ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 612 del codice
di  procedura  civile promosso, con ordinanza del 21 agosto 2001, dal
Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Zambon Anna
e Zambon Maria Luigia, iscritta al n. 930 del registro ordinanze 2001
e   pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n. 47,
1a serie speciale, dell'anno 2001.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 5 giugno 2002 il giudice
relatore Francesco Amirante.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel corso di un procedimento di opposizione all'esecuzione
promosso  dalla  signora  Anna  Zambon avverso la procedura esecutiva
iniziata  dalla  signora  Maria  Luigia  Zambon  per  l'esecuzione di
obblighi   di   fare  sulla  base  di  un  verbale  di  conciliazione
giudiziale,  nel  quale  veniva  contestato  che  fosse possibile nel
nostro ordinamento considerare il verbale di conciliazione giudiziale
titolo  esecutivo  idoneo  a  consentire  l'esecuzione di obblighi di
fare,  il  Tribunale  di  Treviso  ha  sollevato, in riferimento agli
artt. 3,   10,  24,  111  e  113  della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 612  del  codice di procedura
civile,  nella  parte in cui secondo il "diritto vivente" non prevede
l'esecuzione  degli  obblighi  di  fare  e  non fare sulla base di un
verbale  di  conciliazione  giudiziale sotto il controllo del giudice
dell'esecuzione.
    Il remittente osserva, in primo luogo, che il diritto vivente sul
quale  si fonda la questione - e che, a suo avviso, e' vincolante per
il  giudice  di  merito,  provenendo dalla Corte di cassazione cui e'
assegnata  la  funzione  di  nomofilachia - poggia su argomenti molto
deboli.
    Il  primo  - che e' costituito dal dato letterale (secondo cui il
termine   "sentenza"   non   potrebbe   estendersi   al   verbale  di
conciliazione)  - e' superato dalla stessa Corte di cassazione che ha
ritenuto  di  estendere il termine sentenza a qualsiasi provvedimento
di  condanna.  Al  riguardo  il  remittente precisa che il verbale di
conciliazione,  ancorche' non sia assimilabile quanto agli effetti ad
una  sentenza  passata  in  giudicato,  e'  da  considerare un titolo
esecutivo  contrattuale  simile  agli  atti  notarili,  al  quale  il
legislatore puo' attribuire effetti ulteriori e non limitati a quelli
di semplice titolo contrattuale esecutivo valido solo per le somme di
denaro  in esso contenute (come accade per gli atti notarili e simili
ex art. 474, secondo comma, numero 3, cod. proc. civ.). Del resto, al
verbale di conciliazione si attribuisce titolo anche per l'esecuzione
per  consegna e rilascio, secondo quanto affermato dalla stessa Corte
di  cassazione  nella  sentenza  n. 1135 del 1950 ed in conformita' a
quanto   stabilito  per  l'esecuzione  degli  sfratti  nelle  regioni
Basilicata e Campania dall'art. 10, decimo comma, del d.l. 23 gennaio
1982, n. 9, convertito nella legge 25 marzo 1982, n. 94.
    Altro  argomento  con  cui  si  nega  l'idoneita'  del verbale di
conciliazione  quale titolo ai sensi dell'art. 612 cod. proc. civ. e'
rappresentato  dal rilievo che solo un provvedimento del giudice puo'
contenere l'accertamento positivo della fungibilita' - e quindi della
coercibilita'  -  dell'obbligo  di  fare;  tale argomento, osserva il
remittente,  porta  ad  escludere  in  modo  assoluto  la liceita' di
fondare  una  esecuzione di obblighi di fare o non fare sulla base di
un verbale di conciliazione.
    Il  Tribunale  di Treviso osserva che l'art. 612 cod. proc. civ.,
come  emerge  dal  suddetto diritto vivente, si pone in contrasto con
numerosi principi costituzionali.
    Il  primo e fondamentale principio che viene violato e' quello di
razionalita-uguaglianza  di  cui  all'art. 3  della Costituzione, per
l'irragionevole  disparita'  di  trattamento  che  ne  deriva  tra il
soggetto  che  ha  ottenuto  un verbale di conciliazione, evitando il
giudizio,  e colui che preferisce affrontare il giudizio ed aspettare
la  sentenza, dovendo il primo fare affidamento sulla controparte per
quanto   riguarda  l'esecuzione  degli  accordi  presi  o  rivolgersi
nuovamente  al  giudice,  oltretutto  senza una effettiva ragione che
giustifichi tale disparita'; non trovando la denunciata diversita' di
trattamento   una   motivazione  ragionevole  neppure  nell'argomento
dinanzi  citato  del necessario accertamento circa l'eseguibilita' da
effettuare da parte del giudice solo con la sentenza. Tale argomento,
infatti,  si  pone  in  contraddizione con altra giurisprudenza della
Corte di cassazione, altrettanto consolidata, con cui si sostiene che
il   giudice   dell'esecuzione   puo'   sempre   dichiarare   la  non
eseguibilita'  per  i  fatti sopravvenuti del titolo esecutivo, anche
dopo la sua emanazione, sul principale rilievo che la parte esecutata
potrebbe  fare opposizione all'esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ.
per contestare l'eseguibilita' del titolo per fatto sopravvenuto.
