ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 3, comma 1,
della  legge  5 giugno  1989,  n. 219  (Nuove  norme in tema di reati
ministeriali   e   di   reati   previsti   dall'articolo   90   della
Costituzione),  promosso  con  ordinanza emessa il 24 maggio 2001 dal
Collegio  per  i procedimenti relativi ai reati previsti dall'art. 96
della  Costituzione  istituito  presso  il  Tribunale  di  Napoli nel
procedimento  penale a carico di F. D. L. e altri, iscritta al n. 611
del  registro  ordinanze  2001  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, 1a serie speciale, n. 34 dell'anno 2001.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  F.  D.  L. nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  12 febbraio  2002  il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky;
    Uditi gli avvocati Gustavo Pansini e Carlo Federico Grosso per F.
D.  L. e l'avvocato dello Stato Paolo Cosentino per il Presidente del
Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1. -   Il  Collegio per i procedimenti relativi ai reati previsti
dall'art. 96  della  Costituzione  istituito  presso  il Tribunale di
Napoli  solleva,  con  ordinanza  del  24 maggio  2001,  questione di
legittimita'  costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove
norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo
90  della  Costituzione),  in  riferimento  agli artt. 3, 27, secondo
comma, e 111 della Costituzione.
    1.1.  - Il Collegio espone sinteticamente le vicende del processo
dinanzi  a  esso  pendente:  a) con una sentenza del febbraio 1999 il
giudice  (ordinario)  dell'udienza preliminare presso il Tribunale di
Napoli  trasmetteva,  per  competenza,  gli  atti  di un procedimento
penale  concernente  un  ex  ministro  e  un  concorrente  "laico" al
Collegio  per  i reati ministeriali, allora costituito da due dei tre
componenti  dell'odierno  organo giudiziario rimettente; b) nel corso
del  procedimento,  esteso  anche nei confronti di altri due indagati
"laici",  il  Collegio  procedeva  all'interrogatorio degli indagati,
chiedendo poi al Senato della Repubblica l'autorizzazione a procedere
nei  confronti  di  tutte le persone sottoposte alle indagini, per il
reato  di  corruzione;  c)  concessa  dal Senato - nel gennaio 2001 -
l'autorizzazione  a  procedere, e formulata dal pubblico ministero la
richiesta  di  rinvio  a  giudizio, il procedimento si trovava quindi
nella fase dell'udienza preliminare, a trattare la quale era chiamato
il  Collegio  del  quale  facevano  parte,  come  detto,  due dei tre
magistrati  che  lo  avevano  composto  nella fase delle indagini; d)
prima  della  trattazione  dell'udienza preliminare, uno dei suddetti
componenti  formulava  dichiarazione di astensione per "gravi ragioni
di  convenienza",  a  norma  dell'art. 36,  comma 1, lettera h), cod.
proc.  pen.,  appunto  a  causa  della  pregressa  partecipazione  al
Collegio  nella fase iniziale del procedimento; e) parallelamente, la
difesa dell'ex ministro imputato proponeva istanza di ricusazione nei
confronti  del  Collegio,  perche' composto da magistrati che avevano
svolto  funzioni  di  pubblico  ministero,  nella fase delle indagini
preliminari;  f)  sia la dichiarazione di astensione che l'istanza di
ricusazione venivano rigettate dalla competente Corte d'appello.
    1.2.  -  Essendo stata nuovamente fissata l'udienza preliminare a
seguito  delle  vicende  processuali sopra esposte, il Collegio per i
reati  ministeriali presso il Tribunale di Napoli solleva, d'ufficio,
questione    di    costituzionalita',    ritenendo   che   "l'attuale
interpretazione  della  legge  n. 219 del 1989" (cioe' l'orientamento
che  reputa  essere  il  medesimo collegio competente sia per la fase
delle   indagini   che   per  la  fase  successiva  alla  concessione
dell'autorizzazione  a  procedere  e  dunque anche per la trattazione
dell'udienza   preliminare)   possa   contrastare   con   i  principi
costituzionali  di  uguaglianza  (art. 3  della  Costituzione)  e  di
presunzione  di  non  colpevolezza  (art. 27,  secondo  comma,  della
Costituzione),   nonche'  con  il  principio  del  "giusto  processo"
(art. 111  della  Costituzione):  a  parere  del Collegio rimettente,
infatti, tale disciplina determina, nei procedimenti penali nei quali
siano  coinvolti  ministri,  un  irragionevole  deficit  di garanzie,
giacche'  l'imputato  ha come giudice dell'udienza preliminare quello
stesso   collegio,   istituito   in   base   all'art. 7  della  legge
costituzionale  16 gennaio  1989,  n. 1 (Modifiche degli articoli 96,
134  e  135  della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo
1953,  n. 1,  e  norme  in materia di procedimenti per i reati di cui
all'articolo  96 della Costituzione), che in precedenza ha svolto nei
confronti  del  medesimo  imputato le funzioni di pubblico ministero,
come appunto nella specie si e' verificato.
    La  "prassi  interpretativa" concernente i procedimenti per reati
ministeriali,  poi,  appare  al  giudice  a  quo contraddire anche il
principio,  posto  nel  nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione,
secondo  cui  "ogni  processo  si  svolge  nel contraddittorio tra le
parti,   in   condizioni  di  parita',  davanti  a  giudice  terzo  e
imparziale".
