ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 30-bis del
codice  di procedura civile, in relazione agli articoli 11 del codice
di  procedura  penale e 1 delle disposizioni di attuazione del codice
di  procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 agosto 2001
dal Tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Claudio
Cressati  e  Caterina  Brindisi,  iscritta  al  n. 885  del  registro
ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 44, 1a serie speciale, dell'anno 2001.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 5 giugno 2002 il giudice
relatore Franco Bile.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  l'ordinanza  in epigrafe, il Tribunale di Bologna, in
funzione  di  giudice  dell'esecuzione,  ha  sollevato  questione  di
legittimita'   costituzionale  dell'articolo  30-bis  del  codice  di
procedura  civile,  ritenendolo  in contrasto con gli articoli 3, 24,
25,  97,  101 e 111 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta
l'esecuzione forzata, ed in particolare quella per obblighi di fare e
non  fare  ex  art. 612  cod.  proc.  civ.,  promossa  da o contro un
magistrato,  alla  competenza  di un giudice diverso da quello di cui
all'art. 26 del codice di procedura civile.
    La  questione  e'  stata  sollevata nel corso di due procedimenti
riuniti  introdotti  separatamente, ai sensi dell'art. 612 cod. proc.
civ.,  rispettivamente  dal  coniuge  separato  di  un  magistrato in
servizio  presso  il Tribunale di Gorizia (e, quindi, nell'ambito del
distretto  di  Trieste),  e  dallo stesso magistrato, per ottenere la
determinazione  delle  modalita'  di  esecuzione  di un provvedimento
assunto  dal Tribunale di Bologna, con ordinanza presidenziale emessa
in  sede  di  separazione  dei  coniugi,  con la quale il coniuge del
magistrato  era  stato  autorizzato  a  separare, a proprie spese, un
appartamento  all'interno  della villa costituente la casa coniugale,
sita  in  provincia  di  Gorizia,  per abitarvi dopo l'esecuzione dei
lavori.  Il  coniuge del magistrato, dopo avere intimato con precetto
"l'esecuzione  spontanea"  di  tale disposizione, non avendo ottenuto
l'assenso  al  suo  ingresso  nell'immobile  per l'inizio dei lavori,
aveva  proposto ricorso ai sensi del citato art. 612 cod. proc. civ.;
dal  suo canto, il magistrato aveva richiesto la determinazione delle
modalita'  del  prelievo  forzoso delle "cose personali", dal coniuge
non  rimosse  spontaneamente  in  ottemperanza  al  precetto all'uopo
intimatogli.
    All'udienza  fissata  per  la  trattazione  dei  due  ricorsi, il
rimettente,  riuniti  i procedimenti, prendeva atto che, come era del
resto  pacifico  fra  le  parti, una di esse era - sia all'atto della
proposizione  del  ricorso,  sia  in  quel  momento  -  magistrato in
servizio presso il Tribunale di Gorizia.
    1.2. - Il  rimettente  rileva che il legislatore, nell'introdurre
l'art. 30-bis  cod.  proc. civ., si riferisce alle "cause in cui sono
comunque  parti  magistrati"  ed  usa  una  formulazione che induce a
ritenere  che anche il foro dell'esecuzione forzata sia soggetto alla
regola di competenza di cui alla citata norma.
    1.3. - Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il
rimettente  osserva  che questa Corte ha ritenuto compatibile con gli
artt. 3  e  25  Cost., la scelta di spostare il foro territoriale nel
processo  penale  fuori  del  contesto  operativo  in cui esercita le
funzioni il magistrato imputato o parte offesa (trattandosi di scelta
funzionale  alla  garanzia  del  prestigio  e dell'indipendenza della
magistratura  e  motivata  dal rischio di una qualche influenza sulla
genuinita'   dell'accertamento  dei  fatti,  che  potrebbe  scaturire
dall'appartenenza  del  singolo all'ufficio), mentre "non incoerente"
e'  stata  considerata  "l'omessa  previsione  di  una regola omologa
altresi'  per  il  processo civile", per l'esistenza di differenze di
fondo fra i due tipi di processo.
    Ricorda  poi che, con la sentenza n. 51 del 1998, questa Corte ha
escluso  la  necessita'  sul  piano  costituzionale  di un'automatica
estensione  del  foro  dell'art. 11 del codice di procedura penale al
processo civile e, nel contempo, ha rilevato che solo il legislatore,
nell'esercizio  della  sua discrezionalita', puo' stabilire per quali
controversie   quell'estensione   sia   possibile  senza  sacrificare
interessi e valori costituzionalmente rilevanti.