    Un  altro  principio che viene violato, seppure in via indiretta,
e' quello costituzionalizzato dall'art. 10 della Costituzione secondo
cui  pacta  sunt  servanda che e' da combinare con il principio della
ragionevolezza  della  durata  dei  processi  di cui all'art. 6 della
Convenzione   europea   dei   diritti   dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali,  adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in
Italia  con  la  legge  4 agosto  1950, n. 848 (recte: legge 4 agosto
1955,  n. 848).  Il  suddetto  principio  che  ha  come corollario la
necessita' che il legislatore non imponga inutili carichi processuali
che  impediscano  una effettiva tutela in tempi ragionevoli trova nel
processo  civile  italiano  un  pendant  nel principio secondo cui il
processo  non  deve  andare  a  danno  della parte che ha ragione, il
quale,  a  sua volta, si collega con il principio di cui all'art. 113
della  Costituzione,  combinato con quello generale di ragionevolezza
di cui all'art. 3 della Costituzione.
    Viene,  inoltre,  leso  il  principio  di  cui  all'art. 24 della
Costituzione,  che garantisce la tutela giurisdizionale "effettiva" e
che  impone, quindi, un controllo su quelle procedure che ritardano o
ostacolano   inutilmente   l'esercizio   dell'azione,   senza  essere
finalizzate  alla  tutela  di  interessi  di  ordine  generale  (cfr.
sentenza n. 276 del 2000). Non si comprende quale sarebbe l'interesse
di  carattere generale sotteso al divieto di avvalersi del verbale di
conciliazione  giudiziale  come  titolo  per eseguire gli obblighi di
fare  e  non  fare,  il vaglio della cui eseguibilita' sarebbe sempre
comunque  demandato al giudice dell'esecuzione mediante l'opposizione
all'esecuzione  proponibile  dalla  parte,  il  cui esito sarebbe poi
oggetto di possibile appello o del ricorso per cassazione, atteso che
verterebbe sul diritto a procedere all'esecuzione.
    Osserva,   infine,   il  remittente  che  lo  stesso  legislatore
costituzionale  ha  voluto esplicitare il principio della ragionevole
durata  del  processo  modificando  l'art. 111  Cost.,  che,  quindi,
sarebbe anch'esso violato.
    Da  ultimo  il  Tribunale  di Treviso riporta alcuni principi che
sarebbero  stati  affermati da questa Corte nella sentenza n. 276 del
2000  in  merito  alla  utilita'  del  tentativo  di conciliazione ed
osserva  che  "l'istituto  della conciliazione, sebbene trascurato da
troppo  tempo  da una prassi che tuttora non sembra aver colto la sua
importanza,  puo'  costituire  il  fondamento  su  cui far sorgere un
processo  civile che sia in grado di dare le risposte che la societa'
chiede,  a patto che non ci sia disparita' di trattamento quanto alla
tutela  offerta  dall'ordinamento  tra chi sceglie la conciliazione e
chi preferisce aspettare la sentenza".
    Il  remittente  conclude affermando che, per quel che riguarda la
rilevanza,  essa  risulta ictu oculi dal fatto che la norma impugnata
regola la fattispecie dedotta in giudizio.
    2. - Nel giudizio davanti alla Corte e' intervenuto il Presidente
del  Consiglio  dei  ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale  dello Stato, che ha concluso chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile.
    La  difesa  erariale  osserva  che,  mostrando  il  remittente di
dissentire    dall'interpretazione    giurisprudenziale   assunta   a
presupposto della sollevata questione di legittimita' costituzionale,
egli,  ritenendosi  vincolato  alla  suddetta interpretazione che non
condivide,  ha "rinunziato ad esercitare l'opzione ermeneutica di sua
competenza   e   ha  obliterato  il  canone  fondamentale  che  vuole
privilegiata,  se  ritenuta possibile, una interpretazione conforme a
Costituzione".