    La  rilevanza della questione, conclude il Collegio, e' evidente,
attenendo   alla   valida   composizione   del  giudice  dell'udienza
preliminare e dunque alla stessa possibilita' di procedere oltre.
    2. - Nel giudizio cosi' promosso e' intervenuto il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato.
    2.1.    -    Nell'atto   di   intervento,   l'Avvocatura   deduce
l'inammissibilita'  della  questione per due ordini di rilievi: a) la
genericita'  della  richiesta declaratoria di incostituzionalita', il
cui  oggetto e' l'intero complesso normativo di cui alla legge n. 219
del  1989,  e  b) la natura legislativa di un intervento quale quello
richiesto  alla  Corte  sulla disciplina dei procedimenti per i reati
ministeriali,  che  avrebbe  una portata tale da coinvolgere l'intero
equilibrio della legge, cio' che - afferma l'Avvocatura - costituisce
una   operazione   propria   del   legislatore,   non   della   Corte
costituzionale.
    Nel  merito,  l'Avvocatura richiama l'orientamento interpretativo
che  sulla  disciplina  in  questione  e' stato accolto proprio dalla
Corte costituzionale: chiamata a pronunciarsi sull'art. 3 della legge
n. 219  del 1989, la Corte, a fronte della ipotizzata possibilita' di
interpretare il sistema nel senso della competenza del giudice comune
una  volta  concessa  l'autorizzazione a procedere, ha optato, con la
sentenza  n. 265 del 1990, per l'opposta interpretazione, dando della
legge  ordinaria  una  lettura  aderente alla norma costituzionale di
riferimento  (art. 9,  comma  4,  della legge costituzionale n. 1 del
1989), nel senso cioe' che, concessa l'autorizzazione a procedere, e'
il   collegio  a  "continuare"  il  procedimento  "secondo  le  norme
vigenti",  dopo  la  rimessione  degli atti al medesimo. E' dunque la
stessa   legge   costituzionale,  rileva  l'Avvocatura,  a  postulare
l'identita'  dell'organo  chiamato a trattare il procedimento prima e
dopo  l'autorizzazione  a  procedere  e  fino  al  giudizio di merito
dibattimentale  dinanzi  al  competente  Tribunale  distrettuale;  ne
deriva  la  conclusione  nel  senso dell'infondatezza della questione
sollevata.
    3. - Si  e'  costituito  in  giudizio l'ex ministro, imputato nel
procedimento    principale,    chiedendo    una    declaratoria    di
incostituzionalita'  della  legge n. 219 del 1989 "nella parte in cui
non  prevede  che  l'udienza preliminare si svolga innanzi al giudice
dell'udienza preliminare del tribunale ordinario competente".
    La  difesa  della  parte  privata, dopo avere ricordato la genesi
politica  della  disciplina, afferma che la legge costituzionale n. 1
del  1989,  istituendo  lo  speciale collegio presso ciascuna sede di
Corte  di  appello (art. 7), ha inteso rafforzare, appunto attraverso
la  previsione  della  collegialita',  esclusivamente le garanzie del
procedimento  nella  fase  delle  indagini,  in  vista della delicata
funzione  -  di  preventivo  "filtro  giurisdizionale"  rispetto alla
notitia criminis - assegnata al collegio.
    L'autorizzazione  a procedere segna dunque, secondo la parte, nel
disegno  della  legge  costituzionale,  l'ultimo  momento  del regime
procedimentale  speciale,  e  la  riprova  sarebbe offerta dai lavori
preparatori della legge stessa, ai quali nell'atto di costituzione si
fa richiamo.
    Ad  avviso  della  parte,  la  legge  n. 219 del 1989, emanata in
attuazione  della  legge costituzionale n. 1 del 1989, ha dettato una
serie  di  norme  dalle  quali  risulta  attribuita  al  collegio una
funzione - essenziale - di pubblico ministero, nonche' una funzione -
accessoria  -  di  giudice  delle  indagini preliminari (competente a
disporre  l'incidente  probatorio,  l'archiviazione  e  la riapertura
delle  indagini),  e,  mediante  la  precisazione  della formulazione
dell'art. 9,  comma  4,  della  legge  costituzionale  n. 1 del 1989,
attraverso  la  disposizione  dell'art. 3,  comma  1, la stessa legge
ordinaria  ha  chiarito che con il ricevimento degli atti provenienti
dall'organo   politico,   una   volta   concessa  l'autorizzazione  a
procedere,   si  conclude  definitivamente  la  fase  delle  indagini
assegnate al collegio, e si attiva il rito ordinario.
    Di  conseguenza,  alla stregua della disciplina positiva, come la
richiesta  di  emissione  del  decreto  che  dispone il giudizio deve
essere  formulata  dal  pubblico  ministero,  cosi'  la  competenza a
celebrare  l'udienza  preliminare  dovrebbe  essere  riconosciuta  al
correlativo  giudice presso il tribunale ordinario: tanto piu' ove si
consideri  che  ne'  la  legge costituzionale, ne' la legge ordinaria
contengono disposizioni in materia di giudizi speciali.
