IL TRIBUNALE A parziale scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza a data 18 febbraio 2002 nell'ambito del procedimento pendente nei confronti del signor Bosia Giampiero nato a Cuneo il 26 giugno 1948, assistito e difeso dall'avvocato Claudio Demaria del Foro di Cuneo, presso il cui studio elettivamente domicilia indagato per il reato di cui all'art. 635 c.p. perche', percuotendo il capo di Duranda Sandro, gli faceva cadere a terra gli occhiali i quali restavano irrimediabilmente danneggiati e resi inservibili dalla caduta e dal successivo scalpiccio sopra - fatti commessi in Borgo San Dalmazzo il 12 ottobre 1997; Vista la richiesta di archiviazione presentata dal Pubblico Ministero; Sentite le parti in camera di consiglio O s s e r v a Nell'ambito di procedimento penale iscritto nel 1997 a carico di noti per i reati di cui agli artt. 582 e 635 c.p., il pubblico ministero operava stralcio in relazione al delitto ex art. 635 presentava, in data 23 agosto 2001, ormai irrimediabilmente scaduti i termini di indagine, richiesta di archiviazione. A fronte di detta richiesta il g.i.p. riteneva di procedere a fissazione di udienza camerale, all'esito riservandosi la decisione e riscontrando, gia' da una sommaria deliberazione, la penale rilevanza del materiale accusatorio in atti, potendosi profilare non una condotta colposa, bensi' una ipotesi di dolo eventuale capace di determinare la riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 635 cpv. n. 1 c.p. A fronte della ritenuta necessita' di respingere la richiesta di archiviazione, determinando il P.M. all'immediato esercizio dell'azione penale - non paiono necessarie ulteriori indagini - si presenta a questo giudice un rilevante problema di legittimita' costituzionale che appare non manifestamente infondato in virtu' delle considerazioni che seguono. Il complesso delle disposizioni dettate dall'art. 409 c.p.p. si pone a garanzia della concreta attuabilita' del principio costituzionale che vuole improntato ad obbligatorieta' l'esercizio dell'azione penale. In particolare, compete al giudice per le indagini preliminari il controllo sull'inazione del pubblico ministero, sicche' proprio tale giudice puo' e deve disporre che il pubblico ministero proceda, laddove il materiale raccolto in sede di indagini preliminari renda evidente la necessita' di un compiuto vaglio giurisdizionale e non necessiti di ulteriori approfondimenti. In particolare, la disposizione di cui all'art. 409 co. 5 c.p.p., risale all'originario impianto del codice di rito e venne dettata a regolare il rito di competenza del Tribunale: quindi il Legislatore aveva a modello i procedimenti per delitti che necessitassero della celebrazione dell'udienza preliminare. Si comprende quindi come la norma in questione disponga che il giudice, semplicemente, ordini al pubblico ministero di formulare l'imputazione, fissando poi senza ritardo proprio l'udienza preliminare: singolarmente, l'art. 128 disp. att. c.p.p. attribuisce a quel giudice - dissenziente rispetto alla richiesta di archiviazione formulata dal p.m. - non solo il compito di far notificare all'imputato il decreto di fissazione dell'udienza preliminare, ma anche di inserire, in quella vocatio ed in quel solo caso, alcuni degli elementi altrimenti propri della richiesta di rinvio a giudizio, atto col quale il pubblico ministero esercita l'azione penale per i reati che necessitino del vaglio predibattimentale. Tale complesso normativo - in quanto applicabile - regola ormai anche il rito relativo ai reati che prevedono la citazione diretta a giudizio: cio' e' sancito dall'art. 549 c.p.p., norma di apertura del libro VIII, riformulato con la legge n. 479/1999. Quindi, a differenza di quanto avveniva nell'ormai desueto rito pretorile, il giudice per le indagini preliminari che dissenta dalla richiesta di archiviazione o sia sollecitato da valida opposizione, provvede a seguito di udienza camerale e non piu' de plano. In tale contesto sopravviene l'art. 415-bis c.p.p., la cui letterale dizione pare, di fatto, precludere al giudice per le indagini preliminari il concreto esercizio dell'obbligo conferitogli dalla disposizione di cui al quinto comma dell'art. 409 c.p.p. Infatti la recente norma, interpolata dalla ricordata legge n. 479, prescrive al pubblico ministero, qualora non intenda formulare richiesta di archiviazione, di notificare l'avviso di conclusione delle indagini e cio' "prima della scadenza del termine previsto dal comma due dell'art. 405": quindi colloca temporalmente l'adempimento, ed in maniera rigida. L'omissione di quell'avviso genera nullita' assolute rilevabili d'ufficio, giacche' l'art. 552, comma 2 c.p.p. specificamente dispone in tal senso. Quindi, l'art. 415-bis c.p.p. detta una norma che pone una condizione necessaria per l'esercizio dell'azione penale: insoddisfatta, determina azioni geneticamente viziate, ma pare precludere al corretto ed efficace esercizio dell'azione penale coatta ove il p.m. abbia invece inteso formulare richiesta di