ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e 31 della
legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di
prevenzione  di  carattere  patrimoniale  ed  integrazioni alle leggi
27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965,
n. 575.  Istituzione  di  una  commissione  parlamentare sul fenomeno
della  mafia), promosso con ordinanza emessa il 17 settembre 2001 dal
giudice  dell'udienza  preliminare del Tribunale di Caltanissetta nel
procedimento  penale  a  carico  di  G.  P.,  iscritta  al n. 915 del
registro  ordinanze  2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 46, 1a serie speciale, dell'anno 2001.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio dell'8 maggio 2002 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
    Ritenuto  che  con  ordinanza  del  17 settembre  2001 il giudice
dell'udienza  preliminare  del Tribunale di Caltanissetta, chiamato a
tenere l'udienza preliminare in un procedimento penale concernente il
reato  di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali da parte
di persona sottoposta a misura di prevenzione, a norma degli artt. 30
e  31  della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia
di  misure  di  prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni
alle  leggi  27 dicembre  1956,  n. 1423,  10 febbraio 1962, n. 57, e
31 maggio  1965,n. 575.  Istituzione  di una commissione parlamentare
sul  fenomeno  della  mafia),  ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale  delle  suddette  disposizioni,  in  riferimento  agli
artt. 3,  13,  primo  comma,  25  e  27,  primo  e terzo comma, della
Costituzione;
        che,   secondo   quanto   si   riferisce   nell'ordinanza  di
rimessione,  nel  giudizio  principale  la contestazione del reato si
fonda   sulla   circostanza   che  l'imputato,  gia'  sottoposto  con
provvedimenti   definitivi   alla   misura   di   prevenzione   della
sorveglianza  speciale  di pubblica sicurezza, non ha comunicato, nei
modi e nei termini previsti dall'art. 30 della legge n. 646 del 1982,
le  variazioni  nella  composizione del proprio patrimonio di importo
non inferiore a venti milioni di lire, segnatamente talune operazioni
immobiliari effettuate negli anni 1995, 1998 e 1999;
        che,  cio'  premesso  in  fatto, il giudice a quo osserva che
l'obiettivo  delle  norme in argomento, che e' quello di prevenire il
reimpiego  di  denaro  di  provenienza  illegale  a opera di soggetti
indiziati di mafia, tramite un "costante monitoraggio" delle relative
variazioni  nell'entita'  del  patrimonio,  puo'  agevolmente  essere
raggiunto  attraverso semplici verifiche presso uffici pubblici, come
in  effetti  e'  avvenuto  nella  specie,  essendo  le  operazioni in
contestazione  state  accertate  attraverso  un  controllo  presso la
conservatoria  dei  registri immobiliari ed avendo inoltre l'imputato
preventivamente  chiesto  specifica  autorizzazione  al Tribunale per
potersi   recare   a  effettuare  i  rogiti  notarili  relativi  alle
operazioni immobiliari;
        che  alla  luce  di  tali  rilievi  le  norme denunciate, che
finirebbero    per   sanzionare   una   semplice   omissione,   anche
indipendentemente  dal  raggiungimento  per  altra via dello scopo in
vista  del  quale  esse  sono  state poste, appaiono al rimettente in
contrasto  con  gli  artt. 13,  primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione,  i  quali  esigono che la risposta dell'ordinamento sia
proporzionata  alla  gravita' del fatto, pena la compromissione della
finalita'   rieducativa,  e  altresi'  che  la  sanzione  penale  sia
apprestata solo quando nessuna altra forma di reazione sia possibile,
tanto piu' in un sistema basato sull'alternativa tra la scelta penale
e  quella  dell'illecito amministrativo, dovendosi riservare la prima
ai  comportamenti  "maggiormente disfunzionali rispetto alle esigenze
di  conservazione  di  un  determinato  assetto  sociale", essendo lo
stesso  principio  di  personalita' della pena (art. 27, primo comma,
della  Costituzione)  a  richiedere  che  la  minaccia della sanzione
