ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 500, commi 2 e
4,  del  codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il
30 novembre  e il 20 dicembre 2001 dal Tribunale di Brescia, iscritte
ai  nn. 114  e  170  del  registro  ordinanze 2002 e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica nn. 12 e 17, 1a serie speciale,
dell'anno 2002.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella camera di consiglio del 25 settembre 2002 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  con  due  ordinanze  di identico tenore, emesse il
30 novembre  2001  ed  il  20 dicembre  2001  nell'ambito di distinti
procedimenti  penali, il Tribunale di Brescia ha sollevato: a) in via
principale,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 500,
comma  2,  del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 2,
3,  24,  primo  comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della
Costituzione,  nella  parte  in  cui non prevede che le dichiarazioni
precedentemente rese dal testimone ed utilizzate per la contestazione
possano  essere acquisite al fascicolo del dibattimento ed utilizzate
dal  giudice  quale prova dei fatti; b) in via subordinata, questione
di  legittimita' costituzionale dell'art. 500, comma 4, del codice di
procedura  penale,  in  riferimento  agli artt. 3 e 111,quinto comma,
della   Costituzione,   nella   parte  in  cui  non  prevede  che  le
dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ed utilizzate per la
contestazione  possano essere acquisite al fascicolo del dibattimento
e  successivamente  utilizzate  dal  giudice  quale  prova dei fatti,
allorche'   si   ravvisino,   nella  deposizione  dibattimentale  del
testimone stesso, gli estremi del delitto di falsa testimonianza;
        che  il  giudice  a  quo premette, in punto di fatto, che, in
occasione  dell'esame dibattimentale di alcuni testimoni, il pubblico
ministero  aveva  proceduto alla contestazione delle dichiarazioni da
essi   rese   alla  polizia  giudiziaria  nel  corso  delle  indagini
preliminari  -  dichiarazioni  difformi,  in  modo  talora  radicale,
rispetto  alla  deposizione dibattimentale - chiedendo, quindi, che i
relativi verbali venissero acquisiti al fascicolo del dibattimento;
        che  tale  richiesta  dovrebbe essere allo stato respinta, in
quanto   l'art. 500,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  come  sostituito
dall'art. 16  della legge 1 marzo 2001, n. 63, consente al giudice di
valutare  le  dichiarazioni  utilizzate  per le contestazioni solo al
fine  di stabilire la credibilita' del teste; mentre il comma 4 dello
stesso  articolo permette di acquisirle al fascicolo del dibattimento
nei  soli  casi  - non riscontrabili nella specie - in cui sussistano
concreti  elementi  per  ritenere  che il teste sia stato subornato o
sottoposto  a violenza o minaccia, affinche' non deponga o deponga il
falso;
        che  ad avviso del rimettente, peraltro, l'art. 500, comma 2,
cod.  proc.  pen. si  porrebbe  in  contrasto con gli artt. 2, 3, 24,
primo  comma,  25,  secondo  comma,  e  101, secondo comma, Cost. (il
riferimento  ad  un inesistente quinto comma dell'art. 101 Cost., che
compare  nella parte finale della motivazione e nel dispositivo delle
ordinanze  di rimessione, e' da ritenere evidentemente frutto di mero
errore materiale);
        che,  infatti,  la valutazione della credibilita' del teste -
ai   cui   fini   la   norma  impugnata  consente  di  utilizzare  le
dichiarazioni  in  questione  -  presupporrebbe una ricostruzione dei
fatti   alla   stregua   dell'istruttoria   dibattimentale:   con  la
irragionevole  conseguenza  che  il  giudice  -  il  quale pure abbia
escluso  detta  credibilita',  essendosi convinto che i fatti si sono
svolti  in  modo  diverso  rispetto  a quanto riferito dal teste - si
troverebbe  poi costretto ad assumere determinazioni difformi dal suo
convincimento,   dovendo  "privilegiare",  in  termini  di  efficacia
probatoria, soltanto le dichiarazioni dibattimentali;
        che  affinche'  si  realizzino "i principi costituzionali dei
diritti   inviolabili,  tra  cui  quello  di  azione,  nonche'  della
giurisdizione  penale  e  della legalita'", dovrebbe essere di contro
consentito  al  giudice  utilizzare  in modo pieno tutti gli elementi
legittimamente  emersi nel corso del dibattimento - comprese, dunque,
le  dichiarazioni  utilizzate  per le contestazioni - poiche' solo in
tal modo il processo penale potrebbe conseguire il suo "fine primario
ed ineludibile", costituito dalla ricerca della verita';
        che,  in  via  subordinata,  il  giudice  a  quo  sottopone a
scrutinio   di   costituzionalita'   la   disposizione  del  comma  4
dell'art. 500,  cod.  proc.  pen.,  nella  parte  in cui impedisce al
giudice  di  acquisire  ed  utilizzare  a fini di prova le precedenti
dichiarazioni anche quando ravvisi, nella deposizione dibattimentale,
gli estremi del delitto di falsa testimonianza;
        che  la  disparita'  di  trattamento  dell'ipotesi  in parola
rispetto  a quella del teste subornato ovvero sottoposto a violenza o
minaccia   -   presa   in  considerazione  dalla  norma  impugnata  -
risulterebbe   difatti   irragionevole,  essendosi  al  cospetto,  in
entrambi  i  casi,  di  una  testimonianza  non  veritiera  "maturata
nell'ambito di una condotta illecita";
        che,    in    tale   ottica,   la   disposizione   denunciata
contrasterebbe  anche con l'art. 111, quinto comma, Cost., il quale -
demandando  alla  legge di regolare i casi in cui la formazione della
prova  non  ha  luogo nel contraddittorio delle parti "per effetto di
provata condotta illecita" - avrebbe inteso unificare in una medesima
disciplina  tutte  le ipotesi di tal fatta: e cio' proprio al fine di
garantire  la  ricerca  della  verita', evitando che il giudice debba
assumere decisioni sulla base di elementi "inquinati";
        che in entrambi i giudizi di costituzionalita' e' intervenuto
il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che le
questioni siano dichiarate non fondate.