archiviazione a termini di indagine ormai scaduti. Se infatti non si pongono particolari problemi laddove il giudice per le indagini preliminari, non condividendo la richiesta di archiviazione, solleciti al pubblico ministero ulteriori attivita' investigative - prorogato comunque o implicitamente rinnovato il termine di indagini, il requirente potra', all'esito, formulare l'avviso previsto dall'art. 415-bis - sembra sorgere una irrisolvibile discrasia ove il giudice, come nel presente caso, spirato ormai il termine di indagine, ritenga il materiale istruttorio insuscettibile di utili approfondimenti e, tuttavia, rifiuti la pronuncia di archiviazione, ritenendo la necessita' di imporre al pubblico ministero l'esercizio dell'azione penale, determinandolo a formulare senz'altro l'imputazione. Infatti, il magistrato requirente, cosi' sollecitato, dovrebbe successivamente emettere il decreto di citazione a giudizio, ma senza aver dato tempestivamente all'indagato - di fatto: imputato - l'obbligatorio avviso: ne conseguirebbe, appunto, una vocatio geneticamente affetta da nullita', esplicitamente comminatale dall'art. 552 co. 2 c.p.p. La discrasia non puo' esser nemmeno superata da una forse temeraria e, comunque, asistematica interpretazione estensiva dell'art. 128 disp. att. c.p.p. Non si puo' infatti ritenere che il giudice per le indagini preliminari possa fissare udienza preliminare per reati che prevedono la citazione diretta, ne' che debba emettere direttamente il decreto di citazione a giudizio sulla scorta dell'imputazione formulata coattivamente dal pubblico ministero: compete al requirente l'esercizio dell'azione penale, ne' puo' interpretarsi estensivamente una norma - peraltro singolare - dettata per un diverso contesto, specie dopo che il legislatore, nel solco di notissime sentenze della Consulta, ha inteso accentuare la netta separazione funzionale tra il giudice per le indagini preliminari ed il giudice per l'udienza preliminare. Del resto, ove si volesse sostenere tale interpretazione, il giudice per le indagini preliminari dovrebbe surrogarsi al p.m. anche negli adempimenti previsti dall'ultimo comma dell'art. 552 c.p.p. e dal seguente art. 553: ma, a questo punto, eserciterebbe egli l'azione penale, sostituendosi al pubblico ministero nell'adempimento di una funzione costituzionalmente conferitagli, giacche' non puo' comunque ritenersi che tale esercizio possa concretizzarsi, da parte del requirente, nella mera formulazione dell'imputazione. Anzi, nell'ambito di un sistema improntato al principio accusatorio, proprio la citazione diretta rappresenta l'esito sistematicamente piu' conforme al canone: tale impostazione pare trovare conferma ermeneutica nel vecchio testo dell'art. 554 co. 2 c.p.p., laddove si leggeva "il giudice, se non accoglie la richiesta di archiviazione, restituisce con ordinanza gli atti al pubblico ministero, disponendo che, entro dieci giorni, questi formuli l'imputazione ai fini degli adempimenti previsti dagli articoli 555 e seguenti". Inoltre, nell'odierno contesto normativo, l'art. 415-bis c.p.p. si pone come fondamentale momento di garanzia per l'indagato: egli puo' presentare memorie, produrre documentazione, frutto anche di investigazioni difensive ed esercitare diverse facolta' che i ristretti termini dell'udienza camerale certo non consentono. Se infatti puo' ipotizzarsi che la fissazione dell'udienza camerale assolva, pur in termini temporali assai piu' ristretti, alle garanzia di cui al comma 2 dell'art. 415-bis (c.d. discovery), rimarrebbero frustrate tutte le ulteriori facolta' che la disposizione conferisce all'indagato, con consequenziali problemi in ordine alla utilizzabilita' degli atti eventualmente prodotti o acquisiti su impulso dell'indagato, ma dopo lo spirare del termine di indagini preliminari. Sembra quindi che il combinato disposto delle richiamate disposizioni - artt. 409 commi 5, 552 e 4l5-bis c.p.p. - vada ad incidere sui principi costituzionali sanciti dagli artt. 112 e 24 co. 2 della Costituzione, da un lato determinando il p.m. ad un esercizio dell'azione penale radicalmente nullo e, dall'altro, privando l'indagato di un momento difensivo di assoluta rilevanza, posto proprio in prossimita' dello snodo potenzialmente idoneo a trasformare il procedimento in processo, o ad impedire, in forza delle allegazioni difensive, tale mutazione; Sembra anche potenzialmente leso il principio di cui all'art. 101, comma 2, della Carta costituzionale, giacche' il giudice - spirato il termine di indagini e formulata dal p.m. la richiesta di archiviazione - non potrebbe adempiere al dovere di sollecitare l'esercizio di un'azione penale validamente esperible, rimanendo cosi' esposto ad una scelta discrezionale del pubblico ministero teso all'inerzia processuale: e cio' sembra porsi in contrasto anche col piu' generale principio di ragionevolezza. A fronte di tale situazione, pare di necessita' disporre la sospensione del procedimento al fine di rimettere gli atti alla Corte costituzionale.