IL TRIBUNALE

    Sciogliendo la riserva che precede, osserva:
    1. -   Nel caso in esame, poiche' vi e' stata la diserzione delle
parti costituite in un'udienza successiva alla prima, deve applicarsi
l'art. 309 c.p.c., che rinvia all'art. 181 c.p.c., primo comma.
    Secondo  tali  norme  il  giudice  deve fissare con ordinanza una
nuova  udienza,  di  cui  il cancelliere deve dare comunicazione alle
parti costituite. Se anche in tale udienza nessuno compare il giudice
ordina  la  cancellazione  della causa dal ruolo ed il processo resta
quiescente  per  un anno, ed a volte anche per un periodo piu' lungo,
se  si  applica  la  sospensione dei termini del periodo feriale e si
estinguera'  se  entro  tale  termine  non sara' riassunto. (art. 307
c.p.c., secondo comma).
    Gli  inconvenienti  che  derivano dall'applicazione di tali norme
sono notevoli, dovendo non solo il giudice fissare una nuova udienza,
ma  anche  il  cancelliere  comunicare  l'ordinanza mediante consegna
diretta  al  destinatario  ovvero  tramite  ufficiale  giudiziario  e
conservare  la documentazione dell'avvenuta comunicazione di ufficio,
la cui mancanza e' causa della nullita' di tutti gli atti successivi.
    Nella  migliore  delle  ipotesi, pertanto, la cancellazione della
causa  dal ruolo potra' avvenire solo dopo alcuni mesi e l'estinzione
del   giudizio   solo   dopo  un  anno  dall'avvenuta  cancellazione.
L'opposto,  ad  esempio,  che  voglia  ottenere  l'esecutorieta'  del
decreto  ingiuntivo,  non provvisoriamente esecutivo, dovra', dopo la
cancellazione  della  causa  dal ruolo, riassumere il giudizio e solo
nessuna  delle  parti si costituira', potra' ottenerla, con una nuova
cancellazione  della causa dal ruolo e la dichiarazione di estinzione
del   giudizio,   ...  E'  evidente  che  questo  iter  comporta  una
prolungata,  ingiustificata  e  non  fisiologica durata del processo,
aggravando  notevolmente  la  pendenza  dei  giudizi,  soprattutto di
quelli  anteriori  al  30  aprile  1995,  per  il  cui esaurimento il
legislatore  ha  varato la legge n. 276/1997, con la quale ha chiesto
l'aiuto  dei  laici  giudici  onorari  aggregati. Costoro, nonostante
l'abnegazione  e  l'impegno, ormai riconosciuti, non possono incidere
piu'  celermente  fin  quando saranno in vita norme che permettono di
allungare,  inutilmente,  i  tempi di definizione dei processi, e che
perfino  prevalgono  sull'art. 175,  che  pure  impone  al giudice di
esercitare  i  poteri "intesi ad un sollecito e leale svolgimento del
processo.".
    In  casi  particolari  a volte la fissazione di una nuova udienza
comporta  la  comparizione  delle parti salvo poi a doversi applicare
successivamente  l'art. 309  c.p.c.  a causa di una nuova diserzione,
poiche'  nello  stesso  grado  possono  aversi  piu'  rinvii ai sensi
dell'art. 309  c.p.c.,  se  la  causa  non  e'  stata  gia' una volta
cancellata dal ruolo.
    L'applicazione  delle  predette norme, pero', non produce solo le
conseguenze  negative  suindicate,  ma  pregiudica  la sorte anche di
altri processi e, piu' in generale, si ripercuote sull'organizzazione
degli stessi uffici.
    Prima  della  cancellazione, infatti, la causa continua a gravare
sul  ruolo delle cause assegnate al giudice e sul ruolo di udienza ed
anche  dopo la cancellazione rimane ad occupare scaffali in attesa di
una   possibile   riassunzione:   se   sara'  riassunto  il  processo
riprendera' il suo lento corso.
    A   volte   basta   il   rinvio   di  un'udienza  determinato  da
un'astensione  a  spostare  ancor  piu'  in  la'  nel  tempo anche il
traguardo della cancellazione della causa dal ruolo.
    E'  noto  che  la statistica ha rivelato che sono molte le cause,
(circa  il  50%),  che  potrebbero essere eliminate, se non dovessero
applicare  le  suddette  norme,  le quali fanno sprecare una serie di
attivita'  a  volte solo per permettere di prendere atto che le parti
ormai  da  tempo  non  avevano  piu'  interesse alla prosecuzione del
giudizio   e  che,  ciononostante,  la  pendenza  della  controversia
continuava a far numero ed a pesare anche sull'organizzazione e degli
uffici  giudiziari  e  su  di una migliore utilizzazione dei giudici,
spesso rapportata al numero delle cause assegnate.