    Dall'opposta  -  e  censurata  -  interpretazione,  che affida al
collegio  la  celebrazione  dell'udienza  preliminare,  discenderebbe
infatti    un'alternativa   che   in   ogni   caso   e'   di   dubbia
costituzionalita',  in  quanto  (a)  o la possibilita' di accedere al
"patteggiamento" e al giudizio abbreviato e' esclusa per i ministri e
per  coloro  (i  "laici")  che  concorrono  nel reato, oppure (b) nei
confronti   di  tali  soggetti  i  riti  alternativi  possono  essere
celebrati  da  un  giudice  che  ha  esercitato  funzioni di pubblico
ministero.    Postulando,    poi,   che   l'eventuale   sentenza   di
proscioglimento  sia,  secondo  le  regole generali, appellabile, col
gravame  si  determinerebbe,  comunque, l'intromissione di un giudice
ordinario  in  una fase di competenza - secondo l'assunto criticato -
del giudice speciale.
    Nonostante  i  suddetti rilievi, la giurisprudenza - di cui viene
dato   ampio   conto  nell'atto  di  costituzione  -  attribuisce  la
competenza   funzionale  di  giudice  per  l'udienza  preliminare  al
collegio  di cui all'art. 7 della legge costituzionale n. 1 del 1989,
che in tal modo assomma in se' le funzioni di pubblico ministero e di
giudice;  una  lettura,  questa,  che  non  solo  conduce a soluzioni
inaccettabili   dal  punto  di  vista  della  coerenza  dei  principi
affermati,   ma   altresi'   legittima   un   sistema  che  tralascia
completamente  l'esigenza,  viceversa ineludibile, che il giudice, in
quanto tale, sia terzo e percio' imparziale.
    Ne'  i  dubbi di parzialita', rileva la parte privata, potrebbero
essere  fugati  con  il ricorso agli istituti dell'astensione o della
ricusazione:  la  situazione in esame attiene, infatti, alla sequenza
di funzioni di pubblico ministero e di giudice attribuite alla stessa
persona  fisica, di modo che, ricorrendo in simile ipotesi la regola,
e  comunque  l'esigenza,  espressa  dall'art. 34, comma 3, cod. proc.
pen., si impone l'adozione di un criterio generale che sancisca anche
nell'ambito  dei procedimenti per reati ministeriali un'analoga causa
di  incompatibilita'. Il riferimento, contenuto nell'art. 9, comma 4,
della  legge  costituzionale  n. 1 del 1989, alle "norme vigenti" non
potrebbe,  di  conseguenza,  ritenersi pensato con esclusione di tale
regola normativa, che traduce il principio fissato nella legge delega
per  l'emanazione  del  nuovo  codice di procedura penale 16 febbraio
1987,  n. 81, che esclude il cumulo di funzioni di pubblico ministero
e di giudice in capo allo stesso soggetto.
    Permanendo  tuttavia nella applicazione pratica l'interpretazione
della  norma nel senso contrario a quello che appare il piu' logico e
conforme  ai  principi  costituzionali,  si  manifesta  - conclude la
difesa  della  parte  privata  "la  necessita'  della declaratoria di
illegittimita'  costituzionale  della  legge  5 giugno  1989, n. 219,
nella  parte  in  cui non prevede che l'udienza preliminare si svolga
innanzi al giudice dell'udienza preliminare ordinario competente".
    4. - In  prossimita'  dell'udienza,  l'Avvocatura  dello Stato ha
depositato  una  memoria,  nella quale sottolinea ancora una volta il
rilievo  preliminare,  gia'  espresso  nell'atto  d'intervento, della
genericita'  del  petitum essendo l'ordinanza di rimessione formulata
in  maniera  tale  che  non  potrebbe neppure dirsi portata all'esame
della  Corte  una  precisa  questione costituzionale. La difesa della
parte  privata - aggiunge l'Avvocatura - ha colto questo aspetto e se
ne  e'  fatta  carico,  deducendo,  nella  memoria di costituzione in
giudizio,  l'incostituzionalita'  della  legge n. 219 del 1989, nella
parte  in  cui  non  prevede  una  causa  di  incompatibilita' per il
collegio  per  i  reati  ministeriali  a  emettere  il  provvedimento
conclusivo  dell'udienza preliminare, sia esso il decreto che dispone
il  giudizio  sia altro tipo di pronuncia; ma questa puntualizzazione
della  parte  privata  costituisce,  sempre secondo l'Avvocatura, una
forzatura  rispetto  allo  scarno  testo  dell'ordinanza del Collegio
rimettente,  che  "resiste"  a  ogni  tentativo  di interpretazione e
chiarificazione  circa  la  effettiva portata della questione che con
essa si sarebbe inteso sollevare.
nel merito l'Avvocatura insiste per una dichiarazione di infondatezza
della questione.
    La  legge n. 219 impugnata, si osserva nella memoria, costituisce
attuazione   della   legge   costituzionale   n. 1   del   1989,  che
evidentemente  non potrebbe essere sospettata di incostituzionalita';
ma cio' che piu' conta e' che la formulazione delle norme che vengono
in  rilievo,  ovvero l'art. 3 della legge ordinaria ("Quando gli atti
siano  stati rimessi [...] al collegio [...] il procedimento continua
secondo  le  norme  vigenti  al momento della rimessione") e l'art. 9
della     legge    costituzionale    ("l'Assemblea,    ove    conceda
l'autorizzazione, rimette gli atti al collegio [...] perche' continui
il   procedimento   secondo   le   norme  vigenti"),  deve  ritenersi
sostanzialmente equivalente e sorretta da una medesima ratio: la fase
del  procedimento  che  si svolge prima del dibattimento e' del tutto
peculiare.
