ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi di legittimita' costituzionale del combinato disposto di
cui  agli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice
di  procedura penale, e dell'articolo 341 del codice penale, promossi
con  ordinanze  emesse il 29 maggio (n. due ordinanze) e il 13 luglio
2001  dal  Tribunale di Rovereto, rispettivamente iscritte al n. 668,
n. 669  e  n. 897  del  registro  ordinanze  2001  e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n. 37  e  n. 44,  prima serie
speciale, dell'anno 2001.
    Udito  nella  camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto  che,  nel corso di un procedimento di esecuzione avente
ad  oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale di
condanna  per  vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico
ufficiale,  e  la  conseguente rideterminazione della pena sulla base
dell'intervenuta  abrogazione  dell'articolo  341  del  codice penale
disposta  dall'articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega
al  Governo  per  la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al
sistema   penale   e   tributario),  il  Tribunale  di  Rovereto,  in
composizione  monocratica, con ordinanza in data 29 maggio 2001 (r.o.
n. 668   del  2001),  ha  sollevato  due  questioni  di  legittimita'
costituzionale:  l'una, avente ad oggetto il combinato disposto degli
artt. 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura
penale,  in  riferimento  agli  artt. 3, primo comma, 13, 25, secondo
comma,  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione; l'altra, relativa
all'art. 341  del codice penale, in riferimento agli artt. 1, secondo
comma,  2, 3, primo e secondo comma, 13, 25, secondo comma, 27, terzo
comma, 28, 49, 54 e 97, primo comma, della Costituzione;
        che  il  remittente  -  preso atto della ordinanza n. 107 del
2001,   con   la  quale  questa  Corte  ha  dichiarato  la  manifesta
inammissibilita' di analoghe questioni di legittimita' costituzionale
allora  prospettate  in  un  legame  irrisolto  di  alternativita'  -
ripropone  le  medesime  questioni,  attribuendo  valore principale a
quella relativa al combinato disposto di cui all'art. 2, terzo comma,
cod.  pen. e  all'art. 673  cod. proc. pen., in quanto tale questione
verrebbe  in  considerazione  "in  via  piu'  immediata e diretta nel
procedimento  di  esecuzione"  e  coinvolgerebbe  "tutti  i  casi  di
successione di leggi penali nel tempo in cui la legge successiva piu'
favorevole modifica il regime di procedibilita' del reato o la stessa
specie  di  pena, sicche' il suo accoglimento avrebbe effetti di piu'
ampia e generale portata";
        che,  in  particolare,  secondo  il  giudice  a quo una volta
riconosciuto che nel caso di specie ricorre un'ipotesi di successione
di  leggi  penali nel tempo e non una abolitio criminis non sarebbero
applicabili  gli  artt. 2,  secondo comma, cod. pen. e 673 cod. proc.
pen.,  ma  l'art. 2,  terzo  comma,  cod. pen., nella parte in cui fa
salvi  in  tali casi gli effetti del giudicato anche se la disciplina
successiva sia piu' favorevole, e, conseguentemente, nel procedimento
di   esecuzione  sarebbero  queste  le  disposizioni  che  verrebbero
immediatamente  in  considerazione,  essendo  in  prima battuta ed in
linea  di  principio  irrilevante  la  norma incriminatrice che aveva
trovato applicazione nel processo di cognizione;
        che,  pertanto,  la  questione  riguardante  l'art. 341  cod.
pen. assumerebbe rilievo solo a condizione che la prima questione sia
dichiarata  infondata o inammissibile e sarebbe, percio', logicamente
subordinata ad essa;
        che,  con  la prima questione, il remittente - muovendo dalla
premessa  che  l'art. 18  della  legge  n. 205  del  1999 non avrebbe
comportato  una  vera  e  propria  abolitio  criminis ma una semplice
successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, poiche' tutti i
comportamenti   previsti  dall'art. 341  cod.  pen. dovrebbero  ormai
essere ricondotti alla piu' generale fattispecie dell'ingiuria di cui
all'art. 594  dello  stesso  codice, eventualmente aggravata ai sensi
dell'art. 61,  numero  10  - dubita della legittimita' costituzionale
del  combinato  disposto  degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673
cod.  proc.  pen.,  nella  parte  in cui non consente la modifica del
giudicato,  in  sede  di  procedimento  di  esecuzione,  nel  caso di
successione   di   leggi  penali  nel  tempo  con  effetto  meramente
modificativo  e  conseguente abrogazione di una norma incriminatrice,
per lo meno nei casi in cui l'intervento legislativo viene a porre in
discussione  l'an  della sanzione, mediante la modifica del regime di
procedibilita'  del reato, ovvero il quantum o la species della pena,
prevedendo  la  nuova  disciplina  la  pena  pecuniaria  (sia pure in
alternativa) in luogo di quella detentiva;
        che  ad avviso del Tribunale di Rovereto, la ratio sottesa al
limite   del   giudicato   posto   dall'art. 2,   terzo  comma,  cod.