    D'altra  parte,  qualora  si volessero considerare le indicazioni
fornite  dal  remittente  non  come elementi di una possibile diversa
interpretazione  della norma impugnata, ma come prospettazioni di una
auspicata  ridefinizione  di  questa,  la  questione sarebbe comunque
inammissibile sotto il profilo che il quesito sottoposto all'esame di
questa  Corte  "impingerebbe in scelte riservate al legislatore - non
arbitrarie  ne'  altrimenti  violative di canoni costituzionali - tra
quelle  astrattamente  configurabili  in ordine alla disciplina delle
procedure  esecutive  e alla strutturazione del sistema di tutela per
l'adempimento   coattivo   degli   obblighi   di   fare  o  non  fare
(accertamento giudiziale sulla loro coercibilita' preventiva rispetto
alla  formazione  del  titolo  esecutivo ovvero successiva in sede di
opposizione all'esecuzione)".

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il giudice dell'esecuzione del Tribunale di Treviso dubita
della   legittimita'   costituzionale  dell'art. 612  del  codice  di
procedura  civile,  in  riferimento  agli  artt. 3, 10, 24, 111 e 113
Cost.,  in  quanto  esclude  che  il  verbale  di conciliazione possa
costituire  titolo  esecutivo  efficace ai fini dell'esecuzione degli
obblighi di fare o non fare.
    2.  -  La  questione non e' fondata ai sensi delle considerazioni
che seguono.
    Si osserva anzitutto che il giudice remittente non ha fornito una
propria  interpretazione  della  norma censurata, ma ha richiamato il
diritto  vivente,  costituito  da  alcune  sentenze  della  Corte  di
cassazione,  a  suo  avviso  sostanzialmente vincolanti per gli altri
interpreti.
    A  ben  vedere, pero', l'asserito diritto vivente si sostanzia in
poche  pronunce  del giudice di legittimita', delle quali quelle piu'
recenti  (Cass.,  n. 10713  del  1994;  Cass., n. 258 del 1997) fanno
propri  in  modo  acritico principi enunciati in sentenze risalenti a
circa  mezzo  secolo  (Cass.,  n. 3637  del  1954; Cass., n. 1531 del
1955).
    Il   primo  argomento,  di  carattere  letterale,  viene  dedotto
dall'incipit  della  norma  censurata,  il quale recita: "chi intende
ottenere  l'esecuzione  forzata  di  una  sentenza  di  condanna  per
violazione  di  un  obbligo  di fare o di non fare". La disposizione,
facendo  riferimento  espressamente  soltanto  all'esecuzione  di una
sentenza,  escluderebbe  la  possibilita' di esperire l'esecuzione di
obblighi di fare o di non fare sulla base di titoli esecutivi diversi
dalle sentenze ed in particolare del verbale di conciliazione.
    L'argomento,  come  del  resto  rileva  lo  stesso remittente, e'
debole,  tanto  che  la norma viene generalmente intesa come idonea a
disciplinare  l'esecuzione  non  soltanto delle sentenze, ma anche di
altri provvedimenti che di queste non hanno forma e contenuto, quali,
ad  esempio, le ordinanze emesse in sede di procedimenti per denuncia
di  nuova  opera  o  di  danno  temuto, nonche', secondo un indirizzo
giurisprudenziale,  dei  provvedimenti  concernenti l'affidamento dei
minori (Cass., n. 292 del 1979; Cass., n. 5374 del 1980).
    3.  -  Parimenti  non  inoppugnabili  sono  le  ragioni di ordine
sistematico  che  vengono  portate per giustificare l'interpretazione
fornita.
    A  suo  sostegno  viene addotto anzitutto il divieto di procedere
alla  distruzione della cosa fabbricata in violazione dell'obbligo di
non  fare  qualora  cio'  sia  di  pregiudizio all'economia nazionale
(art. 2933, secondo comma, cod. civ.).
    In  secondo  luogo, si prospetta l'ipotesi che l'obbligo abbia ad
oggetto una prestazione infungibile.
    Nell'un   caso   e  nell'altro,  secondo  coloro  che  propugnano
l'opinione  in  esame, sarebbe necessaria la valutazione da parte del
giudice.
    A  tali  argomentazioni  si  puo' replicare che l'art. 183, primo
comma,  cod.  proc.  civ.,  stabilisce che alla conciliazione si puo'
pervenire  se  la  natura  della  causa  lo  consente.  E' quindi non
illogico   ritenere  che  nelle  situazioni  prospettate  pregiudizio
all'economia   nazionale   derivante  dalla  distruzione  dell'opera,
infungibilita'  della  prestazione  sia  la  stessa  conciliazione ad
essere impedita.