    Considerato   che   le  due  ordinanze  di  rimessione  sollevano
identiche questioni e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti
per essere definiti con un'unica decisione;
        che  la  questione  sollevata  in  via principale - attinente
all'esclusione,  nell'art. 500,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  della
possibilita'  di  utilizzare  come  prova  dei fatti le dichiarazioni
lette  per  la  contestazione  -  e'  gia' stata scrutinata da questa
Corte,  in  rapporto  a tutti i parametri costituzionali oggi evocati
(cfr. ordinanza n. 36 del 2002);
        che   questa   Corte   ha  sottolineato,  al  riguardo,  come
l'art. 111  Cost. abbia attribuito espresso risalto costituzionale al
principio   del   contraddittorio   anche   nella  prospettiva  della
impermeabilita'  del  processo,  quanto  alla formazione della prova,
rispetto  al  materiale  raccolto  in assenza della dialettica tra le
parti;
        che  la disposizione impugnata si presenta del tutto coerente
con  tale  prospettiva:  disponendo, in termini generali - e salve le
ipotesi  eccezionali di utilizzabilita' pleno iure, cui poco oltre si
accennera'  - che le dichiarazioni lette per la contestazione possono
essere  valutate  esclusivamente ai fini di stabilire la credibilita'
del  teste,  essa  mira  infatti  ad  impedire  che  l'istituto delle
contestazioni si atteggi a meccanismo illimitato ed incondizionato di
acquisizione   di   elementi   raccolti   nel  corso  delle  indagini
preliminari, prima e fuori del contraddittorio;
        che,   costituendo  applicazione  dell'accennata  indicazione
costituzionale,  la disposizione censurata non contrasta, dunque, ne'
con  il  canone della ragionevolezza; ne' con il principio del libero
convincimento del giudice, il quale non puo' che riferirsi alle prove
legittimamente  formate  ed acquisite; ne', infine, con il diritto di
azione  -  pubblica  e  privata - il quale non puo' risultare leso da
disposizioni  in  tema  di  formazione della prova che si configurano
come  frutto  di  una  scelta  sistematica,  coerente  con i principi
costituzionali;
        che tali considerazioni assorbono anche gli ulteriori profili
di illegittimita' costituzionale adombrati dal rimettente, tramite il
riferimento   -  peraltro  del  tutto  generico  -  ad  una  supposta
violazione   "dei   diritti   inviolabili",   dei   principi   "della
giurisdizione penale e della legalita'";
        che, quanto alla questione subordinata - concernente il comma
4  dell'art. 500  cod.  proc.  pen.,  nella  parte in cui consente di
utilizzare in modo pieno le dichiarazioni in parola soltanto nei casi
di subornazione ovvero di violenza o minaccia esercitate sul teste, e
non anche quando la sua deposizione dibattimentale appaia (al giudice
che  procede)  integrativa del reato di falsa testimonianza - occorre
osservare  come  la  norma  denunciata rappresenti diretta attuazione
dell'art. 111,  quinto comma, Cost., il quale prefigura una deroga al
principio  della  formazione  della  prova  in  contraddittorio  "per
effetto  di  provata  condotta  illecita",  affidandone alla legge la
disciplina;
        che,  contrariamente a quanto adombrato dal giudice a quo, e'
senz'altro  da  escludere  che  la  formula  "condotta illecita", che
compare  nel  precetto costituzionale, si presti ad una lettura lata,
tale  da  abbracciare  - oltre alle condotte illecite poste in essere
"sul"  dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione)
-  anche  quelle  realizzate  "dal"  dichiarante  stesso in occasione
dell'esame   in   contraddittorio   (quale,   in   primis,  la  falsa
testimonianza, anche nella forma della reticenza);
        che  la  ratio  della deroga in parola - come si desume anche
dalla    circostanza   che   essa   e'   affiancata,   nel   precetto
costituzionale,   a  quelle  legate  al  "consenso  dell'imputato"  e
