IL TRIBUNALE Con ricorso depositato presso la cancelleria del Tribunale di Genova sezione lavoro Bracuto Maria premesso che e' dipendente del Comune di Genova, a decorrere dal 25 maggio 1998, con mansioni di ufficiale di polizia municipale, inquadrata nella categoria "D" secondo l'inquadramento professionale delineato dal contratto collettivo del settore; che una clausola del contratto collettivo decentrato esclude dalla valutazione per la progressione economica i dipendenti con anzianita' di servizio inferiore a due anni, che siffatta clausola, in forza della quale le e' stata negata la progressione orizzontale, e' affetta da nullita' perche' in contrasto col contratto collettivo di comparto; tutto cio' premesso chiede il riconoscimento della progressione di cui sopra. Il Comune di Genova si costituisce e contesta la fondatezza della domanda attrice assumendo che la summenzionata clausola, del contratto decentrato e' valida in quanto non contrastante col contratto collettivo di comparto, ma coerente con i principi da esso enunciati. E' opportuno richiamare brevemente le argomentazioni svolte sia negli atti scritti, sia nell'ampia discussione orale, con cui le parti sostengono le rispettive e contrastanti tesi. La difesa della ricorrente richiama l'art. 5 del contratto di comparto del 31 marzo 1999 (sono prodotti due contratti del comparto enti locali stipulati il 31 marzo 1999 ed il 1 aprile 1999) che fra l'altro dispone: "... la progressione economica di cui al comma 1 si realizza ... nel rispetto dei seguenti criteri: a) per i passaggi nell'ambito della categoria "A", sono utilizzati gli elementi di valutazione di cui alle lettere b) e c) adeguatamente semplificati in relazione al diverso livello di professionalita' dei profili interessati; b) per i passaggi alla prima posizione economica successiva ai trattamenti tabellari iniziali delle categorie "B" e "C", gli elementi di cui alla lettera c) sono integrati valutando anche l'esperienza acquisita; c) per i passaggi alla seconda posizione economica, successiva ai trattamenti tabellari iniziali delle categorie "B" e "C" previa selezione in base ai risultati ottenuti, alle prestazioni rese con piu' elevato arricchimento professionale, anche conseguenti ad interventi formativi e di aggiornamento collegati alle attivita' lavorative ed ai processi di riorganizzazione, all'impegno e alla qualita' della prestazione individuale; d) per i passaggi all'ultima posizione economica della categorie "B" e "C" nonche' per la progressione all'interno della categoria "D", secondo la disciplina dell'articolo 12, comma 3, previa selezione basata sugli elementi di cui al precedente punto c), utilizzati anche disgiuntamente ....". Ora, sostiene sempre la difesa dell'attrice, la valutazione dell'esperienza acquisita, che potrebbe in teoria giustificare l'esclusione di chi non abbia maturato un minimo di anzianita' di servizio, costituisce un criterio, previsto dalla lettera b) della sopra trascritta norma, integrativo di quelli previsti dalla successiva lettera c); ma per le progressioni all'interno della categoria "D" (e' la categoria in cui e' inquadrata la ricorrente) questo criterio integrativo deve ritenersi escluso perche' sono richiamati solo quelli delineati dalla lettera c); ed in contrasto con tale esclusione il contratto decentrato avrebbe previsto il requisito dell'anzianita' di servizio quale presupposto per valutare, ai fini della progressione economica, la Bracuto inquadrata nella categoria "D". Aggiunge la difesa della ricorrente che l'art. 17 del contratto di comparto del 1 aprile 1999 prevede l'istituzione di un fondo per gli incrementi retributivi e dispone tra l'altro che le risorse di tale fondo sono destinate "... alle posizioni di sviluppo della progressione economica orizzontale attribuite a tutto il personale in servizio.", e l'espressione "attribuite a tutto il personale in servizio" andrebbe intesa nel senso che tutto il personale in servizio avrebbe diritto ad essere valutato ai fini della progressione economica, senza aprioristiche esclusioni come quella lamentata dall'attrice. Anche sotto questo profilo andrebbe ravvisato il denunciato contrasto tra la clausola della quale l'attrice lamenta l'applicazione nei suoi confronti ed il contratto di comparto. Osserva ancora la difesa della Bracuto: il dipendente che non abbia maturato il biennio di anzianita' per cio' solo non viene ammesso al concorso, sicche' in definitiva si vede valutato negativamente sulla base di un unico criterio (appunto l'anzianita' di servizio) introdotto dal contratto decentrato, mentre il contratto di comparto prevede comunque una pluralita' di criteri di valutazione in concorso tra loro. Ecco quindi, sempre secondo la difesa