' del giudice.
    Diversamente,  ove  cioe' non si ammettesse l'esperibilita' della
prova d'ufficio de qua, le circostanze di fatto riferite dal terzo al
curatore  non  potrebbero  ritenersi sufficientemente dimostrate, per
cui  la  questione  in  esame  e'  certamente rilevante ai fini della
decisione.

    2.2.  -  In  punto di legittimazione da parte di questo giudice a
sollevare la questione, deve evidenziarsi che la Corte costituzionale
ha  affermato  che  il  giudice istruttore puo' proporre questioni di
legittimita'  costituzionale  relativamente a norme di cui egli debba
fare  applicazione  per l'emanazione di provvedimenti attribuiti alla
sua  competenza  (v.  sentt.  n. 84  del  1996; n. 278 del 1994; ord.
n. 199 del 1990).
    Secondo  la  disciplina  vigente, nei procedimenti di primo grado
pendenti davanti al Tribunale e riservati alla cognizione collegiale,
la  decisione  sulla  ammissibilita'  e  sulla rilevanza dei mezzi di
prova  spetta al giudice istruttore, il quale dispone anche d'ufficio
i  mezzi  di prova nei casi espressamente previsti dalla legge (fatta
eccezione  per l'ipotesi del giuramento che puo' essere deferito solo
dal  collegio),  senza  che l'ordinanza istruttoria possa piu' essere
oggetto  di  reclamo  davanti  al  collegio (ne' e' piu' possibile la
rimessione  istruttoria  ex  art. 187, quarto comma), anche se rimane
ferma   la   possibilita'  per  il  giudice  collegiale  di  riaprire
l'istruzione dopo una rimessione totale ai sensi dell'art. 188 e/o di
disporre  la  rinnovazione  delle  prove davanti a se', come previsto
dall'art. 281.
    Proprio  dalla  esplicita  riserva  di  collegialita'  in caso di
deferimento  d'ufficio  del  giuramento  (v.  artt. 237,  240 e 241),
riserva  non prevista per gli altri casi di mezzi di prova esperibili
d'ufficio  (v.  artt. 118,  213,  257),  si  evince  con ragionamento
contrario  che  il  potere  officioso,  nelle  cause  riservate  alla
decisione  collegiale,  puo' essere esercitato dal giudice istruttore
purche'  prima  della  rimessione  al collegio, cio' perche' la legge
n. 353/1990,  nel  conservare la distinzione tra giudice istruttore e
collegio,  ha  optato  per il riconoscimento in capo al primo di ogni
potere   nel  corso  delle  fasi  processuali  di  trattazione  e  di
istruzione.
    Infatti,  l'esclusione dei poteri istruttori officiosi in capo al
giudice  istruttore  nelle  ipotesi  di deferimento del giuramento si
giustifica  in  relazione  alla natura di prova legale dello stesso e
quindi  alla  predeterminazione  in  astratto della sua efficacia con
conseguente   limitazione   del   libero  apprezzamento  del  giudice
(collegiale)  in  sede  di decisione; mentre gli altri mezzi di prova
esperibili  d'ufficio, tra cui la prova testimoniale ex art. 281-ter,
appartenendo  alla  categoria  delle  prove  libere,  non prospettano
un'analoga esigenza, per cui non vi e' motivo di sottrarre al giudice
istruttore  i normali poteri che il sistema gli attribuisce nel corso
delle fasi processuali anteriori alla decisione.
    Alla  luce  di  tale  premessa, considerato che in questa sede si
rivendica  il  potere del giudice istruttore di disporre d'ufficio la
prova  testimoniale ex art. 281-ter, soltanto questi e' legittimato a
sollevare  la  questione  de  qua,  giacche' diversamente non sarebbe
ravvisabile la legittimazione di altro giudice a proporre la medesima
questione (v., a tal proposito, Corte cost. sent. n. 278 del 1994).
    Ne',  sotto  altro  profilo,  difetta  la  possibilita' di questo
giudice  istruttore  di  fare  applicazione  della  norma relativa al
dubbio  di  costituzionalita' a seguito della fase in cui si trova il
processo   (v.  Corte  cost.  sent.  451  del  1993),  posto  che  il
procuratore di parte attrice non e' stato ancora invitato a precisare
le  conclusioni  e quindi la causa non e' stata ancora rimessa per la
decisione al collegio.