pen. sarebbe  "eminentemente pratica", cioe' connessa all'esigenza di
evitare   un   nuovo  giudizio  ad  ogni  sopravvenire  di  modifiche
normative;  si  tratterebbe, quindi, di un fondamento certamente meno
"alto"  ed  importante  rispetto  a  quello a base della regola della
retroattivita'  della  norma favorevole, consistente nel principio di
eguaglianza sotto il profilo della parita' di trattamento;
        che,  rileva  il  giudice a quo il limite del giudicato posto
dal   terzo   comma  dell'art. 2  cod.  pen. sarebbe  intrinsecamente
irragionevole  sia  in rapporto alla diversa regola di cui al secondo
comma  del  medesimo  art. 2,  sia  "all'interno  dei  casi  di  mero
intervento   modificativo,   in   senso   favorevole,  da  parte  del
legislatore";
        che,  prosegue  il  remittente, la mancanza di ragionevolezza
della disciplina censurata sarebbe evidente almeno nel caso in cui la
modifica  legislativa  non incidesse solo su aspetti secondari o solo
sui limiti edittali di pena, ma comportasse, come nel caso di specie,
una  modifica  del  regime di procedibilita' e della stessa specie di
pena    irrogabile,   determinando   il   passaggio   da   una   pena
obbligatoriamente  detentiva  ad una pena pecuniaria, sia pure in via
alternativa:  in  simili  casi, infatti, verrebbero in considerazione
anche  altri  parametri  costituzionali,  quali  l'art. 13  Cost., in
riferimento  al  bene  supremo  della  liberta' personale, l'art. 25,
secondo  comma, Cost., in riferimento al principio di offensivita', e
l'art. 27,  terzo  comma,  Cost.,  dal  quale  sarebbe  desumibile il
principio di proporzione tra fatto e pena;
        che,  rileva  ancora il Tribunale di Rovereto, l'accoglimento
della  prospettata  questione  di  costituzionalita' consentirebbe di
applicare  l'art. 673  cod.  proc.  pen. tutte  le  volte  in  cui la
successiva  legge piu' favorevole escludesse la punibilita' del fatto
per  qualsiasi  ragione  (anche attinente al regime di procedibilita)
ovvero l'applicazione di una pena detentiva;
        che,  con  la seconda questione, il giudice a quo osserva che
se   "in   tutti  i  giudizi  di  cognizione  in  corso  per  effetto
dell'intervenuta  abrogazione  dell'art. 341 cod. pen. dovra' trovare
applicazione  la  piu' mite disciplina di cui all'art. 594 cod. pen.,
ai  sensi  dell'art. 2,  terzo  comma,  cod. pen.", al contrario, nei
procedimenti  di  esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate
in   giudicato,  un'eventuale  dichiarazione  di  incostituzionalita'
dell'art. 341  cod. pen. comporterebbe l'applicazione, in luogo della
disciplina  di  cui  all'art. 2  cod.  pen., dell'art. 30 della legge
11 marzo 1953, n. 87;
        che,  prosegue  il  remittente precisando la sua tesi, mentre
gli  effetti  del  sopravvenire  di  un  atto  legislativo andrebbero
distinti  a  seconda  che  si  tratti  di abolitio criminis o di mera
successione  nel tempo di leggi penali, riconducibili rispettivamente
al  secondo  e  al  terzo  comma  dell'art. 2  cod. pen., nel caso di
dichiarazione di illegittimita' costituzionale di una disposizione di
legge   l'art. 30  della  legge  n. 87  del  1953  non  consentirebbe
distinzione   alcuna,   poiche'   si  imporrebbe  sempre  e  comunque
l'efficacia  retroattiva della pronuncia di incostituzionalita' senza
alcun limite di carattere processuale;
        che sarebbe appunto questa la ragione per la quale l'art. 341
cod.  pen.,  anche  se  abrogato,  potrebbe  formare  oggetto  di una
questione   dotata   del   requisito   della  rilevanza:  l'eventuale
accoglimento  di  tale  questione comporterebbe l'applicabilita', non
piu'  dell'art. 2  cod.  pen.,  ma dell'art. 30 della legge n. 87 del
1953 e, quindi, sul piano processuale, dell'art. 673 cod. proc. pen.,
con la conseguente revoca, nel giudizio principale, della sentenza di
condanna;
        che,  quanto alla non manifesta infondatezza della questione,
il  remittente  dubita, in riferimento ai suindicati parametri, della
legittimita' costituzionale:
          a)   della  configurazione  dell'oltraggio  a  un  pubblico
ufficiale come autonomo reato, anziche' quale aggravante del reato di
ingiuria;
          b)  in  subordine,  del  tipo  e  della  entita' delle pene
stabilite per tale reato, a causa della mancata previsione della pena
pecuniaria  in  alternativa  a  quella  detentiva,  e  del  regime di
procedibilita' d'ufficio anziche' a querela di parte;
        che,  nel corso di altro procedimento di esecuzione avente ad
oggetto  la  richiesta  di  revoca  di  una  sentenza  pronunciata ex
art. 444  cod.  proc.  pen. per  il  reato  di  oltraggio  a pubblico
ufficiale  a  seguito dell'intervenuta abrogazione dell'art. 341 cod.