dell'attrice, un ulteriore profilo di contrasto fra il contratto di comparto ed il contratto integrativo. La difesa del convenuto assume invece che tale contrasto non sussisterebbe e che la clausola in questione si porrebbe nell'ambito dei principi e delle direttive che il contratto di comparto ha impartito alla contrattazione integrativa, e che sono dettati in particolare dall'articolo l6 (contratto di comparto del 31 marzo 1999) che dispone tra l'altro: "... le materie di contrattazione decentrata ... sono integrate dalle seguenti ... completamento ed integrazione dei criteri della progressione economica all'interno della categoria di cui all'art. 5, comma 2 ...". Argomenta il resistente che il presupposto di almeno due anni di anzianita' sarebbe stato legittimamente introdotto quale criterio integrativo la cui formulazione e' demandata dal contratto di comparto a quello decentrato. Aggiunge la difesa del convenuto che ai sensi del gia' richiamato e trascritto art. 5 del contratto di comparto (del 31 marzo 1999) sono oggetto di valutazione, ai fini della progressione economica, fra l'altro, i risultati ottenuti, le prestazioni rese con piu' elevato arricchimento professionale, gli interventi formativi e di aggiornamento, l'impegno e la qualita' della prestazione individuale; tutti elementi la cui adeguata valutazione presuppone lo svolgimento dell'attivita' lavorativa del dipendente per un congruo arco di tempo. Sicche' anche sotto questo profilo, sempre secondo la difesa del convenuto, si muoverebbe nello spirito del contratto di comparto la clausola del contratto decentrato che ammette alla valutazione per la progressione economica i dipendenti che abbiano almeno un biennio di anzianita'. Le contrastanti tesi rispettivamente sostenute dalle parti pongono il seguente problema; la clausola del contratto decentrato che esclude dalla valutazione per la progressione economica i dipendenti che non abbiano maturato almeno un biennio di anzianita', e che e' stata applicata dal Comune di Genova nei confronti della Bracuto, e' legittima perche' rispettosa dei limiti stabiliti per la contrattazione integrativa dal contratto di comparto, oppure si pone in contrasto con esso, ed e' conseguentemente affetta da nullita' ai sensi del terzo comma dell'art. 40 del d.lgs. n. 165/2001? La soluzione del quesito, dalla quale dipende l'accoglimento o la reiezione della domanda attrice, comporta un delicato problema di interpretazione dei passi del contratto di comparto che sono stati presi in esame dalle parti. La delicatezza del problema emerge dalle opposte argomentazioni rispettivamente svolte dalle parti e che si sono illustrate. Argomentazioni che appaiono ragionevoli e sviluppate con attenta considerazione della lettera del documento. Il problema interpretativo da risolvere, concernendo la portata di un contratto sottoscritto dall'ARAN, fa scattare il complesso meccanismo delineato dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001. Vale a dire il giudice deve con ordinanza non impugnabile indicare la questione interpretativa da risolvere, darne comunicazione all'ARAN, e fissare l'ulteriore trattazione della causa non prima di centoventi giorni. A sua volta l'ARAN convoca le organizzazioni sindacali stipulanti per una eventuale interpretazione autentica della clausola, o delle clausole di cui trattasi, o per una loro eventuale modifica. Questo giudice dubita che il suddetto meccanismo sia conforme alla Costituzione, e gia' in altra controversia ha investito la Corte costituzionale della relativa questione. La questione e' stata, con ordinanza n. 233/2002, dichiarata manifestamente inammissibile con questa motivazione: "il rimettente, pur assumendo che si pone, nella specie, un delicato problema di interpretazione del contratto collettivo, non motiva ne' argomenta in alcun modo, in ordine alle ragioni che avvalorano siffatto dubbio ... in tal modo egli non fornisce adeguata motivazione circa la necessita' in cui si trova di dover fare applicazione, al caso sottoposto alla sua cognizione, della norma censurata ...". Da questa censura, ad avviso del giudicante, va esente il presente provvedimento nel quale si e' ampiamente detto del contrasto interpretativo fra le parti, e si sono ampiamente illustrate le rispettive serie argomentazioni. Circa la non manifesta infondatezza della cennata questione di legittimita' costituzionale e circa e la sua rilevanza questo giudice osserva quanto segue richiamando il suo precedente provvedimento. E' opportuno, per un adeguato inquadramento della problematica da affrontare, chiarire che il contratto collettivo si configura, almeno nel settore dell'impiego presso le p.a., quale fonte di diritto oggettivo. Contiene infatti norme generali ed astratte