    3. - Risolte in tal senso le questioni preliminari di rilevanza e
di  legittimazione,  si  ritiene  che  l'attuale  disposizione di cui
all'art. 281-ter  contrasti  con  l'art. 3  della Costituzione, ed in
particolare  con  il  parametro  della  ragionevolezza desumibile dal
principio di uguaglianza.
    E'  condivisibile  la  posizione  della dottrina, secondo cui con
l'introduzione  dell'art. 281-ter,  a  differenza  di quanto accadeva
dopo la riforma del 1990, la diversita' di composizione tra tribunale
monocratico  e  tribunale collegiale ha determinato una diversita' di
rito,  di  particolare  significato  proprio  in  punto di iniziativa
istruttoria  d'ufficio, posto che la prova testimoniale e' deferibile
solo dal giudice istruttore in funzione di giudice unico.
    La  questione  sta pertanto nello stabilire se tale diversita' di
rito  possa  giustificare  a priori l'esclusione del potere ufficioso
nei  procedimenti  davanti  al  Tribunale in composizione collegiale,
ovvero   se   quest'ultima  esclusione  debba  comunque  trovare  una
razionale  giustificazione  per  non  incorrere  nella violazione del
principio di uguaglianza.
    La   Corte  costituzionale  ha  piu'  volte  affermato  la  piena
legittimita' di sistemi processuali diversi da quelli ordinari (v. la
sent.  n. 94/1973,  in  cui ha ribadito che le norme del procedimento
ordinario non sono le sole che assicurino la tutela giurisdizionale),
cosi' come ha ammesso la possibilita' di differenze di disciplina tra
i vari processi ordinari.
    Tuttavia,  il dato che emerge dalle varie pronunce della Corte e'
che  le diversita' di disciplina in materia di processi ordinari sono
consentite se hanno una razionale giustificazione.
    E'   stato   giustamente  osservato  che  la  Corte  non  avverte
l'esigenza  di  fissare  il livello minimo che caratterizza il giusto
processo,  quasi  dando per scontato che tale livello sia attinto dal
nostro  processo ordinario, preoccupandosi invece di trovare se siano
ragionevoli le ulteriori limitazioni.
    Il   potere  officioso  ex  art. 281-ter  deve  essere  letto  in
relazione al principio di disponibilita' desumibile dall'art. 115, in
particolare  il primo si configura come una delle possibili eccezioni
contemplate dall'incipit della norma richiamata da ultimo.
    In   ambito   dottrinale,  sono  state  proposte  interpretazioni
differenti   circa   l'esigenza   presupposta   dal  principio  della
disponibilita'  della prova, avendo taluni fornito un'interpretazione
in  senso  processuale,  sostenendo  che  lo stesso risponderebbe sia
all'esigenza di garantire la posizione di terzieta' del giudice sia a
quella piu' pratica consistente nella osservazione che nessuno meglio
delle  parti  conosce  i  fatti della causa ed i mezzi che ne possono
dare la prova, mentre secondo altri il principio de quo costituirebbe
il  mero riflesso del carattere privato degli interessi coinvolti nel
processo  civile,  finendo  cosi' per impostare il problema sul piano
sostanziale piu' che su quello processuale.
    Ma  le  motivazioni  che  hanno  via via indotto il legislatore a
derogare  al  principio  della  disponibilita'  non  sono  facilmente
riconducibili  nell'ambito di una categoria unitaria. Cosi', gli ampi
poteri  istruttori  previsti  nel processo del lavoro si giustificano
sia  in  considerazione  del fatto che le preclusioni istruttorie, in
tale giudizio, maturano sin dai primi atti di parte, sia in relazione
al   carattere   indisponibile   o  semidisponibile  degli  interessi
coinvolti  nello  stesso processo; in altri casi, i poteri istruttori
d'ufficio  non  si  possono  certamente giustificare con il carattere
indisponibile    dell'interesse   protetto   (v.   artt. 213,   257);
diversamente,  proprio  nell'assoluta indisponibilita' dell'interesse
oggetto del giudizio di cui agli artt. 414 e segg. c.c. e 712 e segg.
c.p.c.   deve  individuarsi  la  giustificazione  degli  ampi  poteri
istruttori concessi al giudice (v. artt. 419 c.c. e 714 c.p.c.).
