ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale del combinato disposto
degli  artt. 273,  comma  1-bis,  e  192,  commi 3 e 4, del codice di
procedura  penale, promosso con ordinanza emessa il 25 settembre 2001
dal  Tribunale  di Catanzaro sull'istanza proposta da I. F., iscritta
al  n. 934  del  registro  ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, 1a serie speciale, n. 48, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 3 luglio 2002 il Giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  con  ordinanza  emessa  il  25 settembre  2001  il
Tribunale  di Catanzaro ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale  degli
artt. 273,  comma  1-bis  e 192, commi 3 e 4, del codice di procedura
penale,  "nella  parte in cui non prevedono che, in caso di accertata
sottoposizione   a   minaccia  della  persona  informata  dei  fatti,
affinche'  non  renda  dichiarazioni  ovvero  dichiari  il  falso, il
giudice  possa  valutare  le dichiarazioni precedentemente rese dalla
stessa  senza  applicare  i  predetti  commi dell'art. 192 cod. proc.
pen.";
        che  il  giudice  a  quo  -  chiamato  a  pronunciarsi  sulla
richiesta  di  riesame dell'ordinanza con la quale era stata disposta
la custodia cautelare in carcere di una persona indagata per fatti di
estorsione in danno di un imprenditore - premette che con riguardo ad
uno degli episodi estorsivi, culminato nel versamento all'indagato di
una  somma di denaro a mezzo di assegno bancario, la misura cautelare
si  basava  sulle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa
alla  polizia giudiziaria: dichiarazioni che la stessa persona offesa
aveva  peraltro  smentito  nel  corso  di  una  successiva audizione,
affermando  che  l'assegno in questione era stato emesso in pagamento
di crediti di lavoro di un proprio dipendente;
        che, secondo il rimettente, ai fini dell'individuazione delle
regole  di  valutazione  del  materiale  indiziario,  il  dichiarante
dovrebbe  essere  qualificato  -  quantunque  non consti a suo carico
alcuna  iscrizione nel registro delle notizie di reato - come persona
indagata  di un reato collegato a quello per cui si procede, ai sensi
dell'art. 371,  comma  2, lettera b), cod. proc. pen; infatti, stante
la  causale  estorsiva  originariamente attribuita alla dazione della
somma di denaro, avrebbe dovuto ipotizzarsi, in rapporto alle diverse
dichiarazioni   successivamente   rese   dall'offeso,   il  reato  di
favoreggiamento   personale,   e   conseguentemente  procedersi  alle
"formalita'"  di  cui  agli  artt. 63 e 335 cod. proc. pen.: obbligo,
questo,  il  cui inadempimento non potrebbe d'altra parte "ritorcersi
in pregiudizio dell'indagato";
        che   risulterebbe   pertanto   applicabile  il  comma  1-bis
dell'art. 273  cod.  proc.  pen. (aggiunto dall'art. 11 della legge 1
marzo  2001,  n. 63), che, con il richiamo alle regole di valutazione
della  prova  di  cui  all'art. 192,  commi  3  e 4, cod. proc. pen.,
imporrebbe  -  ai  fini  della  valutazione  dell'esistenza dei gravi
indizi   di  colpevolezza,  richiesti  per  l'adozione  della  misura
cautelare  - dopo la verifica dell'attendibilita' dell'accusatore, la
ricerca   di  un  "riscontro  esterno  individualizzante"  delle  sue
dichiarazioni;
        che  nel  caso  di  specie,  mentre le iniziali dichiarazioni
accusatorie dell'offeso risulterebbero "intrinsecamente attendibili",
la  sua  successiva  versione dei fatti si presenterebbe, per contro,
"del tutto inverosimile" e conseguente all'avvenuta intimidazione del
dichiarante mediante minaccia;