che si applicano al caso concreto con lo stesso meccanismo previsto per le norme di legge. E' inoltre, al pari di una norma di legge, efficace erga omnes. Ne' varrebbe obiettare, per contestare siffatta efficacia, che il c.c., anche nell'ipotesi di mancata iscrizione del dipendente a1l'organizzazione sindacale stipulante, si applica al singolo rapporto di pubblico impiego non per forza propria, ma in quanto richiamato dal contratto individuale. L'obiezione non appare fondata perche', anche in difetto di siffatto richiamo, il c.c. e' direttamente applicabile al rapporto individuale di pubblico impiego, e si sostituisce automaticamente alle clausole individuali difformi, in forza dell'art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 che sancisce: "Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, parita' di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi". E non si vede come possa attuarsi la parita' di trattamento contrattuale se non applicando a tutti i dipendenti il contratto collettivo del settore. L'obiezione di cui sopra, oltre che in contrasto col citato articolo, non convince anche perche' finisce col negare la funzione storica del contratto collettivo, la quale si concreta, come e' noto, nella tutela del prestatore considerato, per la sua debolezza economica, incapace di contrapporsi adeguatamente alla controparte in sede di trattative individuali. E' chiaro che tale funzione verrebbe clamorosamente a mancare se l'applicazione del contratto collettivo fosse rimessa alla volonta' espressa dalle parti in sede di pattuizione individuale. II contratto collettivo, almeno nel settore del pubblico impiego, si assimila ad una fonte di diritto oggettivo anche con riguardo al principio iura novit curia, atteso che i contratti sottoscritti dall'ARAN vengono, ai sensi dell'ottavo comma dell'art. 47 del d.lgs. n. 165/2001, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Va inoltre rilevato che sussiste una correlazione fra la disciplina dell'impiego pubblico dettata dal contratto collettivo del settore e l'interesse, tutelato dall'art. 97 della Costituzione, al corretto operare degli uffici della pubblica amministrazione. E' opportuno ricordare che una connotazione essenziale del lavoro dipendente si ravvisa, secondo un autorevole insegnamento, nello stabile inserimento del prestatore nell'organizzazione dell'impresa, sicche' la disciplina del lavoro subordinato incide sulla organizzazione dell'impresa, organizzazione che a sua volta e' strettamente collegata ai fini che l'imprenditore si propone. Sussiste quindi un legame a filo doppio fra la disciplina del lavoro subordinato e le finalita' perseguite dall'apparato produttivo in cui il prestatore opera, finalita' che nel settore pubblico attengono al corretto svolgimento della funzione demandata all'ufficio della p.a., ed all'interesse pubblico che vi e' sotteso. Ne consegue la funzionalizzazione della regolamentazione del pubblico impiego all'interesse pubblico di cui al citato art. 97 della Costituzione. Il punto e' assai delicato ed il suo approfondimento comporterebbe un lungo discorso che non puo' essere svolto in questa sede. Qui preme sottolineare che la suddetta funzionalizzazione e' stata affermata da numerose sentenze della Corte costituzionale (v. in proposito C. cost. 9 dicembre 1968, n. 124 in Giur. cost. 1968, 2161 ss; C. cost. 7 aprile 1981, n. 52 ivi 1981, 321 ss; C. cost. 13 ottobre 1988, n. 964 ivi, 1989, 4543 ss; C. cost. 18 gennaio 1989, n 1, ivi, 1989, 3 ss; C. cost. 24 gennaio 1989, n. 19, ivi 1989, 111 ss.; Corte cost. 3 giugno 1999, n. 206 in Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale - n. 23; Corte costituzionale sent. 4 gennaio 1999 n. 1 - in Gazzetta Ufficiale 13 gennaio 1999 - 1a serie speciale - n. 2). Particolarmente significativo un passo della sentenza della Corte costituzionale del 5 maggio 1980, n. 68 e del seguente tenore: "... Il principio enunciato dall'art. 97 Cost., non riguarda esclusivamente l'organizzazione interna dei pubblici uffici, ma si estende alla disciplina del pubblico impiego in quanto possa influire sull'andamento dell'amministrazione ... In altre parole e' innegabile che la disciplina del lavoro e' pur sempre strumentale, mediamente o immediatamente, rispetto alle finalita' istituzionali assegnate agli uffici in cui si articola la pubblica amministrazione.". Si deve anche rilevare che ai sensi del sopra richiamato comma 2 dell'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001 il contratto collettivo nel pubblico impiego non e' derogabile ne' in peggio ne' in meglio per il lavoratore, e si applica direttamente al posto delle clausole difformi del contratto individuale. E mentre la inderogabilita' in peggio (sempre per il