pen.,  il  Tribunale  di  Rovereto,  in composizione monocratica, con
ordinanza   in  data  29 maggio  2001  (r.o.  n. 669  del  2001),  ha
sollevato,   sulla  base  delle  medesime  argomentazioni,  identiche
questioni di legittimita' costituzionale sia dell'art. 341 cod. pen.,
sia  del  combinato  disposto  di cui agli artt. 2, terzo comma, cod.
pen. e 673 cod. proc. pen;
        che,  nel  corso  di  un  terzo  procedimento  di  esecuzione
concernente  la  revoca  di  una  sentenza  penale di condanna per il
delitto  di oltraggio a pubblico ufficiale a seguito dell'intervenuta
abrogazione  dell'art. 341  cod.  pen.,  il Tribunale di Rovereto, in
composizione  collegiale,  con ordinanza in data 13 luglio 2001 (r.o.
n. 897  del  2001),  ha sollevato identiche questioni di legittimita'
costituzionale delle medesime disposizioni sopra indicate.
    Considerato  che,  poiche'  le  ordinanze di rimessione sollevano
analoghe questioni di legittimita' costituzionale, i relativi giudizi
vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
        che   il   giudice   a   quo  muovendo  dal  presupposto  che
l'abrogazione  dell'articolo  341  del  codice  penale, che puniva il
reato  di  oltraggio  a pubblico ufficiale, disposta dall'articolo 18
della  legge 25 giugno 1999, n. 205 non avrebbe comportato una vera e
propria  abolitio  criminis  ma  avrebbe  dato  luogo ad una semplice
successione  nel  tempo  di leggi penali incriminatrici, dovendosi, a
suo   avviso,   applicare  ai  fatti  di  oltraggio  le  disposizioni
penalistiche  che  prevedono  il  reato  di ingiuria aggravata per la
qualita'  della persona offesa, solleva due questioni di legittimita'
costituzionale  subordinate  l'una  all'altra, cosi' da consentire di
prendere  in  esame la seconda questione solo in caso di rigetto o di
inammissibilita' di quella posta in via principale;
        che, in particolare, in via principale il remittente denuncia
il  combinato  disposto  degli  artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673
cod. proc. pen., nella parte in cui non consentirebbe la modifica del
giudicato,  in  sede  di  procedimento  di  esecuzione,  nel  caso di
successione di leggi penali nel tempo, perlomeno nelle ipotesi in cui
l'intervento   legislativo   si  limita  a  incidere  sul  regime  di
procedibilita'  del reato (a querela anziche' di ufficio), ovvero sul
quantum  o  sulla  species  della  pena  (pecuniaria, sia pure in via
alternativa, anziche' esclusivamente detentiva);
        che  in  via  subordinata  il  medesimo remittente, pur nella
consapevolezza   della  sua  intervenuta  abrogazione,  sottopone  al
giudizio  di  questa  Corte  l'art. 341  cod. pen., ritenendo che una
eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione  comporterebbe  l'applicazione,  in  luogo  dell'art. 2,
terzo  comma,  cod.  pen.,  dell'art. 30  della  legge 11 marzo 1953,
n. 87,  che  non  distinguerebbe l'ipotesi della abolitio criminis da
quella   della   successione  nel  tempo  di  leggi  penali,  con  la
conseguenza  che  la  sentenza  di condanna per il reato di oltraggio
potrebbe essere revocata ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen;
        che,  ponendo le due questioni in rapporto di subordinazione,
il  giudice  a  quo  supera indubbiamente quel profilo preliminare di
inammissibilita',   consistente   nel   carattere  alternativo  delle
prospettazioni,  che  aveva  inficiato le sue precedenti ordinanze di
rimessione sulle quali questa Corte si e' pronunciata con l'ordinanza
n. 107 del 2001;
        che nello scrutinio di merito al quale si deve oggi attendere
emerge  tuttavia  un  profilo  di manifesta infondatezza che consegue
proprio  alla  premessa  interpretativa  dalla  quale  il  remittente
procede   e  che  accomuna  le  due  distinte  questioni:  che  cioe'
l'abrogazione  dell'art. 341  cod.  pen. ad  opera dell'art. 18 della
legge  n. 205  del  1999 configuri una successione nel tempo di leggi
penali anziche' una vera e propria abolitio criminis;