    In  particolare rileva che con la sentenza citata questa Corte ha
affermato:  a)  che  la pluralita' dei fori sussistente in genere nel
processo   civile   rinvia   ad   una  "molteplicita'  di  interessi,
riguardanti   persone   e   cose,   che   vengono  in  considerazione
relativamente  alle  varie  liti",  e  l'esigenza  di imparzialita' e
terzieta'  del  giudice  si  esprime secondo modalita' attuative "non
necessariamente  identiche a quelle previste per il processo penale",
tenuto  conto  che  nel  processo  civile  la  stessa "formazione del
convincimento  del  giudice"  appare  orientata  da un apprezzabile e
determinante  "impulso paritario delle parti"; b) che, di regola, nel
processo  civile, le esigenze di non condizionamento del giudice sono
assolte  con  gli  istituti  dell'astensione  e  della ricusazione ex
artt. 51  e  52  cod.  proc.  civ.,  e  che il legislatore, quando ha
ritenuto  necessario  il  concorso  di  altre cautele, ha fissato una
deroga  alla  competenza  con  apposita  legge, come per i giudizi di
responsabilita'    connessa    ai   danni   recati   dal   magistrato
nell'esercizio  delle  sue  funzioni  ai  sensi della legge 13 aprile
1988,  n. 117  (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle
funzioni giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati).
    1.4. - La  norma  censurata, viceversa, non permetterebbe, in via
interpretativa,  di  rinvenire singole partizioni del processo civile
nelle  quali  l'esigenza  di  radicare  il  processo  presso  il foro
naturale codicistico sia prevalente rispetto a quella fissata, in via
generale,   dall'art. 30-bis   ed   a   sua   volta  annulla,  in  un
indistinguibile  coacervo  richiamante  tutti  i  processi civili, di
cognizione  ordinaria  e  di  esecuzione  forzata,  le  differenze di
necessario  trattamento  gia'  cospicuamente rilevate da questa Corte
costituzionale nel 1998.
    Correttamente,  dunque,  i  procedimenti a quibus sarebbero stati
radicati  a Bologna. Ne' potrebbe ritenersi che il debitore esecutato
non  sia  "parte",  riservandosi  tale qualificazione solo ai giudizi
incidentali   di   cognizione   sull'esecuzione   forzata,   come  le
opposizioni esecutive e le controversie ex art. 512 cod. proc. civ. o
di  divisione  ex artt. 599-601 cod. proc. civ. Infatti, se pure puo'
convenirsi   sulla   attenuazione   dello   statuto   della   "parte"
nell'esecuzione  forzata,  tale  concetto  e' comunque evocato da una
serie  di  norme,  come  l'art. 485, l'art. 495, gli artt. 530 e 569,
l'art. 548  e lo stesso art. 612 cod. proc. civ., onde l'art. 30-bis,
quando  si  riferisce  alle  cause in cui e' parte un magistrato, non
puo' non considerare anche il processo esecutivo.
    1.5. - L'art. 3   e  l'art. 24  Cost.  sarebbero  rispettivamente
violati  per  la disparita' di trattamento e per l'aggravamento delle
condizioni   di   esercizio   del   diritto  di  difesa  cui  sarebbe
assoggettato  il  creditore  del  facere  o  non  facere che promuove
l'esecuzione    forzata,    in   quanto   "distanziandosi   l'oggetto
dell'attivita'  giurisdizionale  da un vero e proprio accertamento in
sede  contenziosa  delle pretese obbligazioni civili (e non derivanti
da    attivita'    professionale)   verso   il   magistrato   o   del
magistrato-creditore   verso  un  comune  debitore,  l'espropriazione
forzata  e'  processo  che,  per  definizione,  presuppone  il titolo
esecutivo e, con esso, puo' prescindere, pur senza divenire attivita'
amministrativa,  dal  rito  ordinario  o speciale che contrapponga un
terzo  al magistrato (e viceversa) nella contestazione in ordine alla
affermazione  del  diritto  di credito". D'altro canto, "la relazione
processuale  fra  le  "parti del processo esecutivo" non risulterebbe
"di  regola  (ed in particolare nel caso de quo) in alcun modo incisa
dalla  qualita'  di  magistrato  della  obbligata,  chiamata a subire
l'eventuale  dictum  del  g.e.  in  ragione  dell'inadempimento di un
obbligo  fungibile comune, in cui cioe' e' assente qualunque riflesso
della   predetta  condizione  professionale"  come  sarebbe  evidente
allorche'  si tratti di prestazioni a contenuto patrimoniale inerenti
allo status di coniuge separato.