lavoratore), comune anche al settore privato, si spiega agevolmente con l'esigenza di tutelare il dipendente quale parte piu' debole del rapporto, la inderogabilita' in meglio non puo' trovare altra spiegazione che nella pubblica funzione svolta dal contratto collettivo. La funzionalizzazione all'interesse pubblico contemplato dall'art. 97 della Costituzione costituisce quindi connotazione del c.c. (nel settore pubblico) che lo allontana dalla figura del contratto di diritto comune, e nel contempo lo avvicina ad una fonte di produzione di diritto oggettivo. Inoltre il terzo comma dell'art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 espressamente disciplina il contrasto fra i vari livelli di contrattazione collettiva secondo il principio gerarchico e, come e' ben noto, detto principio presiede alla risoluzione delle antinomie fra norme nell'ambito delle fonti di diritto oggettivo. Infine l'art. 63, comma 5 del d.lgs. n. 165/2001, configurando quale motivo del ricorso in cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali, ne completa l'assimilazione alla legge. Attese le considerazioni di cui sopra si deve concludere che i sindacati svolgono, almeno nel settore del pubblico impiego, una funzione di produzione di diritto oggettivo. Cio' posto e' opportuno puntualizzare che, se pur rientra nell'autonomia delle parti definire in ogni momento in via negoziale una controversia in corso, ben diversa e' l'attivita' cui, nella previsione del citato art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, sono stimolate le organizzazioni sindacali; attivita' volta non alla diretta definizione della controversia, bensi' a dettare l'interpretazione autentica di una norma generale ed astratta da applicare in causa, od a modificarla con un'altra norma generale ed astratta. In questo quadro appare evidente che l'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui prevede un temporaneo arresto del processo per consentire una interpretazione autentica, od una modifica in sede sindacale della clausola (o delle clausole) controversa (e), ed impone al giudice un'attivita' processuale per stimolare siffatta attivita', viola innanzitutto gli articoli 101 e 102 e 111 della Costituzione (d'ora in poi si fara' riferimento al citato art. 111 cosi' come modificato dall'art. 1, legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) perche' configura l'interferenza di un potere normativo in un processo in corso. E' pur vero che rientra nel potere delle organizzazioni sindacali stipulanti provvedere in ogni momento ad interpretare autenticamente od a modificare una clausola contrattuale, cosi' come rientra nel potere legislativo interpretare autenticamente o modificare una norma di legge; ma trattasi di attivita' che, prescindendo da un processo in corso, si svolgono su di un piano diverso rispetto a quello giurisdizionale. Nel caso in esame la realta' e' ben diversa, si impone al giudice di stimolare, mediante determinati adempimenti, le organizzazioni sindacali stipulanti ad interpretare autenticamente o a modificare una norma contrattuale da applicare in una controversia in corso; controversia il cui svolgimento viene arrestato, sia pure temporaneamente, in attesa appunto dei risultati dell'attivita' richiesta. Tale situazione e' caratterizzata da una commistione fra il piano normativo e quello giudiziario, in quanto la decisione, almeno su di un profilo della controversia, viene trasferita dalla sede del processo in corso, che proprio per questo subisce un temporaneo arresto, ad altra sede. Si concreta quindi l'interferenza di un potere normativo in un processo in corso la quale appare ben poco compatibile con i citati articoli 101, 102 e 111 della Costituzione. L'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, nella parte che si sta esaminando, presenta un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione perche' riserva alle controversie promosse dai dipendenti delle p.a. una disciplina processuale differente da quella dettata per le altre controversie di lavoro; disparita' ingiustificata, ed in contrasto con il criterio di fondo ispiratore della riforma del pubblico impiego, che e' quello dell'omogeneizzazione della disciplina sostanziale e processuale del lavoro dipendente sia nel settore pubblico che in quello privato. Si ravvisa un ulteriore contrasto, e sotto un duplice profilo, della normativa in esame con l'art. 24 della Costituzione. Secondo un primo profilo il meccanismo delineato dal citato art. 64 non consente la tutela in sede cautelare perche' appare incompatibile per la sua macchinosita', basti pensare all'arresto del processo per almeno centoventi giorni, con le esigenze di celerita' inscindibilmente connesse con i procedimenti delineati