    2. - Il  legislatore,  per la verita', aveva tentato di apportare
delle modifiche, introducendo l'art. 16 della legge 26 novembre 1990,
n. 353,  ma  ha  fatto  macchina  indietro in sede di conversione del
decreto-legge  18 ottobre  1985,  n. 432, introducendo il comma 1-bis
dell'art. 4 legge 20 dicembre 1995 n. 534.
    Bisogna  anche dire che la Corte costituzionale non ha mancato di
affermare:
        1)  che  la durata del processo non deve andare a danno della
parte che ha ragione (Corte cost. 28 giugno 1985, n. 190);
        2) l'illegittimita' di un sistema, che, pur non escludendo la
tutela  giurisdizionale, lo renda estremamente difficile (Corte cost.
17 marzo 1998, n. 62);
        3)   l'illegittimita'   delle  norme  che  impongano  termini
dilatori senza una giustificazione costituzionalmente rilevante.
    La  Corte,  inoltre,  nella  sentenza 22 ottobre 1999, n. 388, ha
affermato che: "l'effettivita' della tutela dei propri diritti, a cui
e'  preordinata  l'azione, ed in definitiva la stessa efficacia della
giurisdizione, si combina con la durata ragionevole del processo".
    Per  non  dire della CEDU che ha piu' volte ribadito il principio
del "delai raisonnable" e dell'art. F, comma 1 (ora art. 6, a seguito
delle  modifiche  introdotte  dal Trattato di Amsterdam) del Trattato
sull'Unione  europea  (che  opera  nel  nostro ordinamento secondo un
orientamento   ormai   consolidato  per  effetto  dell'art. 11  della
Costituzione)  che  ha  stabilito  che  l'Unione  rispetta  i diritti
fondamentali  quali  sono  garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali e
quali  risultano  dalle  tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri,  in quanto principi generali del diritto comunitario. Proprio
in  relazione  alla  ragionevole  durata del processo ha affermato si
debba considerare:
        1) la complessita' del caso;
        2) la condotta del ricorrente;
        3) il comportamento dell'autorita' giudiziaria.
    3. - Il   legislatore   si   e'  quindi  indotto  ad  introdurre,
modificando  l'art. 111, secondo comma, con la legge n. 2 del 1999 il
principio  della  durata  ragionevole del processo. Ormai non si puo'
dubitare  che  l'art. 111,  Cost.,  secondo  comma, ormai deve essere
preso  in  considerazione per scrutinare la legittimita' di qualsiasi
norma "in grado di influire sulla durata del processo";
    Con  la  legge costituzionale n. 2 del 1999 ha assunto un rilievo
particolare  il principio dell'economia processuale, secondo il quale
solo  assicurando  tale  principio  la  legge assicura la ragionevole
durata  del  processo.  Le  norme  processuali, pertanto, si e' detto
devono   preoccuparsi   di  garantire  non  solo  l'economia  interna
(risparmio   di  attivita',  di  tempo),  ma  anche  quella  esterna,
prevenendo il sorgere di altri processi.
    Il  legislatore,  che  finora  non  ha  tradotto in concreto tale
principio  ed  ha  manifestato,  invece,  tutto il suo pessimismo sui
tempi processuali (anche solo di quelli che conducono alla formazione
del  titolo  giudiziario-esecutivo  se  non proprio del giudicato che
l'art. 324 c.p.c. relega nel tempo), varando, con la legge c.d. Pinto
del  24 marzo  2001,  n. 89,  una  disciplina  c.d. "municipale della
violazione  del  termine  di  ragionevole durata del processo, che ha
fatto scrivere, che "e' ben strano che lo Stato, da un lato inserisca
tra  i suoi principi fondamentali quella della ragionevole durata del
processo,  e  dall'altro,  quasi dando per scontata l'inosservanza di
tale principio, preveda addirittura come soluzione fisiologica quella
dell'indennizzo,    cosi'    convertendo    l'obbligo    primario   e
costituzionalmente  protetto  di  rendere  una tempestiva prestazione
giudiziaria in una sorta di obbligazione pecuniaria surrogatoria".