    4.  -  L'interpretazione  diversa  da quella del giudice a quo e'
rafforzata da una pluralita' di convergenti riflessioni.
    La  conciliazione  e'  da  sempre  inquadrata  tra  gli strumenti
predisposti  ad  finiendas  lites.  Qualora si escludesse l'efficacia
esecutiva del verbale di conciliazione avente ad oggetto gli obblighi
di  cui  all'art. 612  cod.  proc. civ., si costringerebbe la parte a
ripercorrere la strada di un processo di cognizione, cosi' negando il
valore  di  accelerazione  della  definizione  della controversia che
costituisce la principale caratteristica della conciliazione.
    Ma  e'  proprio  a  siffatta caratteristica che si deve il favore
accordato   alla  conciliazione  dagli  interventi  legislativi  piu'
recenti.  A  riguardo  vanno  ricordate  le  modifiche apportate agli
artt. 183  e  185  cod.  proc. civ. con gli artt. 17 e 89 della legge
26 novembre  1990,  n. 353,  ed  in  particolare  le disposizioni che
prevedono  la possibilita' di rinnovare il tentativo di conciliazione
in qualunque momento dell'istruzione.
    Ad  attestare  il  favore  che  gli  interventi  legislativi piu'
recenti  accordano alla conciliazione possono anche essere menzionate
le  norme  che  la disciplinano in alcuni procedimenti speciali quali
quelli  davanti al giudice di pace (artt. 320 e 322 cod. proc. civ.),
al giudice onorario aggiunto (legge 22 luglio 1997, n. 276, art. 13),
nonche',  di  particolare rilievo, le norme che regolano il tentativo
di  conciliazione  in materia di lavoro (legge 11 maggio 1990, n.108,
art. 5, comma 1; decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 65).
    Ritiene questa Corte che l'art. 612, primo comma, cod. proc. civ.
possa  essere  letto  nel  senso che esso consenta il procedimento di
esecuzione disciplinato dalle disposizioni che lo seguono anche se il
titolo  esecutivo  sia  costituito  dal  verbale di conciliazione, in
quanto  le  eventuali  ragioni ostative devono essere valutate non ex
post,  e  cioe'  nel  procedimento  di  esecuzione,  bensi',  se esse
preesistono, in sede di formazione dell'accordo conciliativo da parte
del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza puo' concludersi
soltanto se la natura della causa lo consente.
    In presenza di un verbale di conciliazione, cui il codice di rito
attribuisce  in  linea  di  principio  efficacia  di titolo esecutivo
(art. 185,  secondo  comma,  e art. 474, secondo comma, numero 1), si
deve  ritenere  che  le eventuali ragioni di ineseguibilita' in forma
specifica dell'obbligo siano state gia' considerate ed escluse, ferma
restando la possibilita' di far valere quelle sopravvenute.
    Non  e'  superfluo  soggiungere  che  i  provvedimenti emessi dal
giudice  dell'esecuzione  ai  sensi degli artt. 612 e seg. cod. proc.
civ. possono essere oggetto di opposizione per motivi sopravvenuti in
caso  di  conciliazioni  giudiziali, per motivi anche preesistenti in
ipotesi  di  conciliazioni  conclusesi  al di fuori del controllo del
giudice.
    Tale  lettura esclude il denunciato contrasto con gli artt. 3, 24
e  111,  secondo comma, Cost. (i parametri di cui agli artt. 10 e 113
Cost.  sono  evidentemente  non  pertinenti  rispetto  alla questione
proposta),   contrasto   che  potrebbe  profilarsi  sul  rilievo  che
escludere  l'efficacia  esecutiva del verbale di conciliazione avente
ad  oggetto  gli  obblighi  di  fare  o  non  fare  costituirebbe  un
irragionevole  seppur  parziale sacrificio del diritto di difesa, del
quale  gli  strumenti  per  ottenere in concreto "il bene della vita"
conteso costituiscono aspetto essenziale, nonche' una protrazione dei
tempi del processo altrettanto irragionevole.
    E  poiche',  come  questa Corte ha piu' volte affermato (cfr., ex
plurimis,   sentenze   n. 307   e   n. 312  del  1996),  tra  diverse
interpretazioni  di  una  norma  deve  preferirsi  quella  conforme a
Costituzione, dovendo pervenirsi alla dichiarazione di illegittimita'
costituzionale non perche' della norma in questione si possa adottare
un'interpretazione  che  ne determinerebbe la incostituzionalita', ma
soltanto    se    della    medesima   non   sia   possibile   fornire
un'interpretazione  conforme  ai  precetti  costituzionali,  ai sensi
delle considerazioni svolte la questione va dichiarata infondata.