dagli articoli 669-bis e seguenti del c.p.c. Nella normalita' dei casi rimandare ad un futuro non prossimo la concessione della tutela cautelare si risolve in sostanza nella negazione della stessa. Ne' vale obiettare che a siffatto inconveniente si puo' ovviare accedendo ad una ragionevole interpretazione che escluda in sede cautelare l'applicabilita' del macchinoso procedimento in questione. Tale ragionevole interpretazione non darebbe comunque accesso alla tutela cautelare per i motivi che seguono. Giova ricordare che la concessione di una misura cautelare e' subordinata alla sussistenza di due elementi: il pericolo nel ritardo ed il c.d. fumus che attiene alla valutazione positiva, sia pur sommaria, della pretesa fatta valere in sede interinale. In altri termini il giudice concede la misura cautelare richiesta se (oltre a ravvisare il pericolo nel ritardo) ritiene allo stato verosimile che la pretesa attrice verra' accolta in sede di merito. Si tratta di una valutazione che in sede sommaria viene effettuata sulla base di criteri giuridici del tutto analoghi a quelli cui si atterra' il giudice di merito. E' proprio questa analogia di criteri che rende possibile e ragionevole, nel corso del procedimento cautelare, un pronostico circa l'accoglimento della domanda attorea in sede di merito. Ed e' proprio questa analogia di criteri che viene a mancare nelle controversie promosse da un dipendente pubblico in sede cautelare, e che coinvolgono l'interpretazione di una o piu' clausole di un contratto collettivo stipulato dall'ARAN. In sede di merito e' previsto, sulle predette clausole, un intervento che condizionera' la pronuncia giudiziale, e che, in quanto frutto di un accordo sopravvenuto fra l'ARAN e le sue controparti, non sara' fondato su criteri giuridici, anche se qualificato interpretativo, ma sara' espressione di discrezionalita' normativa, o, se si preferisce, di autonomia negoziale. E sarebbe una irragionevole anomalia del sistema imporre al giudice, ai fini della valutazione del fumus, la previsione di un esito negoziale. Si deve pertanto concludere che il meccanismo delineato dall'art. 64 in esame preclude la tutela cautelare perche' rende inammissibile la valutazione del fumus. Gia' sotto questo profilo deve ritenersi violato l'art. 24 della Costituzione perche' l'attore viene privato della tutela cautelare. Sotto un ulteriore profilo si configura un contrasto fra l'art. 64 in esame e l'art. 24 della Costituzione da coordinarsi con l'art. 111 gia' menzionato. Detto contrasto emerge ove si consideri che il lavoratore parte in causa, nell'ipotesi in cui i sindacati abbiano portato a compimento l'attivita' loro richiesta, non avra' avuto, quale singolo, alcuno spazio per svolgere le proprie difese e far valere le proprie ragioni al tavolo delle trattative sindacali che sostituiscono il procedimento giurisdizionale in corso. Il punto e' assai delicato e merita un'ulteriore approfondimento. Il citato art. 111 della Costituzione nei commi 1 e 2 riecheggia l'art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (firmata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia il 26 ottobre 1955 con il deposito degli strumenti di ratifica intervenuta in forza della legge 4 agosto 1955 n. 848) la cui prima parte tradotta in lingua italiana dal testo francese suona cosi': "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale decidera' sia sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza dell'accusa penale che le venga rivolta ...". La norma della Costituzione italiana sul giusto processo va quindi letta alla stregua dei principi elaborati sul tema del processo equo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Una lettura che si impone, oltre che per una stretta somiglianza delle due norme sopra citate sotto il profilo letterale, anche per evitare eventuali sanzioni a carico dello Stato italiano da parte della Corte medesima. Ora nella giurisprudenza della Corte europea viene piu' volte affermato il principio secondo cui assicurare un processo equo significa anche assicurare la c.d. "uguaglianza delle armi". Cosi' nella decisione Dombo Beheer contro Paesi Bassi del 27 ottobre 1993 (serie A n. 274) si legge il seguente passo: "La Corte concorda con la Commissione nel ritenere che, nelle controversie concernenti opposti interessi privati, "uguaglianza delle armi comporta che ciascuna parte debba disporre di una ragionevole opportunita' di esporre il proprio caso - comprese le prove - a condizioni che non la pongano in posizione di sostanziale svantaggio nei confronti della controparte". (Ed in senso analogo la sentenza Raffinerie Greche Stran e Stratis Andreadis contro Grecia - serie A n. 301-b). E nella fattispecie delineata dai commi uno e due