    Ora,  volendo  circoscrivere  il  campo  di  indagine  al  potere
istruttorio  di  cui  all'art. 281-ter, debbono esaminarsi le ragioni
che  mossero  il  legislatore  del  1940  ad introdurre nel codice la
disposizione   in  esame  (art. 317  gia'  citato).  Dalla  Relazione
ministeriale  a  quel  codice  si  evince  che  i poteri piu' ampi di
iniziativa  istruttoria  riconosciuti  al  giudice  nei  procedimenti
dinanzi  al  pretore  ed  al conciliatore (art. 317) e, in modo anche
piu'  deciso,  nelle  controversie  di  lavoro  (art. 439), trovavano
giustificazione  sia nella particolare natura dell'interesse non solo
privato di quest'ultime cause, sia nel fatto che nelle cause di minor
valore,  in  cui  sono  in  giuoco  gli  interessi dei cittadini meno
abbienti e meno colti, era opportuno che il giudice si avvicinasse ad
essi  per  supplire  con  piu' larghi poteri alla loro inesperienza e
alla  minor  facilita'  che  essi  avevano  di giovarsi dell'opera di
validi   difensori.   Dunque,   l'originaria  previsione  del  potere
probatorio   de   quo  sembra  potersi  relegare  in  una  dimensione
politico-sociale, come e' stato autorevolmente osservato in dottrina.
    E'  di tutta evidenza che, con l'ampliamento della competenza per
valore  del  pretore  sino  a  cinquanta  milioni,  la  disparita' di
trattamento  tra  giudizio  pretorile e giudizio dinanzi al Tribunale
aveva  finito  per  risultare sempre piu' discutibile, in conseguenza
del  fatto  che  la  categoria  delle cause pretorili non poteva piu'
farsi coincidere con quella di natura per cosi' dire bagatellare.
    A  seguito  della  riforma  adottata con il d.lgs. n. 51/1998, la
possibilita'  di  disporre  d'ufficio  la prova testimoniale ai sensi
dell'art. 281-ter  e' prevista per ogni tipo di processo ordinario di
primo  grado  pendente  davanti  al Tribunale o al giudice di pace, a
prescindere dal valore della causa, fatta eccezione soltanto per quei
procedimenti  che,  in via eccezionale, sono riservati alla decisione
del  collegio. (E la considerazione potrebbe essere estesa anche alla
ipotesi  del  rito  del  lavoro,  il  quale  - secondo certi autori -
essendo  inserito nel libro II del codice di rito, dovrebbe ritenersi
comunque  un  rito  ordinario  da  tenere  distinto  dai procedimenti
speciali  di  cui  al  libro  IV:  rito  del  lavoro  in cui la prova
testimoniale  d'ufficio  e'  persino prevista in termini piu' ampi ex
art. 421;    nonche',   in   virtu'   della   disposizione   di   cui
all'art. 447-bis, terzo comma, anche al c.d. rito locatizio).
    A sommesso avviso di questo giudice, mentre prima dell'entrata in
vigore  del  d.lgs. n. 51 del 1998 la differenza di disciplina poteva
ancora trovare spiegazione nell'esigenza politico-sociale di trattare
diversamente  le  cause  di valore piu' contenuto, in quanto esisteva
comunque  una  competenza  per  valore,  sia pure elevata a cinquanta
milioni,   che   poteva  ritenersi  come  il  discrimine  voluto  dal
legislatore  per distinguere i due riti, con l'estensione della norma
di  cui  all'art. 281-ter ad ogni causa pendente davanti al Tribunale
in   composizione   monocratica,   ivi   comprese  quelle  di  valore
indeterminabile,  una  tale giustificazione deve ritenersi esclusa in
radice.
    Infatti,  una  volta introdotto il potere del giudice di disporre
d'ufficio  la  prova  testimoniale  all'interno  della disciplina del
modello   ordinario   di   processo  a  cognizione  piena  (e  quindi
applicabile anche alle cause di valore indeterminabile), la ratio del
medesimo  potere  officioso  non  puo'  certo piu' individuarsi nella
giustificazione  di  natura  politico-sociale  poc'anzi  evidenziata:
diversamente, infatti, non si comprenderebbe perche' mai - ad esempio
-  una  causa  in  materia  di  concorrenza  sleale  tra  imprese con
richieste   risarcitorie   miliardarie  (di  competenza  monocratica)
dovrebbe   essere   ritenuta   piu'   meritevole  della  possibilita'
dell'iniziativa   istruttoria   officiosa   rispetto   ad  una  causa
risarcitoria  proposta  nei  confronti  di  un  amministratore di una
societa' (come e' nella specie) magari di valore modesto.