        che  tale  presupposto  interpretativo  sia  erroneo e' stato
affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella recente
pronunzia del 17 luglio 2001;
        che la soluzione adottata dal giudice di legittimita', che ha
risolto  un contrasto interpretativo che era insorto sul punto, ruota
attorno  a  due  argomenti  centrali:  l'assenza  di  una  disciplina
transitoria  che abbia ad oggetto i reati di oltraggio commessi prima
dell'abrogazione  della  norma  incriminatrice,  da  un  lato,  e  la
limitatezza  dei poteri del giudice dell'esecuzione in sede di revoca
ex art. 673 cod. proc. pen. della sentenza di condanna, dall'altro;
        che    il   primo   argomento   poggia   sulla   ineccepibile
constatazione  che  l'art. 19  della  legge di delegazione n. 205 del
1999,  che  prevede  nuovi termini per la proposizione della querela,
non  riguarda  il  reato  di  oltraggio  a  pubblico ufficiale di cui
all'abrogato  art. 341  del codice penale, ma alcuni altri reati, che
in  precedenza  erano  perseguibili  d'ufficio e che solo in forza di
tale  legge  e  dei  successivi  decreti  legislativi  sono  divenuti
perseguibili a querela;
        che  l'ulteriore  rilievo  che  questa  disposizione  non  e'
suscettibile  di  estensione analogica non puo' non essere condiviso,
tanto  piu'  se si considera che, nella specie, si tratterebbe di una
estensione  in  malam  partem  intesa  cioe'  a  far  sopravvivere la
punibilita'  di  un  fatto  al  di fuori di una esplicita e specifica
previsione  legislativa:  questa Corte del resto, gia' nell'ordinanza
n. 175  del  2001,  nel  respingere  l'ipotesi  di  estendere con una
propria  pronuncia l'operativita' dell'art. 19 della legge n. 205 del
1999  alle  fattispecie di oltraggio, non ha mancato di rilevare che,
nel  caso  di pura e semplice abrogazione di una norma che prevede un
reato  perseguibile  di  ufficio,  l'introduzione  di  condizioni  di
procedibilita'  e  di  punibilita'  non  esplicitamente  previste dal
legislatore  si  risolverebbe  in  un  aggravamento  della  posizione
sostanziale  dell'imputato,  precluso al giudice delle leggi non meno
che al giudice comune;
        che  l'assenza  di una disciplina transitoria e il divieto di
estendere  in  via  analogica quella dettata dall'art. 19 della legge
n. 205  del  1999  per  reati  diversi  dall'oltraggio  impongono  di
ritenere  che  si  versi  in un'ipotesi di abolitio criminis regolata
dall'art. 2,  secondo  comma, del codice penale, e non di successione
nel  tempo di norme penali incriminatrici: se il legislatore del 1999
avesse  soltanto  inteso  rendere  sanzionabili  a titolo di ingiuria
anche  per  il  passato  fatti  di  oltraggio,  non si sarebbe potuto
esimere  dal  regolare  i  modi  e  i tempi per la proposizione della
querela, pena, altrimenti, la violazione del canone di ragionevolezza
delle classificazioni legislative;
        che   infatti  l'interpretazione  propugnata  dal  remittente
finisce con l'imputare al legislatore scelte tra loro inconciliabili:
la  persistente  punibilita' a titolo di ingiuria dei pregressi reati
di  oltraggio  e  l'ineluttabile  improcedibilita'  per  mancanza  di
querela dei giudizi pendenti;
        che  anche l'ulteriore argomento che, insieme alla constatata
assenza  di  una  disciplina  transitoria,  ha  indotto il giudice di
legittimita'  a  interpretare la vicenda abrogativa dell'art. 341 del
codice  penale  come  abolitio  criminis  argomento  che  fa leva sui
limitati  poteri dei quali e' investito il giudice dell'esecuzione ai
sensi  dell'art. 673  del  codice  di  procedura penale, non risponde
soltanto alla dogmatica processualpenalistica in tema di rapporti tra
giudizio  di cognizione e giudizio di esecuzione, ma assume il valore
dell'interpretazione  costituzionalmente  conforme,  che non potrebbe
essere disattesa se non violando principi costituzionali;
        che  al  giudice  dell'esecuzione  penale  non  e' in effetti
consentito modificare l'originaria imputazione ne' accertare il fatto