    Questa  specificita'  rifletterebbe  la  volonta' del legislatore
costituzionale  di  devolvere la cognizione dei reati ministeriali al
giudice  ordinario,  ma solo per il processo, non prima del processo,
dunque  non  prima  della  conclusione  dell'udienza preliminare, che
segna  appunto  il  passaggio  dall'una all'altra fase; e l'apparente
imprecisione  dell'uso  dell'espressione  circa la "continuazione del
procedimento"   si  spiega  con  l'esigenza  di  tenere  presenti  le
problematiche  connesse alla transizione dal vecchio al nuovo codice,
con  il  passaggio dalla figura del giudice istruttore nell'ambito di
un  sistema di tipo inquisitorio a quella del giudice per le indagini
preliminari nell'ambito di un sistema accusatorio. In entrambi i casi
v'e'   infatti   un  procedimento  che  puo'  sfociare  nel  processo
dibattimentale e che si svolge dinanzi a organi giudiziari differenti
(giudice  istruttore,  giudice  dell'udienza preliminare), mentre nel
caso  dei reati ministeriali e' il collegio a essere individuato come
l'organo  che  continua il procedimento secondo le regole processuali
ordinarie.  D'altra parte, prosegue l'Avvocatura, l'avere previsto la
competenza  del tribunale (distrettuale) per la fase del dibattimento
non   consentirebbe   alternative  rispetto  alla  devoluzione  della
trattazione  dell'udienza  preliminare  al  collegio, come organo sui
generis.
    L'interveniente  affronta  poi  l'argomentazione, contenuta nella
memoria  di  costituzione  della  parte privata, circa le funzioni di
organo inquirente assegnate al collegio nella normativa in argomento,
sia  costituzionale  che  ordinaria  e  attuativa della prima; questo
rilievo,  afferma  l'Avvocatura,  non  e'  pero' decisivo, poiche' il
collegio  -  come in realta' riconosciuto dalla stessa difesa dell'ex
ministro  -  riveste natura "duale", potendo compiere atti propri del
pubblico ministero al pari di atti propri del giudice per le indagini
preliminari,  si' che esso puo' essere assimilato, quanto a funzioni,
al  giudice  piu' che al rappresentante dell'accusa, tenuto conto del
fatto  che  entrambe  le leggi, costituzionale e ordinaria, prevedono
comunque,  nel  procedimento  per i reati dei ministri, poteri propri
del Procuratore della Repubblica.
    Ma  al  di la' di tutto cio', sarebbe decisiva, per l'Avvocatura,
la  considerazione  della  finalita'  delle  norme  in  questione: il
legislatore  ha  voluto  circondare di speciali cautele e garanzie la
fase  delle  indagini  preliminari alla richiesta di autorizzazione a
procedere,  attribuendone  la  gestione  a  un  organo  in  grado  di
accertare,    con   la   massima   estensione   possibile   e   senza
condizionamento  alcuno,  l'attendibilita'  della  notizia  di reato,
l'esistenza  della "ragion di Stato" e in genere ogni elemento idoneo
a porre adeguatamente il Parlamento in grado di valutare se concedere
o  negare  l'autorizzazione a procedere; ed e' appunto in funzione di
questa  essenziale  esigenza  che  il  collegio  ha la titolarita' di
poteri  sia  dell'accusa  che  del giudice, tanto che sarebbe perfino
improprio  parlare  di  organo  con  poteri  "prevalenti"  dell'uno o
dell'altro:  il  collegio  non  e' ne' l'uno ne' l'altro, e l'avere a
esso   affidato   anche   la  funzione  di  trattazione  dell'udienza
preliminare  -  conclude  l'Avvocatura  dello  Stato  -  non  viola i
parametri  costituzionali  invocati: non l'art. 3, per la specialita'
che  contraddistingue  l'intera  disciplina  in  questione in ragione
della  diversita' di posizione dei soggetti coinvolti; non l'art. 27,
poiche'   la   presunzione   di   non   colpevolezza  resta  intatta,
indipendentemente  dall'organo che sia chiamato a decidere sul rinvio
a giudizio; non l'art. 111, per la specificita' del giudice, previsto
direttamente da una fonte di rango costituzionale.

                       Considerato in diritto

    1. -   Il  Collegio per i procedimenti relativi ai reati previsti
dall'art. 96  della  Costituzione  istituito  presso  il Tribunale di
Napoli solleva questione di legittimita' costituzionale, in relazione
agli  artt. 3,  27,  secondo  comma,  e 111 della Costituzione, della
legge   5 giugno   1989,   n. 219  (Nuove  norme  in  tema  di  reati
ministeriali   e   di   reati   previsti   dall'articolo   90   della
Costituzione),  il  cui  art. 3  stabilisce  che, quando gli atti del
procedimento  a  carico di ministri siano stati rimessi al collegio a
seguito  della  concessione  dell'autorizzazione a procedere (art. 9,
comma  4,  della  legge  costituzionale  16 gennaio  1989, n. 1), "il
procedimento  continua  secondo le norme ordinarie vigenti al momento
della rimessione".