dell'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001 e' proprio la c.d. "uguaglianza delle armi" che viene a mancare in pregiudizio del dipendente attore nella controversia in corso. Invero costui, come si e' gia' osservato, non dispone piu', almeno in ordine ad un profilo della controversia, di una sede in cui far valere il proprio punto di vista, mentre la controparte attraverso l'ARAN, che e' un rappresentante della p.a., puo' far valere le proprie ragioni nella sede delle trattative sindacali, sede che, come si e' visto, viene, sia pure in via eventuale, a sostituire quella processuale. Ne' varrebbe obiettare che anche l'attore nella singola controversia di pubblico impiego potrebbe, in sede di trattative sindacali, far valere le proprie ragioni tramite il sindacato cui e' iscritto. L'obiezione non sarebbe convincente. Va in proposito sottolineata la profonda differenza fra i vincoli che rispettivamente legano l'ARAN alla pubblica amministrazione ed il pubblico impiegato al sindacato cui e' iscritto. Le pubbliche amministrazioni sono rappresentate dall'ARAN nei cui confronti esercitano un potere di indirizzo (art. 41 del d.lgs. n. 165/2001), mentre, secondo una dottrina ormai dominante, non puo' qualificarsi rappresentanza il rapporto fra il singolo lavoratore ed il sindacato cui e' iscritto. L'interesse individuale del lavoratore puo' essere in contrasto con l'interesse collettivo di cui il sindacato e' portatore; inoltre alle trattative sindacali con l'ARAN partecipano anche sindacati cui non e' iscritto il singolo impiegato, il quale per di piu' puo', legittimamente, non essere iscritto ad alcun sindacato. Le considerazioni appena svolte inducono a ravvisare oltre l'illustrato contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione, un ulteriore contrasto fra l'art. 64, nella parte che si sta esaminando, e l'art. 39 della Costituzione che solennemente sancisce il principio di liberta' sindacale; principio che comporta anche la facolta' per il singolo di prospettare, in ordine ai prodotti della contrattazione collettiva, le proprie esigenze, il proprio punto di vista, e di manifestare il proprio dissenso. Ebbene di tale facolta' il singolo viene spogliato persino in sede giurisdizionale. In questa prospettiva l'interesse collettivo rischia di perdere la sua configurazione di sintesi degli interessi individuali, per divenire frutto di una valutazione di vertice caratterizzata da assoluta eteronomia nei confronti dei singoli. In altri termini l'ermeneutica giudiziale appare sede adeguata per sciogliere in modo equilibrato la tensione fra la dimensione collettiva degli interessi e le esigenze individuali. Trasferire tale tensione esclusivamente in sede collettiva comporta il rischio di sacrificare uno dei due poli della dialettica, vale a dire le esigenze individuali. Sara' la Corte costituzionale a stabilire se questa compressione delle facolta' del singolo sia compatibile col primo comma dell'art. 39 della Costituzione. E la citata norma della Costituzione viene violata sotto un ulteriore profilo. Come messo in luce dalla piu' autorevole dottrina l'esigenza di fondo che ispira i commi due, tre e quattro dell'art. 39 della Costituzione e' quella di subordinare l'efficacia erga omnes dei contratti collettivi al rispetto del principio di maggioranza. E proprio per riguardo a siffatto principio l'art. 43 del d.lgs. n. 165 del 9 maggio 2001 dispone che L'ARAN sottoscriva contratti di comparto, come si e' visto efficaci erga omnes, solo se vi aderiscano organizzazioni sindacali che rappresentino nel loro complesso la maggioranza dei lavoratori del comparto interessato (e precisamente almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell'area contrattuale, o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito). Ebbene l'accordo previsto dall'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, anch'esso ovviamente efficace erga omnes, viene stipulato da organizzazioni sindacali individuate, quali controparti dell'ARAN, solo in quanto firmatarie del precedente contratto da interpretare o da modificare, a prescindere dalla loro attua1e rappresentativita'. Viene quindi violato l'art. 39 della Costituzione anche sotto il profilo del rispetto del principio di maggioranza. L'art. 64 che si sta esaminando e che, e' bene ricordare, e' una norma di legge delegata, appare altresi' in contrasto con l'art. 76 della Costituzione per eccesso di delega. Si rileva in proposito che nell'ambito degli "oggetti definiti", secondo l'espressione usata dall'art. 76 della Costituzione, il legislatore delegato, anche a volerne ammettere il potere di dettare norme delegate che vadano oltre il mero svolgimento delle enunciazioni di principio espressamente formulate dalla