    Invero,  deve  affermarsi che, con la novella del legislatore del
1998,  la  ratio  dei  poteri  istruttori ex art. 281-ter non ha piu'
nulla  a che vedere con la motivazione politico-sociale suddetta, per
cui occorre cercarla altrove.
    Gia'  in  sede  di  approvazione  del  progetto  definitivo Solmi
(art. 335)  si  sostenne che il potere di disporre d'ufficio la prova
testimoniale  certamente  si  manifestava  utile nell'interesse della
giustizia  nell'ipotesi  in  cui  le  parti non avessero chiesto tale
prova per dimenticanza o per l'erroneo convincimento che gli elementi
di prova dedotti o gia' acquisiti fossero risultati sufficienti e che
in  cio'  dovesse  quindi  rinvenirsi  la ragionevole giustificazione
della norma (Corte di Appello di Palermo, rel. Cons. Martorana).
    A  sommesso  avviso di questo giudice, merita condivisione quanto
sostenuto  da  certa  parte  della  dottrina,  vale  a  dire  che  le
iniziative    istruttorie    d'ufficio,    come    quella    prevista
dall'art. 281-ter,  rispondono sempre all'interesse pubblico a che si
formi una decisione giusta.
    Ma  la  ricostruzione  in tal senso del fondamento della norma in
esame,   non   conduce   ad   una   diversa   conclusione   circa  la
irragionevolezza  della  esclusione  del  medesimo potere istruttorio
d'ufficio  nelle cause riservate alla decisione collegiale, posto che
il  medesimo  interesse pubblico e' ravvisabile tanto nell'uno quanto
nell'altro tipo di causa.
    Anzi,  come del resto osservato da certa parte della dottrina, se
si  individua  la  ragione  giustificatrice della disposizione de qua
nell'interesse  della  giustizia a che si formi una decisione giusta,
si  finisce per dare risalto alla notevole incongruenza della vigente
disciplina  che  ha  escluso  il  potere  officioso proprio in talune
controversie  in  cui il carattere pubblicistico e' evidenziato dalla
necessaria  partecipazione  al giudizio del PM (v. art. 50-bis, primo
comma, n. 1).
    Deve,  infatti, ulteriormente affermarsi che molte delle cause di
cui   all'attuale   art. 50-bis,   (che   ha   ripreso,  con  qualche
modificazione, la disposizione di cui all'art. 48 R.D. n. 12/41) sono
quelle   in   cui   il   confine  tra  interesse  privato/pubblico  o
disponibile/indisponibile e' spesso evanescente.
    Ne'  puo'  obiettarsi  che  nei procedimenti in cui e' necessario
l'intervento  del  PM debba essere questa parte a tutelare le ragioni
di  rilevanza pubblicistica con conseguente esclusione di ogni potere
istruttorio da parte del giudice, posto che in taluni procedimenti in
cui  e'  necessario  l'intervento  del  PM il legislatore ha previsto
proprio  specifici  poteri  istruttori  officiosi  (vedi il potere di
disporre  indagini  sui redditi nelle cause divorzili ex art. 5 legge
n. 898/1970;  vedi  ancora  gli  ampi poteri istruttori in materia di
giudizi  di interdizione ex artt. 419 c.c. e 714 c.p.c. ed in materia
di  dichiarazione  dello  stato  di  adottabilita'  ex  art. 10 legge
n. 184/1983).
    Inoltre, non puo' ritenersi che l'esclusione del potere officioso
in esame sia la conseguenza di una scissione tra fase istruttoria, di
competenza  del  giudice  istruttore,  e  fase decisoria spettante al
collegio: invero, l'iniziativa istruttoria prevista dall'art. 281-ter
sarebbe  perfettamente  compatibile  con  la  struttura  del processo
davanti   al  Tribunale  in  composizione  collegiale  per  tutte  le
considerazioni gia' sviluppate in precedenza, dovendosi ulteriormente
osservare  in  questa  sede  che  la  riserva  di collegialita' trova
giustificazione  nell'esigenza di assicurare maggiore ponderazione in
sede di decisione di controversie particolarmente complesse, sotto il
profilo delle questioni giuridiche interessate, ovvero di particolare
rilevanza sociale; ma la cognizione collegiale e' stata esclusa dallo
stesso   legislatore   per   la   fase   istruttoria:   per   cui  la
discriminazione  in  materia  di esperibilita' dei mezzi di prova non
puo'   ricollegarsi   all'esigenza   sottintesa   dalla   riserva  di
collegialita'.