    Il  giudice  rimettente  ritiene  che  la norma dell'art. 3 della
legge n. 219 del 1989 ora indicata comporti che l'ulteriore corso del
procedimento  abbia  luogo innanzi al collegio, anziche' davanti agli
organi  giudiziari  ordinariamente  competenti  secondo  il codice di
procedura  penale,  e  che quindi il giudice dell'udienza preliminare
sia il medesimo collegio che, nella fase precedente, ha esercitato le
funzioni di pubblico ministero. Cio' determinerebbe per l'imputato un
irragionevole  affievolimento  di  quelle garanzie che si compendiano
nell'espressione  "giusto  processo"  (art. 111,  primo  comma, della
Costituzione),  comprendenti  innanzitutto  il contraddittorio tra le
parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale
(art. 111, secondo comma, della Costituzione).
    2. - La  legge  costituzionale  16 gennaio  1989, n. 1 (Modifiche
degli  articoli  96,  134  e  135  della  Costituzione  e della legge
costituzionale   11 marzo   1953,   n. 1,   e  norme  in  materia  di
procedimenti  per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione),
ha   riformato   il   precedente   sistema   di   "giustizia   penale
costituzionale"   facente   capo   alla   giurisdizione  della  Corte
costituzionale  prevista  dagli  originari  artt. 96, 134 e 135 della
Costituzione,   nel   dichiarato  intento  di  ricondurre  all'ambito
dell'ordinario  diritto  processuale  penale il processo a carico del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e dei ministri per i reati
commessi nell'esercizio delle loro funzioni.
    Il   nuovo   art. 96   della  Costituzione  (art. 1  della  legge
costituzionale   n. 1  del  1989)  dispone  che  "il  Presidente  del
Consiglio  dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica,
sono  sottoposti,  per  i  reati  commessi  nell'esercizio delle loro
funzioni,  alla  giurisdizione  ordinaria". L'assimilazione di quella
che  un  tempo  si  denominava  la  giustizia politica alla giustizia
comune  e'  peraltro avvenuta con due particolarita'. Lo stesso nuovo
art. 96  della  Costituzione  prevede  la  previa  autorizzazione del
Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme
stabilite  con  legge  costituzionale  e  gli artt. 7 e 8 della legge
costituzionale  n. 1  del  1989 istituiscono, presso il tribunale del
capoluogo del distretto di corte d'appello competente per territorio,
un   collegio  di  tre  magistrati  per  il  compimento  di  indagini
preliminari   al  quale,  nell'ipotesi  che  non  si  debba  disporre
l'archiviazione della notizia di reato, spetta richiedere la predetta
autorizzazione parlamentare.
    L'Assemblea  parlamentare  competente svolge le sue valutazioni e
prende  le  sue  determinazioni  secondo le disposizioni dell'art. 9,
commi  da  1  a  3,  della  legge costituzionale n. 1 del 1989 e, ove
conceda  l'autorizzazione,  "rimette  gli  atti  al  collegio  di cui
all'articolo  7  perche'  continui  il  procedimento secondo le norme
vigenti"  (comma 4  dello  stesso  art. 9).  A sua volta, l'impugnato
art. 3   della  legge  ordinaria  di  attuazione  (n. 219  del  1989)
stabilisce  che  "quando  gli  atti  siano stati rimessi ai sensi del
comma  4  dell'articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989,
n. 1,  al  collegio ivi indicato, il procedimento continua secondo le
norme ordinarie vigenti al momento della rimessione".
    Il  giudice rimettente in questo giudizio di costituzionalita' e'
per l'appunto il collegio il quale, essendo stati rimessigli gli atti
dalla    Assemblea   parlamentare   a   seguito   della   concessione
dell'autorizzazione a procedere nei confronti di un ex ministro della
Repubblica,   si  trova  a  celebrare  l'udienza  preliminare.  Dalla
constatazione  della  propria  doppia  funzione - quella gia' svolta,
quale organo delle indagini preliminari che richiede l'autorizzazione
a  procedere  dopo avere esclusa l'archiviazione; quella da svolgere,
quale  giudice  dell'udienza  preliminare  cui, sulla base degli atti
d'indagine compiuti (ed eventualmente delle integrazioni d'indagine e
probatorie  ora consentite dagli artt. 421-bis e 422 cod. proc. pen.,
secondo  cio'  che e' disposto dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479),
spetta  decidere il non luogo a procedere ovvero disporre il giudizio
(art. 424  cod.  proc.  pen.)  -  la  censura  di incostituzionalita'
sottoposta all'esame della Corte costituzionale.
    3. - Il   Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,  tramite
l'Avvocatura   generale   dello   Stato,   eccepisce  preliminarmente
l'inammissibilita' della questione, sulla base di due considerazioni:
la  ritenuta  genericita'  dell'ordinanza  di rimessione, dalla quale
risulterebbe  l'impugnazione  dell'intera  legge  n. 219 del 1989; il
carattere sostanzialmente legislativo dell'intervento che si richiede
alla Corte costituzionale, la quale sarebbe indotta sul terreno delle
scelte   normative   riservate  al  legislatore.  L'eccezione,  sotto
entrambi  i  profili,  non e' fondata. Dal tenore della pur sintetica
ordinanza  di  rimessione  e,  in particolare, dall'esposizione delle
circostanze  che  hanno dato luogo al dubbio di costituzionalita', si
evince  con  chiarezza  che  denunciata  e'  la disciplina della fase
processuale seguente la concessione dell'autorizzazione parlamentare,
per quanto riguarda l'organo giudiziario competente a condurla, cioe'
il  gia'  ricordato  art. 3,  comma  1,  della legge n. 219 del 1989.