in  modo  difforme  da  quello  ritenuto  dalla  sentenza  passata in
giudicato,  e  non  gli  e'  quindi neppure permesso estendere il suo
giudizio a istituti, che, secondo l'orientamento delle sezioni unite,
opererebbero  come esimenti solo nell'ingiuria, quali la ritorsione o
la provocazione;
        che  la  soluzione  che  postulasse la titolarita' in capo al
giudice  dell'esecuzione di poteri pieni in ordine alla rivalutazione
del  fatto contrasterebbe con i criteri direttivi di cui ai numeri 96
e  97  dell'art. 2  della  legge  di  delega  per  il nuovo codice di
procedura  penale  (legge 16 febbraio 1987, n. 81), che simili poteri
riconoscono,   in   sede   di   esecuzione   penale,   solo  ai  fini
dell'applicazione  della  disciplina  del  concorso  formale  e della
continuazione di reati, e comporterebbe quindi a carico dell'art. 673
cod. proc. pen. un vizio di eccesso di delega;
        che   il   vincolo   all'interpretazione   costituzionalmente
conforme,  come  questa  Corte  ha  gia'  affermato  (cfr. da  ultimo
sentenza  n. 292  del  2000),  si  impone  tutte  le volte in cui una
disposizione  di  un  decreto legislativo, diversamente interpretata,
eccederebbe   i  limiti  fissati  nella  legge  di  delegazione,  con
violazione dell'art. 76 della Costituzione;
        che  l'ulteriore  canone interpretativo, che depone nel senso
dell'abolitio  criminis  si trae dall'art. 24 della Costituzione, che
proclama  inviolabile  il diritto di difesa in ogni stato e grado del
procedimento e che verrebbe leso dall'applicazione dell'art. 2, comma
terzo, del codice penale, nei casi in cui al condannato per oltraggio
non  sia  stata  offerta,  nel  corso  del  giudizio  di  cognizione,
l'opportunita'   di  provare  l'esistenza  delle  eventuali  esimenti
proprie  del  delitto  di  ingiuria,  che  non  potrebbe certo essere
provata di fronte al giudice dell'esecuzione, il quale e' sfornito di
pieni poteri valutativi;
        che  non  puo'  essere  condivisa  neppure l'osservazione del
remittente,   secondo   cui   la   soluzione  dell'abolitio  criminis
lascerebbe  senza  tutela i pubblici ufficiali che siano stati offesi
da  pregressi  fatti  di oltraggio, poiche' in relazione a tali fatti
essi  vengono  soltanto  privati  del sostegno della pretesa punitiva
dello Stato, ma non vengono spogliati del loro diritto di ottenere il
risarcimento del danno;
        che  invero,  nel  caso  di  condanna  passata  in giudicato,
l'abolitio  criminis  comporta  si' la revoca della sentenza da parte
del  giudice  dell'esecuzione ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen.,
ma  solo  relativamente  ai  suoi capi penali (in questa logica si e'
mossa questa Corte nell'ordinanza n. 57 del 2001), non anche a quelli
civili,  la  cui  esecuzione  ha luogo secondo le norme del codice di
procedura civile, con la conseguenza che, se vi e' stata costituzione
di  parte  civile  e condanna al risarcimento dei danni, quest'ultima
resta  ferma,  mentre, in ogni altro caso, permane per la persona che
abbia  subito  un  ingiusto pregiudizio la possibilita' di esercitare
l'azione   civile   nella   sede  sua  propria  fino  al  termine  di
prescrizione,  giacche'  la  formula  assolutoria  per  l'ipotesi  di
sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice ("il fatto non e'
previsto  dalla  legge  come  reato")  non  e'  fra quelle alle quali
l'art. 652 cod. proc. pen. attribuisce efficacia nel giudizio civile;
        che,  in  conclusione,  una  volta  accertato  che la vicenda
legislativa   della   abrogazione   dell'art. 341  cod.  pen. integra
un'ipotesi  di  abolitio  criminis  disciplinata dall'art. 2, secondo
comma,  del  codice  penale, e' erroneo il presupposto interpretativo
sul  quale  il  giudice remittente ha basato entrambe le questioni di
legittimita' costituzionale;
        che,  pertanto,  le questioni stesse devono essere dichiarate
manifestamente infondate.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.