    Volendo  evitare di subire subito delle condanne in sede europea,
sull'esempio di esperienze spagnole, ha finito cosi' per far inondare
di  ricorsi  le  Corti  di  appello  e  di allungare i tempi di altri
processi,  sperando  forse,  per  ragioni  economiche  che tali corti
sarebbero  state  inclini,  tra  l'altro,  a  ristorare  il danno non
patrimoniale, oltre che tramite condanna pecuniaria, anche attraverso
"forme  adeguate  di  pubblicita'  della  dichiarazione dell'avvenuta
violazione," destinate a lenire l'avente diritto.
    Sembra  piuttosto  una  grida  di  manzoniana memoria l'art. 5 di
detta  legge,  rubricato  "Comunicazioni", il quale prevede che "ogni
decreto  di  condanna debba essere comunicato al procuratore generale
della  Corte  dei  conti  affinche' proceda a far accertare eventuali
responsabili  per  danni  erariali".  La  comunicazione  va  fatta ai
titolari   dell'azione  disciplinare  sui  dipendenti  pubblici,  cui
risultino  addebitabili,  solidalmente  o  in  concorso,  le rilevate
lungaggini   (cioe'   magistrati,   cancellieri,   notai,   ufficiali
giudiziari ed in caso di abnorme condotta anche agli avvocati). Norma
questa  che  stranamente  non  ha  fatto  scattare  i giudici, la cui
attivita'  verrebbe  sottoposta  al  vaglio  del Procuratore generale
della  Corte  dei  conti e non piu' a quella benevole e mite dei capi
degli uffici e del C.s.m.
    La   legge  Pinto,  come  e'  evidente,  dara'  al  cittadino  la
soddisfazione   di   poter   incorniciare   il  decreto  di  condanna
dell'avvenuta  violazione  ai suoi danni del principio costituzionale
della  ragionevole  durata  del processo, ma non ne produrra' la piu'
celere  definizione,  che  e'  ovviamente  la cosa che piu' gli sta a
cuore.  Non sara' semplice comunque applicare il citato art. 5 fino a
quando  rimarranno  in  vita  gli  artt. 309,  181, primo comma e 307
c.p.c,   secondo   comma   come   innanzi   indicati.  Devono  quindi
condividersi  le  motivazioni  con  cui  il  Tribunale di Napoli, con
ordinanza   del   2 febbraio  2000,  ha  sollevato  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 181  c.p.c.,  primo  comma in
relazione all'art. 111, secondo comma della Costituzione.
    Secondo  questo  giudice,  tuttavia,  per  la  piena  e  concreta
attuazione  dell'art. 111  ,secondo  comma  Cost.,  non basta che sia
dichiarata  la incostituzionalita' dell'art. 181, primo comma e cosi'
come  riformulato  dalla legge 20 dicembre 1995, n. 534, a cui rinvia
l'art. 309    c.p.c.,   ma   occorre   che   sia   dichiarata   anche
l'incostituzionalita' dell'art. 307 c.p.c. nella parte in cui prevede
che, in caso di cancellazione della causa dal ruolo, il processo deve
essere  riassunto  davanti allo stesso giudice nel termine perentorio
di un anno, che decorre dalla data del provvedimento di cancellazione
altrimenti  il processo si estingue. Non e' coerente con il principio
della  ragionevole  durata  del  processo  ibernare  la causa ancora,
inutilmente, per un anno e forse anche oltre, in caso di applicazione
della sospensione dei termini nel periodo feriale.
    Dichiarati  illegittimi  gli  artt. 181,  309 e 307 c.p.c., nella
parte  innanzi indicata, il giudice, consentendolo l'art. 176 c.p.c.,
potra'  cosi'  fissare  nella  stessa  udienza  la precisazione delle
conclusioni e trattenere la causa in decisione, assegnando alle parti
i  termini per il deposito e lo scambio di memorie difensive. Scaduti
i   quali,  il  giudice  emettera'  sentenza,  decidendo  le  domande
propostegli,  se  almeno  una  delle  parti  avra'  deposita  memoria
difensiva,  ovvero, in caso contrario, dichiarando cessata la materia
del contendere.
    Cio'   non   darebbe   luogo  ad  alcuna  violazione  di  diritti
costituzionalmente  garantiti,  ma  al  contrario renderebbe concreta
l'applicazione  del  principio della durata ragionevole del processo.
Nessun  danno subirebbero le parti se avessero gia' definito tra loro
la  lite; in caso contrario non potrebbero che essere liete della sua
ravvicinata definizione.
    Essendo,  pertanto, rilevanti per la decisione di questo giudizio
le   questioni   di   legittimita'   costituzionali  sollevate,  deve
sospendersi  il presente giudizio e rimettere le dette questioni alla
Corte costituzionale.