Quanto  al  secondo profilo di inammissibilita', la sua inconsistenza
risultera' dal seguito della motivazione.
    4. - Nel merito, la questione non e' fondata.
    4.1.  -  Il  dubbio  di costituzionalita' prospettato riguarda la
sovrapposizione   nel   medesimo   organo  giudiziario  (il  collegio
istituito dall'art. 7 della legge costituzionale n. 1 del 1989) della
funzione  di  giudice  dell'udienza  preliminare con quella di organo
delle  indagini preliminari, competente a disporre l'archiviazione e,
in mancanza, a richiedere all'Assemblea parlamentare l'autorizzazione
a  procedere. Tale sovrapposizione deriva da un'interpretazione delle
norme  vigenti  in  materia  che  trova conforto nella giurisprudenza
della   Corte   di   cassazione   (che   ha  altresi'  respinto  come
manifestamente  infondate  le  questioni di legittimita' sollevate in
proposito) e di alcuni Collegi per i reati ministeriali. Ma, quel che
piu'  conta  in  questa  sede,  tale interpretazione e' stata accolta
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 265 del 1990.
    In  questa decisione si affermava che la predetta interpretazione
si ricava "con certezza" dalla lettera della disposizione della legge
costituzionale,  la'  dove  essa  afferma  che il collegio competente
nella  prima  fase  del  procedimento  lo  continua  secondo le norme
vigenti.  A  questa  osservazione,  si faceva seguire, a conferma, il
rilievo  che l'originaria formulazione della legge costituzionale (la
rimessione  degli  atti  al  Procuratore  della  Repubblica  "perche'
[avesse]  corso  il procedimento secondo le norme vigenti") era stata
dalla  Camera  dei  deputati modificata in quella attuale mediante un
apposito  emendamento  e  che  il  tentativo  operato  dal  Senato di
ripristinare il testo originario non aveva avuto successo.
    4.2.  - L'orientamento predetto non puo' essere confermato, prima
che per le sue ipotizzate conseguenze incostituzionali, perche' cosi'
impone   l'interpretazione  sistematica  dell'ordinamento,  quale  e'
venuto  a configurarsi progressivamente nel tempo, un'interpretazione
alla  quale  non  si  oppone  - come si vedra' - ne' la lettera della
legge, ne' la cosiddetta volonta' del legislatore.
    Dall'epoca  in  cui  la responsabilita' penale costituzionale dei
ministri   e'  stata  riformata  e  la  prima  sentenza  della  Corte
costituzionale   su   di   essa  pronunciata,  il  quadro  normativo,
relativamente  all'eventualita' che funzioni decisorie possano essere
svolte   da   magistrati  che  abbiano  promosso  l'azione  penale  o
esercitato poteri d'indagine, e' profondamente mutato; anzi, e' stato
capovolto.  Al  momento dell'approvazione della riforma era ancora in
vigore  il  precedente codice di procedura penale, il quale conosceva
quella commistione di funzioni, tanto nel caso del processo pretorile
quanto  nell'istruzione  formale  condotta dal giudice istruttore. Il
processo  penale  rinnovato  dal  codice  del  1988  si  e'  ispirato
all'opposto  principio  della  separazione  dei due tipi di funzioni,
separazione  imposta  al legislatore delegato dall'art. 2, numero 67,
della  legge  16 febbraio  1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo
della  Repubblica  per  l'emanazione  del  nuovo  codice di procedura
penale),  nonche'  dall'art. 6  (Diritto  ad  un processo equo) della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali (secondo l'interpretazione della Corte europea
dei  diritti  dell'uomo),  richiamata dalla stessa legge-delega nella
prima   proposizione   dell'art. 2.  Da  questa  esigenza  deriva  la
soppressione  da  parte del nuovo codice tanto del precedente tipo di
processo  pretorile  quanto  della  figura del giudice istruttore, in
conseguenza  della scelta di modelli processuali di tipo accusatorio.
Con  riferimento  ai  riti  previsti dal nuovo codice, poi, l'art. 34
cod.  proc.  pen.,  al  comma  3, tra i vari casi di incompatibilita'
all'ufficio  di  giudice,  prevede  quello  di  chi ha esercitato nel
medesimo procedimento funzioni di pubblico ministero.
    L'anzidetto  sviluppo della legislazione processuale penale circa
il  rapporto tra funzioni di pubblico ministero e funzioni di giudice
non  e'  indipendente  dal  parallelo  rafforzamento del principio di
"terzieta'"  del  giudice  sul piano costituzionale, manifestatosi di
pari  passo  negli  orientamenti  degli  studiosi  e tradottosi nella
giurisprudenza   e   nella   legislazione  costituzionali.  Donde  la
difficolta'  di  separare con nettezza il piano delle norme poste dal
legislatore,  nell'esercizio  del suo potere discrezionale, da quello
del  principio  costituzionale  presupposto,  che  esso  e'  tenuto a
svolgere.