    Sulla premessa che il modo di svolgimento dell'esecuzione forzata
-  attraverso  i poteri ablatori del giudice dell'esecuzione sui beni
dell'esecutato,  i  poteri  di  intervento  coattivo  nei  luoghi del
debitore  e  la  finalizzazione satisfattiva degli atti - comporta il
rispetto  "di  norme  che,  nel  modo  piu'  celere possibile, dunque
davanti al giudice naturale precostituito per legge ex art. 25 Cost.,
consentano  al creditore il soddisfacimento della propria pretesa" il
rimettente  sostiene  che  "da  questo punto di vista" l'applicazione
della  norma  censurata  all'esecuzione  forzata "altererebbe in modo
rilevante il corretto e tempestivo incardinamento del processo".
    1.6. - In  base  a  tali argomentazioni, il rimettente assume che
l'applicazione  dell'art. 30-bis  e  lo  spostamento della competenza
comporterebbe  "un  aggravio della condizioni difensive del creditore
ed  un  costo  ulteriore,  quantomeno da un punto di vista temporale,
circa   il  realizzo  del  credito  stesso  (volendo,  evidentemente,
alludere  al  creditore non magistrato) con violazione degli artt. 3,
24 e 25 Cost.".
    Con  riferimento all'esecuzione degli obblighi di fare e non fare
questo  rilievo  apparirebbe  ancora  piu'  evidente,  in  quanto  il
distanziamento del giudice dell'esecuzione dal luogo in cui l'obbligo
andrebbe  attuato,  "per  migrare  al luogo legislativamente distante
dall'area  geografica  di  operativita'  del  magistrato"  coinvolto,
comporterebbe  che  non  si possa assicurare celerita' ed economia al
processo  esecutivo,  in  quanto  governato  da  un  giudice di altro
distretto  rispetto  al luogo di attuazione del titolo esecutivo, con
conseguente lesione anche dell'art. 111 della Costituzione.
    La   lesione   degli   indicati   parametri   costituzionali   si
verificherebbe  anche  a  carico  del  debitore  magistrato, trattato
irrazionalmente  in  modo  deteriore  rispetto  al  debitore  comune,
potendo  partecipare  al  processo  ed  esercitare le sue difese solo
spostandosi  in altro distretto, in un luogo diverso da quello in cui
si  trovano i beni aggrediti o deve essere attuato l'obbligo inevaso,
nonche'  a  carico  del  creditore  magistrato,  l'esercizio  del cui
diritto di credito subirebbe una compressione del tutto speculare.
    Inoltre,  l'applicazione  dell'art. 30-bis comporterebbe anche un
cattivo funzionamento dell'amministrazione della giustizia, rilevante
ex  art. 97  Cost.,  tenuto  conto  che  il  giudice  dell'esecuzione
dovrebbe  svolgere  la  sua funzione in un sito distante da quello al
quale sarebbe di norma ancorata la competenza, secondo scelte che, in
ragione  delle  varie  specie  di  esecuzione,  sono  individuate con
riguardo  all'attivita'  materiale  con  la  quale  dovra'  svolgersi
l'esecuzione   (lex  rei  sitae  per  l'espropriazione  mobiliare  ed
immobiliare,  luogo  di  residenza  del debitore per l'espropriazione
presso  terzi). Nel caso dell'esecuzione ex art. 612 cod. proc. civ.,
l'incaricato   del   giudice   dell'esecuzione,   cioe'   l'ufficiale
giudiziario,  dovrebbe  recarsi a Gorizia per sovrintendere ai lavori
di  cui  trattasi  oppure per curare l'asporto di taluni beni mobili,
mentre  le  persone  nominabili  dal  giudice  dell'esecuzione  quali
ausiliari   dell'ufficiale  giudiziario  (tecnici,  periti,  imprese,
depositari)  dovrebbero  essere  coordinati  da Bologna per attivita'
materiali da compiersi nel distretto triestino.
