ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' dell'art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 9 luglio 2001 dal tribunale di Genova nel procedimento di ricusazione proposto da Wilfredo Vitalone, iscritta al n. 950 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, 1a serie speciale, dell'anno 2001. Visti l'atto di costituzione di Wilfredo Vitalone nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2002 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; Udito l'avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il tribunale di Genova, con ordinanza emessa nel corso di un procedimento di ricusazione in data 9 luglio 2001, ha sollevato, in riferimento all'art. 111 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che "il giudice che ha gia' pronunciato su causa formalmente distinta ma con contenuto identico abbia l'obbligo di astenersi"; che l'istanza di ricusazione e' stata proposta nel corso di un giudizio di responsabilita' civile promosso contro lo Stato, a norma della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati), per i danni che, secondo le allegazioni dell'attore, sarebbero allo stesso derivati dall'operato di un pubblico ministero e di un giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Firenze per avere questi ultimi, rispettivamente, chiesto ed emesso un decreto di archiviazione in merito alle denunce da lui presentate contro due pubblici ministeri della Procura della Repubblica presso il tribunale di Perugia, per abuso di ufficio, falso in atto pubblico e calunnia ai suoi danni; che, come espone il giudice a quo, in prossimita' dell'udienza collegiale destinata a vagliare l'ammissibilita' della domanda di risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 117 del 1988, l'attore ha proposto istanza di ricusazione nei confronti del giudice istruttore cui la causa e' stata assegnata, per avere lo stesso giudice gia' deciso quale componente del collegio, con una pronuncia in data 17 gennaio 2001 di manifesta infondatezza ai sensi del comma 3 del citato art. 5 della legge n. 117 del 1988, sull'ammissibilita' di una precedente domanda di risarcimento del danno proposta dallo stesso attore e di contenuto sostanzialmente identico a quello della domanda attuale; che - prosegue il rimettente - la ripetizione del giudizio deriva dalla duplice circostanza (a) che il decreto di archiviazione, del 9 febbraio 1999, che ha concluso il procedimento penale avviato a seguito delle sopra indicate denunce presentate dall'attore e in relazione al quale e' stata proposta l'attuale domanda risarcitoria, altro non e' che la rinnovazione, motivata per relationem, di un precedente provvedimento di archiviazione del 30 ottobre 1997, emesso (da diverso giudice per le indagini preliminari) nel corso del medesimo procedimento penale e poi annullato dalla Corte di cassazione per vizi procedurali, e (b) che gia' in relazione al primo decreto di archiviazione successivamente annullato dalla Corte di cassazione (nonche' in relazione alla relativa richiesta formulata dal pubblico ministero), l'attore aveva esercitato la prima azione civile di danno nei confronti dello Stato - dichiarata inammissibile dal collegio con il concorso del giudice ricusato - allegando le medesime ragioni, in fatto e in diritto, poste a base della successiva (e attuale) domanda risarcitoria proposta a seguito del secondo provvedimento di archiviazione emesso a rinnovazione del primo; che, chiamato a definire il giudizio di ricusazione in tal modo introdotto, il tribunale rimettente solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., poiche' "il fatto che lo stesso giudice che ha deciso la prima causa sia chiamato a decidere anche la seconda appare in contrasto con il principio di imparzialita' del giudice", sancito dall'art. 111 della Costituzione, in quanto la circostanza che il giudice sia chiamato a rinnovare, nella seconda causa, le stesse valutazioni che ha compiuto nella prima contrasta "con il sentimento comune di giustizia, che impone che la parte non deve trovarsi ad essere giudicata da un giudice prevenuto, perche' ha gia' deciso sulla stessa materia processuale"; che nel caso di specie, ad avviso del giudice a quo, benche' le due cause siano formalmente distinte, avendo a oggetto domande di risarcimento del danno fondate sulla asserita illegittimita' di distinti provvedimenti giurisdizionali, esse risultano in realta' strettamente collegate, in maniera tale che "il giudicato che dovesse formarsi sulla prima verrebbe necessariamente a influenzare l'esito della seconda"; che pertanto non sussisterebbe alcun dubbio "che il magistrato investito della nuova causa sia chiamato a compiere le stesse valutazioni che sono state necessarie nel primo giudizio e che le questioni in decisione nelle due cause sono le stesse, perche' la tecnica di motivazione "per relationem" adottata nel disporre la seconda archiviazione impone non solo di affrontare le stesse questioni di diritto, ma anche di esaminare gli stessi fatti"; che - sempre secondo l'argomentazione del rimettente - si potrebbe "dubitare se in questi casi un'appropriata applicazione dei criteri di identificazione delle azioni, alla luce dei quali va condotto il giudizio sull'identita' o diversita' delle cause, non consenta[no] di ravvisare nelle due controversie un'unica causa, e di ritenere la fattispecie direttamente sussumibile tra quelle contemplate dall'art. 51, numero 4, cod. proc. civ.", aggiungendo peraltro che, nonostante tale rilevata identita' sostanziale di contenuti tra le due cause, "stante la diversitadei provvedimenti e delle cause che in essi trovano il loro riferimento", non appare possibile "fare ricorso agli istituti della litispendenza o della continenza (art. 39 c.p.c.), o della riunione (art. 273 c.p.c.), il cui presupposto e' la pendenza di "una stessa causa"; che pero', conclude il giudice a quo, "... se il concetto di "stessa causa" resta ancorato all'interpretazione che ne viene comunemente data, pur con le precisazioni della lettura fattane dal giudice delle leggi nella ... pronuncia n. 387/1999" (decisione che, si