all'"accertata  impossibilita'  di  natura oggettiva" - sta, difatti,
essenzialmente  nell'impedimento  che  la  "condotta  illecita"  reca
all'esplicazione   del   contraddittorio,   inteso   come  metodo  di
formazione  della  prova:  la  Carta  costituzionale consente, cioe',
eccezionalmente  che  la  prova  si  formi  fuori del contraddittorio
(oltre  che  nel  caso  di  rinuncia dell'imputato ad esso) quando il
contraddittorio  risulti  oggettivamente  impossibile,  ovvero appaia
compromesso da illecite interferenze esterne;
        che,  per contro, l'autonoma scelta del soggetto esaminato di
dichiarare il falso in dibattimento (come pure di tacere) non incide,
di  per  se',  sulla  lineare  esplicazione del contraddittorio sulla
prova;
        che  tale  conclusione  trova conferma - oltre che nei lavori
preparatori  alla  legge  costituzionale  23 novembre 1999, n. 2, dai
quali  emerge  come  il Costituente, con la formula "provata condotta
illecita",  intendesse in effetti riferirsi essenzialmente ai casi di
intimidazione  e  subornazione del dichiarante - anche nel necessario
coordinamento  fra la previsione del quinto comma dell'art. 111 Cost.
e  la  regola,  sancita  appena  prima  dal quarto comma dello stesso
articolo,  per  cui  "la  colpevolezza  dell'imputato non puo' essere
provata  sulla  base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,
si  e'  sempre  volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte
dell'imputato o del suo difensore";
        che,  infatti, mentre le condotte illecite poste in essere da
altri  "sul"  dichiarante  incidono  sulla  sua "liberta' di scelta",
invece  quelle  realizzate "dal" dichiarante sua sponte presuppongono
quest'ultima:  l'autonoma  decisione  del  teste di non rispondere in
dibattimento  (commettendo  cosi' il reato di falsa testimonianza per
reticenza)  e'  una  scelta  illecita,  ma  comunque  libera;  con la
conseguenza   che  solo  nel  primo  caso,  e  non  nel  secondo,  e'
ipotizzabile  -  non  operando  la  preclusione  dianzi  ricordata  -
l'acquisizione    al    materiale    probatorio    di   dichiarazioni
unilateralmente raccolte nel corso delle indagini preliminari;
        che  la  condotta  illecita  che  compromette  la liberta' di
autodeterminazione  della  fonte  dichiarativa  finisce,  dunque, per
rappresentare  -  sul  piano  soggettivo  -  l'ipotesi  complementare
rispetto   alla   "accertata  impossibilita'  di  natura  oggettiva",
parimenti  evocata dal Costituente fra le eccezionali - e tipizzate -
deroghe al contraddittorio;
        che  accedendo  alla  contraria  tesi del giudice rimettente,
d'altro  canto, il principio generale della formazione della prova in
contraddittorio  resterebbe,  riguardo  alla  prova  testimoniale, in
larga  misura  svuotato:  giacche'  in  ogni  caso  di divergenza tra
dichiarazioni  dibattimentali e dichiarazioni pregresse - ma anche di
reticenza,  non essendovi ragione, nella prospettiva contrastata, per
un diverso trattamento di tale ipotesi - si aprirebbe automaticamente
la   via,   tramite   la   prospettazione  dell'ipotesi  della  falsa
testimonianza,  al  possibile  "recupero"  come  prova  piena di atti
assunti fuori del contraddittorio;
        che  -  escluso dunque il contrasto della norma impugnata con
l'art. 111,   quinto   comma,   Cost.   -   risulta  altresi'  palese
l'insussistenza  della  dedotta  violazione dell'art. 3 Cost., stante
l'eterogeneita'  delle  situazioni poste a confronto: intimidazione o
subornazione   che  coarta  od  orienta  ab  externo  l'atteggiamento
dibattimentale  del testimone, da un lato; libera scelta del teste di
rendere  dichiarazioni  non  veritiere  o  di tacere in dibattimento,
dall'altro;
        che,   alla  luce  delle  considerazioni  che  precedono,  le
questioni  proposte debbono essere pertanto dichiarate manifestamente
infondate.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.