    Inoltre,  le difficolta' cui fa riferimento l'art. 612 cod. proc.
civ.,  spesso esigono, per essere risolte, sopralluoghi dei tecnici o
dello stesso giudice dell'esecuzione.
    Tutto cio' evidenzierebbe la lesione dell'art. 97 e dell'art. 111
Cost.,  collidendo  con  l'efficace e sollecita attuazione del titolo
esecutivo  e  la  ragionevole durata del processo, ora recepita anche
dalla  legge n. 89 del 2001, in ossequio all'art. 6 della Convenzione
europea  dei  diritti  dell'uomo,  e  dell'art. 101 Cost., dovendo il
principio   di   unitarieta'   della  giurisdizione  assicurare  pari
condizioni   per   la   tutela  del  credito,  "senza  ingiustificati
allontanamenti  dal  foro  previsto  in  via  generale per una pronta
soddisfazione dello stesso in via di esecuzione forzata".
    Infine,  il  rimettente  osserva che l'esigenza di evitare che il
magistrato  sia parte in un processo affidato al "collega della porta
accanto",  per  come  e'  stata  attuata  rivelerebbe  una  manifesta
illogicita', sotto il profilo che il foro di cui alla norma censurata
comporta  lo  spostamento in un altro distretto di corte in ogni caso
in  cui  il  magistrato eserciti le funzioni all'interno di esso, pur
geograficamente molto vasto. L'applicazione del foro dell'art. 30-bis
cod.  proc.  civ.  all'esecuzione forzata sarebbe irragionevole anche
per  "la  connotazione  essenzialmente  finalistica  e  meno  (ovvero
diversamente  e  solo  sommariamente) accertativa di essa rispetto al
comune  giudizio civile di cognizione" circostanza che sminuirebbe la
presunzione  di  attenuata  imparzialita'  dei  giudici  del medesimo
distretto.
    Quanto  alla  rilevanza  della questione, il rimettente assume di
non   poter   proseguire   nelle   attivita'   di   giudice  preposto
all'esecuzione senza la sua risoluzione.
    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,   tramite   l'Avvocatura   generale  dello  Stato,  che  ha
depositato memoria, nella quale ha sostenuto che la questione sarebbe
inammissibile e comunque infondata.
    Dai  parametri  evocati  dal  rimettente  non  sarebbe  possibile
inferire  l'esistenza  di un vincolo per il legislatore a limitare la
portata  della  disposizione  censurata nel senso voluto dallo stesso
rimettente.  In  particolare,  in ordine all'art. 25 Cost., si rileva
che  la  sua  osservanza e' garantita allorche' la legge individui il
giudice  sulla  base di criteri generali fissati in anticipo e non in
vista  di  singoli  procedimenti,  mentre  l'art. 97  Cost.,  sarebbe
totalmente estraneo alla funzione giurisdizionale.
    La  violazione  dell'art. 3  Cost.  non  sarebbe  sussistente, in
quanto  il  rimettente  non  avrebbe  tenuto  conto della particolare
posizione  dei magistrati e del rilievo costituzionale della garanzia
della   trasparenza  della  funzione  giurisdizionale.  La  questione
atterrebbe   a   scelte   discrezionali   del   legislatore   e   non
all'attuazione di direttive costituzionali.
    La  scelta  in concreto esercitata - cioe' quella di privilegiare
su  di  ogni  altra  "l'esigenza di garantire in misura rafforzata il
prestigio, la credibilita' e l'indipendenza dell'ordine giudiziario e
la  massima  trasparenza  della  funzione  giudiziaria" - non sarebbe
palesemente   irragionevole   ed   arbitraria  pur  con  riguardo  ai
procedimenti  di  esecuzione  degli  obblighi  di fare o di non fare,
tenuto  conto  che  in  essi  il giudice e' chiamato a determinare le
modalita'  di  esecuzione  di  obblighi  che possono presentare (come
sarebbe  nella  specie)  aspetti  di grande delicatezza sul piano dei
rapporti   personali   e   ad  emanare  disposizioni  sulla  base  di
apprezzamenti   assolutamente   discrezionali.   Non   verrebbero  in
considerazione,   pertanto,   interessi  salvaguardati  dalla  regola
ordinaria che potrebbero apparire ingiustamente sacrificati di fronte
ai valori di neutralita-imparzialita' del giudice.