        che  le  predette dichiarazioni accusatorie non troverebbero,
tuttavia,   uno   specifico  "riscontro  esterno",  di  modo  che  si
imporrebbe,  alla  luce  del combinato disposto dei citati artt. 273,
comma  1-bis,  e  192,  commi 3 e 4, cod. proc. pen., la revoca della
misura   cautelare   in   atto   per  difetto  dei  gravi  indizi  di
colpevolezza;
        che  ad  avviso del rimettente, peraltro, le norme denunciate
violerebbero  l'art. 3 Cost., disciplinando in modo irragionevolmente
diverso   una   fattispecie  del  tutto  analoga  a  quella  prevista
dall'art. 500, comma 4, cod. proc. pen;
        che  l'ipotesi in questione sarebbe segnatamente quella della
persona  offesa  che,  dopo  aver  reso dichiarazioni accusatorie nei
confronti  di un soggetto, indicandolo come responsabile di un reato,
renda   ulteriori   dichiarazioni   inconciliabili  con  le  prime  e
favorevoli  all'indagato:  dichiarazioni che comportano l'assunzione,
da  parte  della stessa persona offesa, della qualita' di indagato di
reato   collegato,   ma   che  risultano  successivamente  frutto  di
intimidazione;
        che  in  simile  situazione secondo il rimettente - mentre il
giudice  del  dibattimento,  in forza del "meccanismo di salvezza" di
cui  all'art. 500,  comma  4,  cod.  proc.  pen.,  potrebbe pervenire
all'affermazione della responsabilita' dell'imputato sulla base delle
sole  accuse iniziali, ritenute attendibili; il giudice della cautela
si  troverebbe  viceversa  impossibilitato,  in  assenza  di  analogo
meccanismo,  a  valorizzare appieno le genuine dichiarazioni d'accusa
iniziali,   nonostante   l'accertata   minaccia   nei  confronti  del
testimone;
        che   siffatta  disparita'  di  trattamento  -  per  cui,  in
sostanza,   nel  contrasto  fra  dichiarazioni  "di  verita'"  e  "di
intimidazione", il recupero pieno delle prime sarebbe consentito solo
nel  dibattimento  e  non  nel corso delle indagini preliminari - non
potrebbe d'altro canto trovare giustificazione nella diversita' delle
fasi  processuali  in  cui  le  vicende  si  svolgono:  giacche',  al
contrario, tale rilievo renderebbe ancor piu' evidente l'incongruenza
di  un  sistema che, in presenza dei medesimi elementi probatori, non
consente la cattura nell'un caso e permette la condanna nell'altro;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata non fondata.
    Considerato  che il Tribunale rimettente sottopone a scrutinio di
costituzionalita' il combinato disposto degli artt. 273, comma 1-bis,
e  192,  commi 3 e 4, del codice di procedura penale, censurando come
contrario  all'art. 3  Cost.  il  fatto  che  esso  imponga,  ai fini
dell'adozione  delle  misure  cautelari  personali,  la ricerca di un
"riscontro esterno individualizzante" delle dichiarazioni accusatorie
rese  da  persona  indagata  (o imputata) in un procedimento connesso
ovvero  per  un  reato  collegato  ai  sensi  dell'art. 371, comma 2,
lettera  b),  cod.  proc.  pen.:  e  cio' anche quando risulti che il
dichiarante  e'  stato  sottoposto  a  minaccia,  affinche' non renda
dichiarazioni  o  dichiari  il  falso  nel  corso  di  una successiva
audizione;
        che    il    supposto   vulnus   costituzionale   deriverebbe
segnatamente  dalla  irragionevole  disparita' del trattamento in tal
modo  riservato  alla  fattispecie  in questione nel confronto con la
disciplina valevole per la fase dibattimentale: fase nella quale - ad
avviso  del  rimettente  -  il giudice potrebbe viceversa, tramite il
"meccanismo di salvaguardia" prefigurato dall'art. 500, comma 4, cod.
