IL TRIBUNALE Rilevato che all'odierna udienza i procuratori speciali degli imputati Usubelli Stefano, Valetti Stefano e Colosio Angelo, presenti in udienza hanno reiterato la richiesta di applicazione pena gia' proposta nell'udienza preliminare del 26 ottobre 2000, per la quale il p.m. aveva espresso dissenso motivato dalla incongruita' della pena richiesta e da esigenze di parita' di trattamento sanzionatorio con altri imputati giudicati con il rito abbreviato o con l'applicazione di pena concordata; che conseguentemente questo giudice veniva investito della decisione sul rito e sulla richiesta di applicazione pena degli imputati ex art. 448 primo comma secondo periodo c.p.p. e 135 disp. Att. Cpp., ovvero nella fase preliminare del dibattimento e prima della dichiarazione di apertura dello stesso; ritenuto che sussistano profili di incostituzionalita' delle norme appena richiamate e introdotte dall'art. 34 legge 16 dicembre 1999 n. 479 per contrasto con gli artt. 111, come modificato dalla legge di riforma costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 e 112 della Carta costituzionale, Solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale degli artt. 448 cpp. e 136 disp. Att. Cpp. per contrasto con gli artt. 111 e 112 della Costituzione per i motivi che seguono, ordinando conseguentemente la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la sua decisione. m o t i v i Nel corso dell'udienza preliminare del 15 giugno 2001 i difensori di Usubelli Stefano, Colosio Angelo, Valetti Stefano, imputati non in concorso ma nell'ambito dello stesso procedimento anche a carico di altri imputati, chiedevano l'applicazione della pena finale di mesi 10 di reclusione L. 3.000.000 di multa (per i primi due) e di mesi 6 di reclusione L. 2.400.000 di multa per il Valetti, previo riconoscimento per tutti delle attenuanti generiche nonche' di quella di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990. Il p.m. negava il proprio consenso motivandolo con la incongruita' della pena rispetto alla gravita' dei reati ascritti e al ruolo specifico di fornitori rivestito dagli imputati, nell'ambito generale del procedimento cui erano chiamati a rispondere con gli altri coimputati, rivestenti minori responsabilita'. All'odierna udienza dibattimentale i difensori degli imputati, muniti di procura speciale, rinnovavano la richiesta ed il giudice, chiamato a decidere immediatamente sulla stessa, rilevava d'ufficio la presente eccezione di incostituzionalita'. Ed invero, con il novellato articolo 448 cpp. e' data la possibilita' all'imputato, anche nel caso di dissenso del p.m. o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, e prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, di rinnovare la richiesta: in questo caso il giudice deve (ex art. 135 disp. Att. Cpp.) ordinare l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. e, se la ritiene fondata, pronunciare immediatamente sentenza, anche senza il consenso del p.m. Appare di tutta evidenza lo "snaturamento" dell'istituto del c.d. patteggiamento se solo si ripercorrono brevemente le fasi della sua evoluzione. Nella originaria costruzione dell'impianto del "nuovo" c.p.p. esso era inteso e costruito come istituto che consentiva l'applicazione della pena su richiesta (concorde) delle parti: cosi' il titolo II del libro VI del nuovo c.p.p. L'accordo fra le parti caratterizzava l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta: dall'assetto globale dell'istituto e dall'analisi delle singole disposizioni che lo disciplinano, si desume che la richiesta di patteggiamento ed il consenso costituivano ed in qualche misura costituiscono tuttora, due manifestazioni di volonta' unilaterali convergenti, rivolte al giudice, provenienti dall'imputato e dal p.m. (v. Cass. 24 giugno 2001, Grosso). Soltanto in un caso era possibile superare il mancato consenso del p.m. e accogliere la richiesta dell'imputato: quando, all'esito del dibattimento il dissenso del p.m. appariva ingiustificato e, per converso, appariva congrua la pena richiesta dall'imputato. Dunque, prima della riforma introdotta dalla c.d. legge Carotti, era pacificamente esclusa la possibilita' che il giudice del dibattimento dovesse vagliare "immediatamente" il dissenso espresso dal p.m. ed eventualmente accogliere la richiesta dell'imputato: solo conclusa la discussione tale possibilita' di vaglio e di "recupero" della richiesta era fornita al giudice del dibattimento (in questo senso v. per tutte Cass. 27 ottobre 1999, Inguaggiato). La ratio che informava questa disciplina, che costituisce una sorta di eccezione alla regola del necessario accordo fra le parti sulla richiesta di applicazione della pena, risiedeva nella idoneita' soltanto del solo giudizio conseguente all'esito del dibattimento a fornire al giudice gli elementi necessari per concludere sul difetto di giustificazione del dissenso del p.m. e quindi, per applicare la pena richiesta. La giurisprudenza della Corte di cassazione aveva affermato esplicitamente il principio per cui solo lo svolgimento del dibattimento garantisce nel massimo grado il principio del contraddittorio e la raccolta delle prove ad opera delle parti; solo esso puo' consentire al giudice di valutare la fondatezza del dissenso del p.m. e permette di introdurre l'eccezione al principio secondo cui la pena patteggiata ha essenzialmente natura negoziale e si fonda sul consenso delle parti e non di una sola di esse (l'imputato). Diversamente, il patteggiamento diventa una sorta di giudizio abbreviato effettuabile sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. e alla condizione che esso si concluda con una sentenza che irroghi la pena determinata unilateralmente dall'imputato. In difetto del consenso del p.m., quindi, non era ritenuta sufficiente per la formazione di un valido convincimento giudiziale, l'esibizione del fascicolo del p.m., ma era necessario procedere alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti per consentire l'esercizio di una cognizione piena. Ebbene, a parere di questo giudice, tali principi risultano ancor piu' validi oggi, con l'introduzione della riforma costituzionale dell'art. 111 della Costituzione, ed irragionevolmente scavalcati dalla nuova disciplina introdotta dall'art. 34 comma 1 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, sopravvenuta anche alla legge di riforma costituzionale. Viene infatti irragionevolmente superato il principio costituzionale, introdotto, dall'art. 111 comma 2 della Costituzione, che impone che "ogni processo si svolga nel contraddittorio fra le parti, in condizione di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale". Nell'ipotesi che qui ci occupa, infatti, non solo viene infranta la necessaria condizione di parita' fra le parti perche' soltanto all'imputato - e non anche al Pubblico Ministero - viene concessa la possibilita' di richiedere una pena non piu' concordata ma di iniziativa unilaterale, ma viene imposto al giudice, in tale situazione di non parita', di decidere non nel contraddittorio delle parti, e quindi a seguito del giudizio, ma "immediatamente" e sulla base del fascicolo del Pubblico Ministero (scelta, questa, opinabile anche nel merito, posto che il fascicolo del p.m. dissenziente al rito verosimilmente contiene prove piu' favorevoli all'ipotesi accusatoria e quindi poco producenti per le ragioni dell'imputato istante: piu' utilmente sarebbe dovuto prevedersi quanto meno l'acquisizione anche dei risultati delle indagini difensive ...). Nell'istituto che piu' tipicamente esprime la condizione di parita' delle parti, quello di applicazione della pena "concordata", viene irragionevolmente introdotta una norma di disparita', lesiva altresi' del principio costituzionale della formazione della prova nel dibattimento: principio non comprimibile nel caso di specie neppure in ossequio alle ragioni dell'economia processuale. Ed invero, secondo l'attuale assetto processuale, e' previsto - incoerentemente - che non il g.i.p. (giudice naturalmente preposto ai riti speciali) ma il giudice del dibattimento, pur sulla base dello stesso (se non ridotto) materiale probatorio in possesso del g.i.p., debba valutare se superare il dissenso del p.m. relativamente alla pena richiesta dall'imputato. Qualora egli cio' non ritenga di fare, o ritenga di fare solo per alcuni imputati, dovra' verosimilmente astenersi per superare le verosimili censure che deriverebbero dalla sua anticipazione di giudizio, secondo il solco della giurisprudenza costituzionale piu' volte intervenuta in materia di incompatibilita' del giudice. Cosi' come, tale giudice del dibattimento, dovrebbe necessariamente separare le posizioni ed eventualmente astenersi (per le imputazioni a concorso necessario) quando solo alcuni fra i coimputati accedano al rito speciale, con evidente sacrificio delle esigenze di unitarieta' del procedimento e di economia processuale. Al contrario, una valutazione sul dissenso del p.m. limitata alla sola fase post-dibattimentale consentirebbe di superare questi anti-economici inconvenienti, permettendo altresi' al giudice di valutare con piena cognizione di causa la fondatezza della proposta. Inoltre, la disparita' di peso processuale introdotta dalla richiamata normativa, appare sacrificare l'ulteriore principio costituzionalmente garantito dell'obbligatorieta' all'esercizio dell'azione penale. L'esclusione del pubblico ministero non solo dalla richiesta iniziale di accesso al rito speciale del c.d. patteggiamento unilaterale, dalla necessita' del suo previo consenso ed infine dalla successiva fase di cognizione, configura un vero e proprio esautoramento della parte pubblica dall'esercizio concreto dell'azione penale. Ed invero, l'art. 112 della Costituzione, prevedendo l'obbligatorieta' all'esercizio dell'azione penale da parte del p.m. si attaglia, a tutta evidenza, non solo al momento iniziale e genetico dell'azione penale stessa, ma a tutto il suo sviluppo e concreto esercizio. Sul punto la stessa Corte costituzionale, sebbene in diverso ambito procedurale, ha affermato che "L'obbligo del p.m. di attuare la pretesa punitiva dello Stato non puo' ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del procedimento ..." (cosi' Corte costituzionale 26 aprile 1994, Corsaro). La potesta' di richiedere all'organo giurisdizionale di giudicare sulla imputazione include anche la potesta' di richiedere (oltre alla declaratoria di colpevolezza) l'applicazione di una pena ritenuta congrua dall'organo dell'accusa. La confisca ai danni dell'organo pubblico della possibilita' di richiedere l'applicazione della pena in misura congrua ex art. 133 c.p., che si attua attraverso la richiesta unilaterale dell'imputato non vagliata nel contraddittorio dibattimentale, lede i principi di parita' e preclude la possibilita' di esercitare l'azione penale in tutte le sue attribuzioni, in particolare attraverso il dibattimento, ove si potrebbero evidenziare profili di gravita' del reato maggiori e che richiedono una pena diversa da quella richiesta dall'imputato. Sussiste pertanto una questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 448, comma 1, secondo periodo c.p.p. nella parte in cui consente al solo imputato di chiedere (e ottenere) nonostante il dissenso del p.m. l'applicazione della pena nella fase preliminare al dibattimento per contrasto con gli artt. 111 e 112 della Costituzione, per contrasto cioe' con i principi costituzionali della parita' delle parti processuali, del necessario svolgimento del processo nel contraddittorio fra le parti e dell'obbligatorieta' di esercizio dell'azione penale. Non potendosi ravvisare un pari potere del p.m. di chiedere una pena, con il dissenso dell'imputato, per evidenti ragioni di tutela del diritto di difesa, dovrebbe affermarsi identica preclusione per l'imputato al fine di attuare una effettiva parita' delle parti e di consentire l'esercizio dell'azione penale nel contraddittorio delle stesse.