                       Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale di Bologna propone la questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 30-bis  del  codice  di  procedura  civile,
introdotto   dall'art. 9   della   legge   2 dicembre   1998,  n. 420
(Disposizioni  per  i procedimenti riguardanti i magistrati), secondo
cui, per le cause in cui sia comunque parte un magistrato in servizio
nel  distretto  di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario
competente ai sensi del capo I del titolo I del libro I del codice di
procedura  civile,  la  competenza  territoriale  spetta  all'ufficio
giudiziario,  ugualmente  competente  per  materia,  avente  sede nel
capoluogo  di  altro distretto, individuato ai sensi dell'art. 11 del
codice  di  procedura  penale. La norma e' impugnata - in riferimento
agli  artt. 3, 24, 25, 97, 101 e 111 della Costituzione - nella parte
in  cui  assoggetta  l'esecuzione  forzata  promossa  da  o contro un
magistrato  a  tale  regola  di  competenza  e  non  a  quella di cui
all'art. 26 del codice di procedura civile.
    Secondo il giudice rimettente, la deroga alla disciplina generale
sul  foro  dell'esecuzione  forzata  si  porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 3  della Costituzione, sotto il profilo dell'irragionevolezza,
essendo  la qualita' di magistrato di una delle parti ininfluente nel
processo   di  esecuzione,  nel  quale  la  preesistenza  del  titolo
esecutivo   rende   marginale   l'aspetto   contenzioso,   che  nella
giurisdizione  cognitiva  contrappone  la  parte magistrato all'altra
parte;  ed  essendo  inoltre  illogico l'automatico spostamento della
competenza  in  altro  distretto,  indipendentemente dalle dimensioni
territoriali di quello competente secondo la regola generale.
    L'art. 3   della   Costituzione  sarebbe  violato  anche  per  la
disparita'  di trattamento subita dal magistrato che intenda agire in
via  esecutiva contro il proprio debitore, rispetto a tutti gli altri
creditori.
    La  norma  impugnata violerebbe poi l'art. 24 della Costituzione,
per  le  maggiori difficolta' dell'esercizio del diritto di azione (e
di  difesa)  derivanti  dalla  necessita'  per  le parti del processo
esecutivo,  promosso  o  subito  da  un  magistrato, di rivolgersi al
giudice  di  altro  distretto,  in  un luogo diverso da quello ove si
trovano  i  beni  da  espropriare  o  deve  essere  attuato l'obbligo
inevaso.
    L'allontanamento  del  foro  dell'esecuzione  da  quello  di  cui
all'art. 26 cod. proc. civ., violerebbe infine i principi del giudice
naturale,  del buon andamento dell'amministrazione, dell'unita' della
giurisdizione  e  della  durata ragionevole del processo, di cui agli
artt. 25, 97, 101 e 111 della Costituzione.
    2. - La  questione  e'  fondata,  sotto  il profilo del contrasto
della norma impugnata con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
    3. - L'art. 30-bis  cod.  proc.  civ.  e'  stato introdotto dalla
legge n. 420 del 1998 nella prospettiva dell'attuazione del principio
di  imparzialita-terzieta'  della  giurisdizione, che ha pieno valore
costituzionale  in  relazione a qualunque tipo di processo, pur nella
diversita'  di  disciplina connessa alle peculiarita' di ciascun tipo
(cfr., da ultimo, sentenze n. 305 e 78 del 2002).
    Prima   di   tale   legge,   la  competenza  territoriale  per  i
procedimenti riguardanti magistrati era soggetta ad un regime diverso
da  quello  ordinario  solo  in  materia penale. L'art. 11 cod. proc.
pen.,  infatti  -  nei  casi in cui imputato o parte offesa dal reato
fosse  un  magistrato esercitante le proprie funzioni nel distretto -
prevedeva  lo  spostamento  della  competenza  territoriale  in altro
distretto, secondo criteri predeterminati.
    Il  problema  della  conformita'  a  costituzione  della  mancata
estensione di tale disciplina ai processi civili ha dato luogo ad una
questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli
articoli  da 18 a 35 cod. proc. civ., nella parte relativa all'omessa
previsione  di una competenza per territorio derogatoria, come quella
introdotta dall'art. 11 del codice di procedura penale.
    Questa Corte (sentenza n. 51 del 1998) ha dichiarato la questione
inammissibile,   perche'  la  richiesta  pronunzia  additiva  avrebbe
comportato   una   scelta   fra  piu'  soluzioni  possibili,  rimessa
esclusivamente al legislatore.