legge delegante, non ha tuttavia la facolta' di innovare, senza specifica autorizzazione, la legislazione preesistente. In altri termini nella delega, in quanto non diversamente disposto, si ritiene implicito il richiamo al rispetto della legislazione preesistente. Il citato art. 64 appare quindi sospetto di illegittimita' costituzionale per eccesso di delega perche', senza alcuna specifica autorizzazione da parte del delegante, innova la disciplina del processo civile, introducendo, come si e' visto, una ipotesi di arresto, sia pure temporaneo, del processo stesso. E' pur vero che la legge delega (legge n. 59 del 15 marzo 1997 all'articolo 11 lettera G) prevede: "... misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso ..."; ma possono farsi rientrare in una previsione cosi' generica anche specifici casi di temporaneo arresto del processo? Una risposta affermativa a tale domanda non appare ammissibile perche' in contrasto con l'art. 76 della Costituzione nella parte in cui dispone che la delega legislativa al Governo deve essere effettuata con "... determinazione dei principi e dei criteri direttivi ...". Detta norma verrebbe in definitiva vanificata se l'espressione teste' trascritta non alludesse solo a principi e criteri dotati di adeguata concretezza, ma comprendesse anche una formulazione di essi del tutto vaga e generica. E per completezza di indagine e' opportuno aggiungere che la determinazione (e' bene ribadire dotata di adeguata concretezza) di principi e criteri direttivi non si rinviene nemmeno nell'articolo uno della legge 24 novembre 2000, n. 240 con la quale il Governo e' stato delegato ad emanare un testo unico in materia di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle p.a. omogeneizzato a quello del settore privato, testo unico che ha poi preso corpo nel d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 il cui articolo 64 e' oggetto della disamina svolta nella presente ordinanza. Tale conclusione emerge dalla piana lettura del citato articolo uno il quale si limita a disporre che: "Entro il 31 marzo 2001, il Governo e' delegato, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ad emanare un testo unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell'impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni e indicando, in particolare: a) le disposizioni legislative abrogate a seguito della sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, ai sensi dell'art. 72 del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, e successive modificazioni; b) le norme generali e speciali del pubblico impiego che hanno cessato di produrre effetti, ai sensi dell'art. 72 del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, e successive modificazioni, dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, del secondo contratto collettivo previsto dal medesimo decreto.". La norma si limita a demandare un mero coordinamento, in particolare mediante l'indicazione delle leggi abrogate, fra i vari prodotti legislativi che si sono susseguiti in tema di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Anche l'art. 76 della Costituzione appare quindi violato. La questione di illegittimita' costituzionale teste' esaminata, oltre che non manifestamente infondata per le considerazioni che precedono, appare anche rilevante nel presente giudizio perche' il suo eventuale accoglimento eliminerebbe norme che incidono pesantemente sulla definizione del processo in corso. Vi incidono perche', come si e' gia' visto, privano il giudice del potere di decidere su di un profilo della controversia sottoposta al suo esame, e trasferiscono la relativa decisione in altra sede. L'eventuale accoglimento della prospettata questione renderebbe subito applicabile il terzo comma del menzionato art. 64 che dispone: "Se non interviene l'accordo sulla interpretazione autentica o sulla modifica della clausola controversa, il giudice decide con sentenza sulla sola questione di cui al comma 1, impartendo i distinti provvedimenti per l'istruzione, o comunque per l'ulteriore prosecuzione della causa. La sentenza e' impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione, proposto nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza. Il deposito nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa di una copia del ricorso per Cassazione, dopo la notifica alle altre parti, determina la sospensione del processo.". Anche la norma teste' trascritta impone al giudice una determinata conduzione del processo; vale a dire gli impone di decidere con sentenza non definitiva la questione di interpretazione della clausola contrattuale (o delle clausole) dedotta (e) in giudizio, e di disporre con separata ordinanza l'ulteriore trattazione della causa, salva la