rileva nell'atto di rimessione, ha "interpretato estensivamente" la disposizione oggi impugnata, ampliandone l'ambito di applicazione anche in relazione a fasi diverse del medesimo processo), allora "la norma dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., non pare sufficiente ad evitare ... il pericolo costituito dalla c.d. forza della prevenzione, che impone che lo stesso giudice non sia chiamato a contraddirsi, smentendo decisioni gia' assunte in situazioni identiche"; che nel giudizio cosi' promosso e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilita' o infondatezza della questione; che si e' costituita la parte privata proponente la ricusazione, che, con argomentazioni pressoche' identiche a quelle poste a base dell'ordinanza di rimessione, ha concluso per una dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma censurata. Considerato che il tribunale di Genova, nell'ambito di un giudizio incidentale di ricusazione di un giudice civile, solleva, in riferimento al principio di imparzialita' del giudice di cui all'art. 111 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, chiedendone una dichiarazione di incostituzionalita' nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione del giudice che abbia gia' pronunciato su causa formalmente distinta ma con contenuto sostanzialmente identico a quello della causa su cui e' ulteriormente chiamato a decidere; che, svolgendo le proprie argomentazioni nei termini precedentemente esposti, il giudice rimettente assume, quale premessa della questione sollevata, l'identita' "sostanziale" delle due cause - quella ancora da decidere, assegnata al giudice della cui ricusazione si tratta, e quella gia' in precedenza definita dal collegio con il concorso del medesimo giudice - in quanto originate da azioni di risarcimento del danno a norma della legge n. 117 del 1988 (a) promosse dallo stesso soggetto, (b) esercitate in relazione a due atti processuali penali (i decreti di archiviazione specificati nell'esposizione dei fatti) formalmente distinti ma che costituiscono l'uno la ripetizione dell'altro, stante la motivazione del secondo per relationem con quella del primo, annullato per vizio di forma e (c) sorrette dalle stesse doglianze da parte dell'attore, traendo da queste circostanze la conseguenza che la odierna funzione giurisdizionale di trattazione della causa nella fase di ammissibilita' della domanda risarcitoria ex legge n. 117 del 1988 si presenterebbe come una mera iterazione della stessa attivita' in precedenza esercitata, tale da ledere la garanzia dell'imparzialita' e terzieta' del giudice prescritta dall'art. 111, secondo comma, della Costituzione; che il giudice a quo, sembra tuttavia contestualmente escludere che detta identita' di sostanza tra il precedente e il nuovo giudizio possa tradursi nella nozione giuridica di "stessa causa" rilevante ai fini dell'applicazione degli istituti della litispendenza e della continenza di cause ovvero della riunione dei giudizi (artt. 39 e 273 cod. proc. civ.), motivando tale assunto con la "diversita' dei provvedimenti e delle cause che in essi trovano il loro riferimento", dunque valorizzando distinzioni obbiettive di carattere formale, che appaiono essere in contraddizione con le premesse sopra sintetizzate; che, sotto altro profilo, lo stesso giudice rimettente formula il rilievo secondo cui "si potrebbe dubitare se in questi casi un'appropriata applicazione dei criteri d'identificazione delle azioni, alla luce dei quali va condotto il giudizio sull'identita' o diversita' di cause", non possa condurre a ravvisare, in una ipotesi quale e' quella del giudizio principale, una "stessa causa" (non nel senso che rileva per i citati artt. 39 e 273 cod. proc. civ., ma) agli effetti dell'applicazione della stessa disposizione sospettata di incostituzionalita' (art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ.), dunque in maniera tale da rendere la fattispecie concreta "direttamente sussumibile" tra quelle considerate dalla norma denunciata, anche alla stregua della lettura estensiva che di quest'ultima ha fornito la sentenza n. 387 del 1999 di questa Corte; che, ancora sotto questo profilo, il rimettente afferma, in pari tempo, di non poter direttamente pervenire al risultato interpretativo che si e' detto, in quanto la nozione di "stessa causa" (ai fini dell'art. 51) resti - ipoteticamente - "ancorata all'interpretazione che ne viene comunemente data", cioe' all'interpretazione che esclude di poter addivenire a questa soluzione del problema sollevato; che, in presenza di una simile impostazione della questione - anche indipendentemente dalle anomalie della vicenda processuale dalla quale il presente giudizio ha preso avvio -, e' preliminare il rilievo che il giudice della ricusazione prospetta una duplice possibilita' interpretativa, per un verso affermando la astratta possibilita' di pervenire a una soluzione della questione attraverso una "appropriata applicazione" dei criteri di identificazione delle azioni in modo da condurre a una diretta inclusione dell'ipotesi dedotta nell'ambito della norma impugnata, senza necessita' di un intervento di questa Corte, ma per altro verso contestualmente dubitando di tale possibilita', alla stregua della interpretazione che della medesima norma viene "comunemente data"; che e' su questa irrisolta duplice possibilita' che il giudice a quo, chiama questa Corte a un intervento sulla disposizione censurata, in modo tale da superare la "comune" interpretazione che lo stesso rimettente sembra non fare propria ne' condividere; che, in tal modo impostata, la questione risulta sollevata essenzialmente in vista della soluzione di una alternativa interpretativa circa la portata della disposizione processuale: una alternativa che spetta al giudice risolvere, assegnando alla norma un preciso significato, prima di prospettare un problema di conformita' alla Costituzione; che, per questo, la sollevata questione deve essere dichiarata, conformemente al costante orientamento di questa Corte, manifestamente inammissibile (per tutte, ordinanze n. 418 e n. 201 del 2000).