    Dopo  una  prima  fase  di acquiescenza di fronte alla confusione
funzionale  che,  per  vari  aspetti,  segnava  il codice processuale
abrogato  (sentenze n. 61 del 1967, n. 123 del 1970, n. 101 del 1973,
in  tema  di  procedimento penale pretorile), la giurisprudenza della
Corte  costituzionale  si  e'  decisamente  orientata  nel  senso  di
ritenere la separazione funzionale coessenziale alla struttura stessa
del  processo  penale,  secondo  i  principi  di parita' fra accusa e
difesa  e  di  "terzieta'"  del  giudice rispetto all'una e all'altra
(sentenze  n. 268  del  1986  e n. 172 del 1987, anch'esse in tema di
processo  penale pretorile, nonche', in generale, sentenze n. 330 del
1997  e n. 292 del 1992). Con la sentenza n. 131 del 1996, i medesimi
principi  assurgono  a  elementi  costitutivi  del "giusto processo",
espressione  che  compendia  la  disciplina che la Costituzione detta
circa  i caratteri della giurisdizione e i diritti di azione e difesa
in  giudizio.  Il  processo puo' dirsi giusto in quanto, tra l'altro,
sia assicurata l'esigenza di imparzialita' del giudice: imparzialita'
che  non  e'  che  un  aspetto  di  quel carattere di "terzieta'" che
connota  nell'essenziale  tanto la funzione giurisdizionale quanto la
posizione  del giudice, distinguendola da quella degli altri soggetti
pubblici,  e condiziona l'effettivita' del diritto di azione e difesa
in  giudizio.  Il  medesimo ordine di esigenze costituzionali e' alla
base,   poi,   della  giurisprudenza  di  questa  Corte  in  tema  di
incompatibilita'  al  giudizio, ex art. 34 cod. proc. pen. (a partire
dalla  sentenza  n. 432  del  1995),  e  di  astensione e ricusazione
(sentenza  n. 283  del 2000), per possibile pre-giudizio del giudice.
Questi   sviluppi   hanno   da   ultimo   trovato  la  loro  sanzione
costituzionale   formale   nel   nuovo   testo   dell'art. 111  della
Costituzione,   posto   con   l'art. 1   della  legge  costituzionale
23 novembre 1999, n. 2: "La giurisdizione si attua mediante il giusto
processo  regolato  dalla  legge"  (primo  comma);  "Ogni processo si
svolge  nel  contraddittorio  tra le parti, in condizioni di parita',
davanti a giudice terzo e imparziale" (secondo comma).
    4.3.  -  Di  fronte  al  quadro  ordinamentale  cosi'  venutosi a
configurare,  il  rapporto  tra il procedimento a carico dei ministri
per  i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni e il diritto
processuale  comune che si determinerebbe in base all'interpretazione
adottata a suo tempo dell'art. 9, comma 4, della legge costituzionale
n. 1   del  1989  e,  ora,  fatta  propria  dal  giudice  rimettente,
comporterebbe  conseguenze  assolutamente  singolari. Non lo erano al
tempo  dell'approvazione  di  tale legge, quando la commistione delle
funzioni  di  pubblico  ministero  e  di giudice non era stata ancora
superata  dal  nuovo  codice,  il  quale  versava allora in regime di
vacatio legis. Il principio della anzidetta distinzione incontrerebbe
invece,  oggi, in base a quell'interpretazione, una rottura evidente,
in  quanto  l'organo  che  ha  compiuto  le indagini preliminari e ha
richiesto    l'autorizzazione    parlamentare   avendo   escluso   la
possibilita'  di  procedere  all'archiviazione della notizia di reato
sarebbe   investito   della  celebrazione  dell'udienza  preliminare:
dovrebbe  cioe',  sulla  base delle risultanze delle indagini da esso
stesso  condotte,  adottare la sentenza di non luogo a procedere o il
decreto  che  dispone il giudizio (art. 424 cod. proc. pen.), nonche'
celebrare,  quando ne ricorrano le condizioni, il giudizio abbreviato
a  norma  dell'art. 438  cod. proc. pen., ovvero applicare la pena su
richiesta a norma dell'art. 444 cod. proc. pen.
    Una  simile  conseguenza  - salva comunque la possibilita' di una
sua  valutazione  alla  luce  dei principi supremi della Costituzione
(sentenza  n. 1146  del  1988)  -  dovrebbe  accettarsi solo se fosse
disposta esplicitamente e inconfutabilmente da una norma di revisione
della Costituzione, il che non e'.
    4.4.   -   In   primo  luogo,  come  indicazione  generale,  deve
considerarsi  che,  per quanto riguarda la responsabilita' penale dei
ministri,  la  legge  costituzionale n. 1 del 1989 - con l'esclusione
degli  artt. 1  e 2 - non e' legge di revisione della Costituzione ma
contiene norme per l'attuazione dell'art. 96 riformato. Cio', gia' di
per se', induce a ricercare l'interpretazione che ne permetta il piu'
facile  e  armonico  inserimento  nel  quadro costituzionale vigente,
tanto  piu'  in  presenza dell'intento normativo, esplicito nel nuovo
art. 96   della  Costituzione  (introdotto  dall'art. 1  della  legge
costituzionale  in  questione),  di valorizzare in materia il diritto
processuale comune.
    La  norma  dell'art. 9,  comma  4,  -  "L'assemblea,  ove conceda
l'autorizzazione,  rimette gli atti al collegio di cui all'articolo 7
perche'  continui  il procedimento secondo le norme vigenti" - deriva
dall'approvazione   da   parte   della   Camera  dei  deputati  (Atti
parlamentari  -  Camera  dei deputati - X legislatura - discussioni -
seduta  del  12 maggio  1988)  di  un  emendamento  sostitutivo della
corrispondente   norma   approvata   dal   Senato  della  Repubblica:
"L'assemblea,  ove  conceda  l'autorizzazione,  rimette  gli  atti al
procuratore  della  Repubblica  perche'  abbia  corso il procedimento
secondo le norme vigenti". L'innovazione, della cui ratio i promotori
non dettero spiegazione, consiste in questo: la rimessione degli atti
al   collegio,   anziche'   al   procuratore   della  Repubblica;  la
"continuazione   del   procedimento"   anziche'   "l'aver  corso  del
procedimento".