sospensione del processo in caso del ricorso in Cassazione avverso la sentenza non definitiva. Sarebbe quindi rilevante la questione di illegittimita' Costituzionale della predetta norma, la cui soppressione da parte della Corte costituzionale restituirebbe al giudice ogni valutazione discrezionale in merito all'opportunita' di emettere allo stato una sentenza non definitiva, o di rinviare ogni decisione a seguito dell'ulteriore trattazione del processo. La questione appare poi non manifestamente infondata per le considerazioni che seguono. Come si e' sopra osservato il legislatore delegato non ha, senza una espressa autorizzazione del delegante, la facolta' di innovare la legislazione preesistente. Ora la norma in esame, che, e' bene ribadire, e' contenuta in una legge delegata, introduce, senza una relativa delega, una rilevante modifica della preesistente disciplina processuale perche', come si e' visto, impone al giudice una determinata conduzione del processo, imponendogli di emettere una sentenza non definitiva su di un determinato profilo della controversia, privandolo di ogni valutazione discrezionale sull'opportunita' di rinviare ogni decisione al definitivo. Ne' una delega in proposito puo' ravvisarsi nel richiamato articolo 11, lettera g) della legge delega n. 59 del 15 marzo 1997 che prevede; "... misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso ...". La norma delegante e' formulata in termini troppo generici per soddisfare la prescrizione dettata dall'art. 76 della Costituzione. In proposito non resta che richiamare quanto si e' sopra osservato anche in ordine alla successiva legge delega n. 240/2000. Il comma tre del piu' volte citato art. 64 appare quindi sospetto di illegittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 76 della Costituzione. La medesima norma di legge delegata appare altresi', per le considerazioni gia' svolte a proposito del temporaneo arresto del processo e del contestuale invio di taluni atti all'ARAN, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di eguaglianza. Ed il contrasto con l'art. 3 della Costituzione si prospetta anche sotto il profilo della manifesta irragionevolezza. Invero l'art. 64 nella parte che si sta esaminando impone al giudice di stabilire in via preliminare, con sentenza non definitiva, la interpretazione di una o piu' clausole di un contratto collettivo da applicare nella controversia in corso. Poiche' la clausola di un contratto collettivo e' caratterizzata da generalita' ed astrattezza, e la funzione del giudice e' quella di fornire con sentenza la interpretazione di una norma generale ed astratta in relazione ad un caso concreto, si deve concludere che nella specie il caso concreto di riferimento sia quello che risulta dalle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo. Con il conseguente possibile irrazionale spreco di attivita' giurisdizionale se il fatto poi accertato risultera' diverso da quello dedotto a fondamento della domanda attorea. Se poi si volesse ritenere che il meccanismo delineato dall'art. 64 in questione dovesse operare sulla base del fatto accertato a seguito della conclusa istruttoria, la norma in esame apparirebbe manifestamente irrazionale sotto un altro profilo, perche' imporrebbe al giudice di emettere una sentenza non definitiva, e di disporre con separata ordinanza la prosecuzione del processo, sebbene la causa sia gia' matura per la decisione definitiva. Lo spreco di attivita' giurisdizionale (che si verifica in entrambe le ipotesi appena prospettate) appare altresi' in contrasto con l'art. 111 della Costituzione, vale a dire col principio del processo equo che per essere tale va definito in tempo ragionevole (vedi sul punto il citato art. 111 da leggere sempre, per le considerazioni gia' svolte, alla luce dell'art. 6 della Convenzione ed alla stregua delle sentenze della Corte che hanno condannato lo Stato italiano per la eccessiva durata dei processi, sentenze talmente numerose e note che ogni citazione appare superflua). Pertanto il terzo comma del piu' volte citato art. 64 appare sospetto di illegittimita' costituzionale anche per contrasto con gli articoli 3 e 111 della Costituzione. Attese le considerazioni svolte appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dei commi uno e due dell'art. 64 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per contrasto con gli articoli 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111 della Costituzione; e nell'ipotesi di accoglimento della suddetta questione assume immediata rilevanza la non manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale del comma 3 dell'art. 64 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per contrasto con gli articoli 3, 76 e 111 della Costituzione.