penale sia collegata a comportamenti contrassegnati da un particolare
ed "evidente" disvalore, secondo un criterio analogo a quello che, ad
esempio,  ispira  le  circolari  della  Presidenza  del Consiglio dei
ministri,  concernenti  la  distinzione  tra l'ambito penale e quello
amministrativo  (circolare  19 dicembre  1983) e l'individuazione dei
parametri  differenziali  tra  delitti  e  contravvenzioni (circolare
5 febbraio 1986);
        che,  sotto  un  altro profilo, l'incriminazione in argomento
appare  al  rimettente  in  contrasto  con  gli  artt. 25  e 27 della
Costituzione,  in  quanto,  venendo  punita  una  condotta  di  "mera
disubbidienza",  finirebbe  per risultarne compromessa la distinzione
tra  misura  di  sicurezza  e  pena,  nel  senso  che la sanzione per
l'omessa  comunicazione  delle variazioni patrimoniali comporterebbe,
di  fatto,  la  trasformazione del delitto in questione in una misura
"esclusivamente preventiva, volta a colpire la semplice pericolosita'
sociale (presunta) dell'agente";
        che,  per  questo  aspetto,  le  norme  configurerebbero  una
incriminazione  di  "mero sospetto", che punisce un comportamento, in
se'  non  lesivo  ne'  pericoloso,  che  fa solo presumere un altro e
diverso  reato,  cioe'  il  reimpiego  di  denaro di origine illegale
attraverso  operazioni  oggetto dell'obbligo di segnalazione, con una
presunzione  oltretutto  non  superabile  in  alcun modo da una prova
contraria,  come  la  legittima provenienza del denaro utilizzato per
l'acquisto;
        che,  infine,  il  giudice  a quo ritiene che le disposizioni
violino  anche  il  principio  di  ragionevolezza della legge (art. 3
della  Costituzione),  che  sarebbe  nella specie venuta meno per non
avere il legislatore adeguatamente individuato il reale disvalore del
fatto   e   per   avere   conseguentemente  apprestato  una  risposta
sanzionatoria  arbitraria,  come  tale  sindacabile  dalla Corte; una
irragionevolezza,  secondo  il rimettente, ulteriormente sottolineata
(a)  dal  raffronto  con  la sanzione prevista dall'art. 12-quinquies
comma  1,  del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti
al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalita'  mafiosa),  convertito,  con  modificazioni, dalla legge
7 agosto  1992, n. 356, il quale, nei confronti di chi agisca in modo
da  attribuire  ad altri in maniera fittizia la titolarita' di beni e
valori  al  fine  di  eludere le disposizioni in materia di misure di
prevenzione  patrimoniali o di agevolare la commissione di delitti di
ricettazione  o  riciclaggio,  stabilisce solo una sanzione detentiva
corrispondente  a  quella  dell'impugnato  art. 31,  nonche'  (b) dal
raffronto  con l'art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure
di   prevenzione  nei  confronti  delle  persone  pericolose  per  la
sicurezza), che, per il caso di trasgressione degli obblighi inerenti
la   sorveglianza   "semplice"  stabilisce  (primo  comma)  solo  una
contravvenzione,   mentre   per   la  violazione  della  sorveglianza
"speciale"  prevede  (secondo  comma)  un  delitto punito con pena la
reclusione  da uno a cinque anni - inferiore a quella stabilita dalle
disposizioni oggetto della sollevata questione di costituzionalita';
        che  la rilevanza della questione, conclude il rimettente, e'
data  dal  fatto  che  egli  e'  chiamato  a  fare applicazione della
disciplina censurata in sede di decisione sulla richiesta di rinvio a
giudizio;
        che  nel giudizio cosi' promosso e' intervenuto il Presidente
del  Consiglio  dei  ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale  dello  Stato, che ha richiamato per relationem allegandolo,
l'atto   di  intervento  depositato  in  altro  analogo  giudizio  di
costituzionalita' (giudizio di cui al r.o. n. 468 del 2001), atto nel
quale  l'Avvocatura  ha  dedotto,  in  particolare, l'attinenza delle
disposizioni  censurate all'ambito della discrezionalita' legislativa
quanto   alle   scelte   di   politica   criminale,  concludendo  per
l'infondatezza della questione.