    A  conferma  di  quest'ultima  affermazione,  deve richiamarsi la
previsione  legislativa  in merito ai poteri istruttori d'ufficio nei
giudizi   di  interdizione  e  di  inabilitazione:  pur  trattandosi,
infatti,  di  cause  riservate per la decisione al collegio, gli ampi
poteri  istruttori officiosi sono dalla legge attribuiti espressamene
al  giudice  istruttore  (v.  art. 714  c.p.c. e 419 c.c.), da cui si
desume che la riserva di collegialita' ha una sua ratio specifica che
opera   soprattutto  in  sede  decisionale  e  che  di  per  se'  non
costituisce alcuna valida giustificazione alla limitazione dei poteri
officiosi del giudice istruttore.
    In  definitiva,  deve affermarsi che, con l'entrata in vigore del
d.lgs.  n. 51  del 1998, la mancata previsione del potere del giudice
istruttore  di  disporre d'ufficio la prova per testi ex art. 281-ter
nell'ambito  del  c.d.  rito  collegiale  appare  in contrasto con il
principio  di  uguaglianza  di  cui all'art. 3 della Costituzione, in
quanto  configura  una  ingiustificata  disparita'  di trattamento di
situazioni sostanziali identiche, posto che l'esigenza sottintesa dal
potere  officioso  de  quo e' ravvisabile anche nelle cause riservate
per   la  decisione  al  collegio  (come  quella  oggetto  di  questa
controversia) e non soltanto in quelle, eventualmente anche di valore
indeterminabile,  che debbono essere decise dal giudice istruttore in
funzione  di  giudice  unico,  ne'  e'  sostenibile  altra  razionale
giustificazione alla medesima diversita' di disciplina.

    4.  -  La  disuguaglianza  suddetta,  inoltre, consistendo in una
disparita'  di trattamento in punto di disciplina dei mezzi di prova,
finisce  per configurare una violazione dello stesso principio di cui
all'art. 24 della Costituzione.
    A tal proposito, e' condivisibile quanto autorevolmente affermato
in  dottrina,  cioe'  che il diritto alla prova, nel suo fondamentale
significato  garantistico,  puo'  essere  considerato come il diritto
delle  parti  di  influire sull'accertamento giudiziale dei fatti per
mezzo  di  tutte  le  prove  rilevanti,  dirette  e contrarie, di cui
dispongono.
    Il diritto alla prova cosi' inteso, pertanto, nel processo civile
non puo' non avere un punto di collegamento con il principio previsto
dall'art. 2697 codice civile.
    E'  stato giustamente osservato che il principio dell'onere della
prova  si  contempera  con  la  possibilita' che il giudice, nei casi
espressamente  contemplati  dalla  legge,  disponga  mezzi  di  prova
d'ufficio e con il principio di acquisizione delle prove al processo,
secondo  cui  il  giudice  deve  tener conto di tutti gli elementi di
prova  acquisiti  al  processo a prescindere dalla parte che li abbia
prodotti.  Per  cui,  non  puo'  escludersi  che  il  fatto rilevante
allegato dall'attore risulti dimostrato senza che questi abbia svolto
alcuna specifica attivita' in punto di iniziativa istruttoria (v., in
tal senso, Cass. 7201/1995; n. 3564/1995; n. 1153/1995).
    Riconoscendo che il principio di disponibilita' delle prove e' un
principio  cardine  del  nostro  processo civile (art. 115), non puo'
tuttavia  negarsi  che lo stesso trovi contemperamento nel menzionato
principio  di  acquisizione  della prova al processo, che consente di
utilizzare  anche  la  prova  acquisita  su  iniziativa  di una parte
diversa  da  quella  che ne trae giovamento ovvero la prova acquisita
d'ufficio.
    In  definitiva,  e' possibile affermare che il diritto alla prova
non  puo'  farsi  coincidere  soltanto  con il diritto della parte ad
introdurre  i  fatti  rilevanti nel processo e a provarli con i mezzi
istruttori  da essa proposti, ma piuttosto con il diritto della parte
ad avvalersi di ogni mezzo di prova esperibile nel processo.
    Di conseguenza, la irragionevole limitazione del potere officioso
del giudice in punto di prova testimoniale del terzo ex art. 281-ter,
oltre  a  realizzare una disparita' di trattamento censurabile per le
ragioni  in  precedenza  gia'  indicate,  si  traduce  anche  in  una
violazione del diritto alla prova nella accezione proposta;