    Nella  seconda  "lettura"  del Senato, si levarono voci contrarie
all'innovazione   apportata   dalla   Camera   dei   deputati   (Atti
parlamentari  - Senato della Repubblica - X legislatura, 132a seduta,
Assemblea,  1 luglio 1988), che riprendevano una critica, gia' emersa
nell'altra Camera, rivolta alla possibilita' che - alla stregua della
lettera della norma - il collegio "continui il procedimento", secondo
le  norme  vigenti. In tal modo, si disse, si veniva a contraddire il
significato  generale  della  riforma,  impostata  su  una  deroga al
diritto  comune solo fino al e non oltre il momento della concessione
dell'autorizzazione  a  procedere  da  parte della Camera competente.
Nello  stesso  ordine  di  idee  si  espresse  il  relatore il quale,
peraltro,  ritenne  che  la  criticata  espressione  introdotta dalla
Camera  dei deputati - "perche' continui il procedimento" - potesse e
dovesse  leggersi:  "perche'  il procedimento continui". In tal modo,
sulla  base  della  sola  lettura testuale, si veniva a sostituire il
soggetto  della  proposizione  ("il  procedimento"  in  luogo  de "il
collegio")  e  a  intendere  in senso intransitivo il significato del
verbo  "continuare", consentendo l'ingresso nel procedimento a carico
dei ministri delle norme processuali penali comuni ("secondo le norme
vigenti")  gia' dal momento immediatamente successivo alla rimessione
degli  atti  da  parte  della  Assemblea  parlamentare. L'apertura di
questa  possibilita'  interpretativa  nel  dibattito  parlamentare al
Senato fu fatta valere per superare le ragioni che avrebbero militato
per  il  ripristino  del testo originario, approvato in prima lettura
dal  Senato  stesso, cio' che avrebbe peraltro comportato un rischio,
con  il  ritorno  all'altra  Camera,  per l'approvazione come tale o,
comunque, per l'approvazione tempestiva della legge costituzionale.
    Da   cio'  risulta  dunque  che  la  lettera  della  disposizione
dell'art. 9,  comma  4, della legge costituzionale non e' risolutiva.
E,  quanto  all'intenzione  del  legislatore  costituzionale,  al non
espresso   intento  della  Camera  dei  deputati  che  ha  introdotto
l'emendamento da cui tale disposizione e' derivata, puo' contrapporsi
l'opposto  intendimento espresso, senza incontrare dissensi, da parte
del   Senato   della   Repubblica  e  dal  relatore  della  legge  in
particolare.  Ne' puo' attribuirsi - come fatto nella sentenza n. 265
del  1990  di  questa  Corte - peso eccessivo alla circostanza che il
Senato,  nella  seduta  predetta,  ebbe  a respingere senza esplicite
motivazioni  un emendamento volto a ripristinare l'originario art. 9,
comma 4: la spiegazione di tale rigetto puo' ragionevolmente trovarsi
in   quella   stessa   esigenza  di  conclusivita'  del  procedimento
legislativo  che  aveva  indotto  ad  approvare comunque il testo che
proveniva dalla Camera dei deputati.
    4.5. - L'obiettiva incertezza derivante dalla lettera della legge
e  dall'intenzione  del  legislatore induce allora a far prevalere le
ragioni   sistematiche   che   sopra  si  sono  dette  e  a  ritenere
conclusivamente    che,    una    volta   concessa   l'autorizzazione
dall'Assemblea  parlamentare,  nella forma prevista dal comma 3 dello
stesso  art. 9,  gli  atti siano restituiti al collegio che a essa li
aveva  inviati,  affinche'  il procedimento prosegua secondo le forme
ordinarie,  vale  a dire per impulso del pubblico ministero e davanti
agli  ordinari  organi  giudicanti  competenti. Cio' e' per l'appunto
quanto  risulta  pianamente  dall'impugnato art. 3 della legge n. 219
del 1989, la cui compatibilita' con l'interpretazione fino a ora data
alla corrispondente norma della legge costituzionale non risulterebbe
invece  evidente.  Tale  art. 3, commi 1 e 2, infatti, stabilisce che
"quando   gli   atti  siano  stati  rimessi  ai  sensi  del  comma  4
dell'articolo  9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, al
collegio  ivi  indicato,  il  procedimento  continua secondo le norme
ordinarie vigenti al momento della rimessione" e aggiunge che, in tal
caso,  "il  collegio provvede senza ritardo a trasmettere gli atti al
procuratore   della   Repubblica   presso   il   tribunale   indicato
nell'articolo 11 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1".
    5. - Cosi'  ricostruito il sistema e, in esso, cosi' precisata la
portata   della   norma   impugnata,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  sollevata dal Collegio per i procedimenti relativi ai
reati  previsti  dall'art. 96  della Costituzione istituito presso il
Tribunale   di   Napoli   deve  essere  dichiarata  non  fondata  per
l'erroneita'  del  presupposto  interpretativo  dal  quale il giudice
rimettente e' partito.