    La  sentenza  ha  ribadito  che  il  principio  costituzionale di
imparzialita-terzieta'   della   giurisdizione  -  con  la  correlata
esigenza  di  assicurare  che  il giudice sia del tutto estraneo agli
interessi  in  gioco  -  informa  qualunque  tipo  di processo; ma ha
tuttavia  affermato  che  le  scelte  legislative  in  materia devono
tendere,  in  considerazione  della  netta  distinzione  fra processo
civile  e  processo  penale, ad un bilanciamento di interessi secondo
linee  direttive  non  necessariamente  identiche  per  i due tipi di
processo,  nei quali del resto la competenza territoriale e' soggetta
a regole e criteri diversi.
    Percio',  secondo  la  sentenza,  spetta al legislatore stabilire
quando  in  materia  civile  ricorra  un'identita'  di  ratio tale da
imporre  l'estensione pura e semplice del criterio di cui all'art. 11
cod.  proc.  pen., e  quando,  invece,  questa identita' di ratio non
ricorra  affatto  o  sia  realizzabile  con  la previsione di un foro
derogatorio  appropriato,  cosi'  da  evitare  il sacrificio di altri
interessi  o  valori costituzionalmente rilevanti, come il diritto di
agire e di difendersi in giudizio.
    Il  legislatore  deve  quindi procedere (secondo ragionevolezza e
nel  rispetto  dei  principi  costituzionali)  ad  una valutazione di
bilanciamento fra l'interesse alla imparzialita-terzieta' del giudice
civile   e   quello   alla  pienezza  ed  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale,  con  riguardo  non  al processo civile in genere ma
alle sue singole tipologie.
    4. - Successivamente e' intervenuta la legge n. 420 del 1998, che
ha   disciplinato  la  competenza  territoriale  per  i  procedimenti
riguardanti   i  magistrati,  sia  in  materia  penale  (tra  l'altro
modificando nell'art. 11 cod. proc. pen., i criteri di individuazione
della  gia'  prevista  competenza derogatoria), sia in materia civile
(introducendo l'impugnato art. 30-bis cod. proc. civ.).
    Questo  intervento  si  colloca,  in linea di massima, nel quadro
delineato dalla sentenza, poiche' il principio secondo cui il giudice
deve  essere  imparziale  -  strettamente  correlato  alla  posizione
costituzionale   della   magistratura  (artt. 101  e  seguenti  della
Costituzione)  e  quindi  valido  anche  per  il processo civile - e'
potenzialmente  posto  in  crisi  ogni  volta che di una controversia
civile  sia  parte  un  magistrato  in  servizio nello stesso ufficio
giudiziario  competente a deciderla, o in un ufficio territorialmente
non lontano.
    Al  riguardo  il legislatore, esercitando la discrezionalita' che
gli    compete,    ha    ritenuto    che   l'esigenza   di   tutelare
l'imparzialita-terzieta'  del  giudice civile viene in considerazione
in  tutte  le  "cause"  di  cui  sia  comunque parte un magistrato in
servizio  nel  distretto  di  corte  d'appello comprendente l'ufficio
giudiziario competente secondo le regole ordinarie.
    E   per   tali   casi  ha  previsto  la  competenza  territoriale
dell'ufficio  giudiziario,  ugualmente competente per materia, avente
sede   nel   capoluogo  di  altro  distretto,  individuato  ai  sensi
dell'art. 11 del codice di procedura penale.
    La  norma impugnata, avendo carattere generale e non distinguendo
in  base  al  tipo di funzione esercitata, si applica (secondo la non
implausibile  interpretazione  del  rimettente)  anche ai processi di
esecuzione,  in  deroga  al  foro  di  cui  all'art. 26 del codice di
procedura civile.
    Senonche' - trattando il processo esecutivo alla stregua di tutti
gli  altri  -  il  legislatore del 1998 si e' discostato dai principi
richiamati dalla sentenza citata.