    Considerato che il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
di  Caltanissetta  dubita della costituzionalita' degli artt. 30 e 31
della  legge  13 settembre  1982,  n. 646 (Disposizioni in materia di
misure  di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle
leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio
1965,   n. 575.  Istituzione  di  una  commissione  parlamentare  sul
fenomeno  della  mafia), i quali rispettivamente prevedono, il primo,
che  le  persone sottoposte con provvedimento definitivo a una misura
di  prevenzione  a  norma  della legge antimafia n. 575 del 1965 sono
tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto,
al   nucleo   di   polizia   tributaria  tutte  le  variazioni  nella
composizione  del  patrimonio  concernenti  elementi  di  valore  non
inferiore  a  venti  milioni  di  lire, e, il secondo, che in caso di
omissione  della comunicazione si applica la pena della reclusione da
due  a  sei  anni  e  la  multa da lire venti milioni a lire quaranta
milioni,  oltre  alla confisca dei beni a qualunque titolo acquistati
nonche' del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati;
        che,    secondo    il    rimettente,    le   suddette   norme
contrasterebbero  con  gli artt. 3, 13, primo comma, 25 e 27, primo e
terzo  comma,  della  Costituzione, perche', sanzionando una condotta
puramente  omissiva,  anche quando l'obbiettivo in funzione del quale
il  legislatore  ha  posto  l'obbligo  -  obbiettivo  consistente nel
controllo  dei movimenti patrimoniali dei soggetti indiziati di mafia
-   e'  agevolmente  raggiungibile  per  altra  via,  in  particolare
attraverso  accertamenti presso uffici pubblici relativamente ad atti
soggetti  a forme legali di pubblicita', le disposizioni violerebbero
il   principio  di  ragionevolezza  della  legge  e  il  criterio  di
necessaria  proporzione  tra  il  disvalore  del fatto e la sanzione,
vanificando  la  finalita'  rieducativa  della pena e la personalita'
della  responsabilita'  penale,  attraverso  una  previsione  di mero
sospetto di carattere preventivo, laddove sarebbe maggiormente idonea
una   differente   reazione   dell'ordinamento,  non  necessariamente
incentrata sullo strumento penale;
        che, chiamata a pronunciarsi su questioni aventi a oggetto le
medesime  disposizioni  e  sollevate  deducendo,  in riferimento agli
artt. 3  e 27 della Costituzione, la duplice censura, di "inutilita'"
pratica  della  normativa  per mancato raggiungimento dell'obbiettivo
legislativo,  e di sproporzione e di eccessivita' della pena prevista
per il reato in argomento, questa Corte - con le ordinanze n. 143 del
2002   e  n. 442  del  2001,  entrambe  successive  all'ordinanza  di
rimessione ora in esame - ne ha dichiarato la manifesta infondatezza,
rilevando che dette censure - formulate anche attraverso il raffronto
con  altre  contigue  o  analoghe  previsioni,  come  nella  presente
questione  - costituiscono critiche sull'opportunita' e sulla pratica
efficacia   della   disposizione  incriminatrice,  incentrate  su  un
criterio soggettivo di ragionevolezza e inidonee come tali a tradursi
in profili apprezzabili sul piano della verifica di costituzionalita'
delle norme, alla stregua dei parametri costituzionali invocati;
        che  nelle  richiamate  decisioni  questa  Corte  ha  inoltre
osservato che il rilievo dei giudici di merito circa la conoscenza da
parte   dell'autorita'   delle  operazioni  oggetto  dell'obbligo  di
comunicazione,  in particolare attraverso forme di pubblicita' legale
degli atti, ha condotto altra giurisprudenza a escludere in radice la
sussistenza    dell'elemento   soggettivo   del   reato,   attraverso
un'interpretazione  idonea a superare i dubbi di costituzionalita', e
che  la  medesima  osservazione deve ripetersi oggi in relazione allo
stesso   argomento   valorizzato  dal  rimettente  a  sostegno  della
questione sollevata;
        che,   anche  alla  luce  delle  possibilita'  interpretative
accennate, deve ribadirsi che la scelta del legislatore di sanzionare
penalmente  la mancata comunicazione delle operazioni patrimoniali da
parte  di persona soggetta a misura di prevenzione qualificata, in un
sistema  di  repressione  del fenomeno della criminalita' organizzata
fortemente  caratterizzato dall'utilizzo degli strumenti di contrasto
di    tipo    patrimoniale,    costituisce    esercizio    dell'ampia
discrezionalita'  che  al  legislatore  medesimo  e'  da riconoscersi
quanto   alla   configurazione   degli   illeciti   penali   e   alla
determinazione    delle   relative   sanzioni,   nel   limite   della
ragionevolezza, limite che nella specie non puo' dirsi superato;
        che  il  rilievo  suddetto  vale tanto piu' in relazione alla
questione  in  esame,  con  la quale il rimettente sembra chiamare la
Corte  a  una  pronuncia  tale  da  comportare  una  riqualificazione
dell'illecito,  cioe'  un  trasferimento  di  esso  dall'ambito della
materia  penale  all'ambito delle violazioni amministrative, cio' che
costituirebbe  propriamente  una scelta riservata al legislatore, cui
spetta   l'individuazione   degli   interessi  meritevoli  di  tutela
attraverso l'una o l'altra tipologia di illecito;
        che,  alla  stregua  delle  osservazioni  che  precedono  - e
altresi' del fatto che le deduzioni del giudice rimettente riferite a
parametri costituzionali ulteriori (artt. 13 e 25 della Costituzione)
non   rivestono   autonomo   rilievo,   essendo   invocati  anch'essi
all'interno  della complessiva censura di eccessivita' e sproporzione
della   sanzione  penale  a  fronte  di  una  condotta  asseritamente
"indifferente"   -,   non   essendovi  motivo  di  discostarsi  dalle
conclusioni  raggiunte  nelle  decisioni  richiamate, la questione di
costituzionalita'  sottoposta al giudizio di questa Corte deve essere
dichiarata manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.