proc.    pen.,   fondare,   coeteris   paribus,   l'affermazione   di
responsabilita'  dell'imputato  sulle  sole dichiarazioni accusatorie
iniziali  del  soggetto  "intimidito",  ancorche' non corroborate dai
"riscontri" richiesti dall'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen;
        che  -  a  prescindere  da  ogni  rilievo  circa la validita'
dell'assunto  del  rimettente,  secondo cui nel procedimento a quo il
dichiarante-persona  offesa  andrebbe  qualificato  come  indagato di
reato collegato (favoreggiamento personale), per il sol fatto di aver
reso  alla  polizia  giudiziaria  due versioni contrastanti dei fatti
(una    accusatoria,   reputata   attendibile,   e   una   successiva
"liberatoria",  viceversa  "inverosimile"),  indipendentemente  dalla
assunzione  effettiva  (e  non  meramente  potenziale) della suddetta
"qualita'" personale - si deve peraltro osservare come, nel formulare
l'anzidetta   censura,  il  rimettente  attribuisca  alla  previsione
dell'art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (come sostituito dall'art. 14
della legge 1 marzo 2001, n. 63) un significato inesatto, confondendo
in sostanza i due profili dell'acquisizione e della valutazione della
prova;
        che  la  disposizione  da  ultimo  citata  -  consentendo  di
acquisire  al  fascicolo  del dibattimento e di utilizzare come prova
dei   fatti  le  dichiarazioni  precedentemente  rese  dalla  persona
esaminata, allorche' vi siano elementi concreti per ritenere che essa
sia  stata  sottoposta  a  violenza,  minaccia, offerta o promessa di
denaro  o  di  altra  utilita',  affinche' non renda dichiarazioni in
dibattimento   o   dichiari  il  falso  -  rimuove,  in  effetti,  lo
sbarramento   all'utilizzabilita'   dibattimentale   di   determinate
dichiarazioni  rese  fuori  del  contraddittorio  delle  parti:  e lo
rimuove  -  in attuazione all'art. 111, quinto comma, Cost., aggiunto
dall'art. 1  della  legge  costituzionale  23 novembre 1999, n. 2 - a
fronte  della circostanza che il contraddittorio (quello genuino) non
puo'   nella  contingenza  instaurarsi,  perche'  ostacolato  da  una
condotta illecita;
        che   cio'   non   significa   affatto,   tuttavia,   che  le
dichiarazioni  accusatorie acquisite in forza dell'art. 500, comma 4,
cod.   proc.   pen. restino  sottratte  alle  regole  generali  sulla
valutazione   della  prova,  beneficiando  di  una  sorta  di  regime
"privilegiato" di attendibilita';
        che al contrario - qualora, in base alla previsione normativa
in  parola,  vengano  acquisite  dichiarazioni accusatorie rese da un
imputato  in  procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371,
comma 2, lettera b), cod. proc. pen. (cfr. artt. 197-bis e 210, comma
5,  cod. proc. pen.) - tali dichiarazioni restano pienamente soggette
alla regola dettata dall'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., alla
stregua  della  quale  esse  sono  valutate  "unitamente  agli  altri
elementi  di  prova che ne confermano l'attendibilita'", posto che la
lettera  e  la  ratio  dell'art. 500,  comma  4, cod. proc. pen., non
autorizzano una conclusione diversa;
        che,  di  conseguenza - mentre e' evidente che il "meccanismo
di  recupero"  di  cui  all'art. 500,  comma  4, cod. proc. pen., non
viene, ne' puo' venire, in considerazione ai fini dell'adozione e del
riesame  delle  misure cautelari personali nella fase delle indagini,
potendo  il  giudice utilizzare, a tali fini, il materiale probatorio
raccolto unilateralmente dal pubblico ministero, senza sbarramenti di
sorta  -  non  e'  riscontrabile,  in  realta',  alcuna disparita' di
trattamento  tra  fase  delle  indagini  e  dibattimento, in punto di
valutazione  delle  dichiarazioni  accusatorie  rese dall'indagato in
procedimento  connesso  o  di  reato  collegato  "coartato": restando
ferma,   in   entrambi  i  casi,  l'applicabilita'  della  regola  di
valutazione de qua;
        che   la   questione   va  dichiarata  dunque  manifestamente
infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.