    5. - Il processo esecutivo si caratterizza rispetto ad altri tipi
di  processo civile in quanto in esso il soggetto procedente si trova
istituzionalmente   in  una  posizione  di  vantaggio  rispetto  alla
soggezione  in  cui  versa  chi  e'  sottoposto all'azione. Si tratta
infatti  di  un processo totalmente funzionale all'attuazione forzata
del   diritto  consacrato  nel  titolo  esecutivo,  in  cui  tutti  i
provvedimenti  del  giudice  dell'esecuzione  (e tutti gli atti delle
parti  e  dei  soggetti operanti sotto il suo controllo) tendono alla
realizzazione  coattiva di quanto - vincolativamente per quel giudice
e'  statuito  nel  titolo.  Ed  e'  in  evidente  correlazione a tali
caratteristiche  che  l'art. 26 cod. proc. civ., radica la competenza
territoriale  in  tema  di  esecuzione  forzata  nel  luogo in cui la
pretesa  del  creditore  procedente  puo' in concreto essere attuata,
ossia nel luogo ove si trova il bene (o risiede il terzo debitore) da
espropriare  o  deve  avvenire  il  rilascio  o  la consegna o essere
adempiuto l'obbligo di fare o di non fare.
    6. - La norma impugnata - regolando l'esecuzione forzata promossa
da  o contro un magistrato in servizio nel distretto allo stesso modo
di  tutti  gli altri procedimenti civili in cui sia comunque parte un
magistrato  in quella situazione - non attribuisce alcun rilievo alla
specifica  posizione  del  giudice  nel processo esecutivo e si muove
quindi  in una prospettiva diversa da quella delineata dalla sentenza
n. 51 del 1998.
    La norma infatti irragionevolmente svaluta in una indifferenziata
disciplina   uniforme   i   connotati  tipici  di  quel  processo,  e
conseguentemente  intacca  in misura rilevante il peculiare contenuto
che  in  esso assume il diritto di agire e di difendersi in giudizio,
tanto  del  creditore  che del debitore, tanto della parte magistrato
che delle altre parti.
    7. - Invero, la norma recide di netto la relazione di prossimita'
cui  coerentemente  si  ispirano le regole di competenza territoriale
poste dall'art. 26 cod. proc. civ., e cosi' allontana il luogo ove ha
sede  il  giudice  dell'esecuzione (individuato ai sensi dell'art. 11
cod.  proc.  pen.,  e rilevante, tra l'altro, per la dichiarazione di
residenza  o l'elezione di domicilio previste dall'art. 480, comma 3,
cod.  proc.  civ.)  da  quello  ove  la pretesa esecutiva deve essere
coattivamente realizzata.
    La  distanza  fra  i  due  luoghi  -  considerando  anche la loro
ubicazione  in due diversi distretti di corte di appello - rende piu'
difficili  e  gravosi  i rapporti fra le parti ed il giudice e fra il
giudice e l'ufficiale giudiziario preposto all'esecuzione, che invece
il codice di procedura suppone di facile e immediata attuazione, come
dimostrano,  ad esempio, gli artt. 610 e 613 cod. proc. civ., in tema
di provvedimenti urgenti adottati dal giudice, anche verbalmente, per
eliminare  le difficolta' che sorgano nel corso dell'esecuzione e non
ammettano dilazione.
    Inoltre,  in  tale  contesto,  l'allontanamento  della  sede  del
giudice  dal  luogo dell'esecuzione necessariamente comporta, per gli
evidenti  riflessi  sulle modalita' di esercizio delle facolta' delle
parti,  un  aumento  del  costo  del  processo,  che  incide  sia sul
creditore  tenuto  ad anticipare le spese, sia sul debitore sul quale
esse alla fine graveranno.
    8. - Ne   consegue   la  violazione  degli  artt. 3  e  24  della
Costituzione,  per  difetto  di  un  congruo  bilanciamento tra i due
interessi di rilievo costituzionale prima ricordati.
    La  norma  impugnata  - nella parte in cui si applica al processo
esecutivo  -  assume  come preminente un'esigenza (quella di tutelare
l'imparzialita-terzieta'    del   giudice   dell'esecuzione   civile)
concepita  in termini del tutto astratti e generali, non correlati ai
connotati tipici di quel processo, e trascura l'esigenza di garantire
piena  ed  effettiva  tutela giurisdizionale alle pretese azionate in
via esecutiva.
    Le altre censure restano assorbite.
    Deve  quindi  essere  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 30-bis  cod.  proc.  civ., nella parte in cui si applica ai
processi  di  esecuzione  forzata  promossi da o contro magistrati in
servizio  nel  distretto  di  corte  d'appello comprendente l'ufficio
giudiziario  competente ai sensi dell'art. 26 del codice di procedura
civile.