IL TRIBUNALE DI VERONA

    Il giudice, dott. Giorgio Piziali, premesso che in data 20 luglio
2002  a  questo ufficio e' pervenuto il fascicolo degli atti relativi
al  procedimento di rateizzazione e conversione della pena pecuniaria
aperto  presso  l'Ufficio di sorveglianza del Tribunale di Genova nei
confronti  di  Laconi Vincenzo; la trasmissione e' avvenuta a seguito
del   provvedimento   del   magistrato   di  sorveglianza  di  Genova
dell'11 luglio  2002,  con  il  quale,  investito  della richiesta di
conversione  della  pena  pecuniaria  inflitta  a Laconi Vincenzo, il
giudice ha cosi' disposto: "visti gli artt. 238, 302 d.lgs. 30 maggio
2002  n. 113,  dispone  la  trasmissione  degli  atti al Tribunale di
Verona in qualita' di giudice dell'esecuzione"

                            O s s e r v a

1. L'attuale quadro normativo.
    La determinazione del magistrato di sorveglianza di Genova appare
effettivamente  corretta  alla  luce delle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 113 del 30 maggio 2002, contestualmente trasfuse nel d.P.R.
30 maggio 2002 n. 115, atteso che gli artt. 237 e 238 del testo unico
da  ultimo  richiamato  senza  alcun  dubbio  individuano nel giudice
dell'esecuzione la competenza alla conversione delle pene pecuniarie:
il  primo  perche' stabilisce che il pubblico ministero deve attivare
"la  conversione  presso  il giudice dell'esecuzione competente" e il
secondo perche' espressamente prevede al comma 6 che "con l'ordinanza
che  dispone  la  conversione il giudice dell'esecuzione determina le
modalita'  delle  sanzioni  conseguenti  in  osservanza  delle  norme
vigenti".
    E'  evidente,  dunque,  che  alla luce del nuovo quadro normativo
competente  per  la  conversione delle pene pecuniarie sia il giudice
dell'esecuzione,  che  e'  individuabile  in  forza della definizione
generale di cui all'art. 665 c.p.p.
2. La  legittimita'  dell'innovazione introdotta dagli art. 237 e 238
rispetto alla disciplina previgente.
    Posto  cio'  deve  essere tenuto nella necessaria considerazione,
per   le   ragioni  che  si  esporranno  di  seguito,  che  in  forza
dell'art. 678   c.p.p.   la  conversione  delle  pene  pecuniarie  e'
espressamente indicata tra le materie di competenza del magistrato di
sorveglianza,  conformemente a quanto gia' prevedeva anche l'art. 107
della   legge   n. 689/1981   (norme,   per   inciso,   non  abrogate
espressamente  con  il  presente  intervento normativo, che invece ha
abrogato l'art. 660 c.p.p.).
    A  fronte  di  cio', diviene, quindi, necessario porsi il quesito
circa  la legittimita' dell'innovazione che gli artt. 237 e 238 hanno
introdotto, posto che il d.lgs. n. 113 del 30 maggio 2002 e il d.P.R.
n. 115  del  30 maggio  2002 sono testi che promanano dal Governo, il
quale possiede potesta' normativa di rango primario solo negli ambiti
limitati di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione.
    E  la necessita' che l'intervento innovativo della competenza sia
effettuato con un atto normativo di rango primario discende, in primo
luogo,  dal  fatto  che la materia era gia' regolata da una legge (la
n. 689/1981)  e da un atto avente forza di legge (gli artt. 660 e 678
c.p.p.) e poi anche dal fatto che l'art. 25 Cost. pone una riserva di
legge   ad   interventi   che  incidano  sulla  competenza,  qual  e'
sicuramente  anche l'attuale, il quale non solo modifica l'organo che
all'interno   del   medesimo   ufficio  deve  decidere  la  specifica
questione,  ma  incide  anche  sull'individuazione  dell'ufficio  che
territorialmente deve procedere, perche' in forza dell'art. 678 c.p.p
(e  dell'art.  107  della  legge  n. 689/1981)  la  competenza e' del
magistrato  di  sorveglianza  del  luogo  in cui ha la residenza o il
domicilio   l'interessato,   mentre   la   competenza   del   giudice
dell'esecuzione  e'  raccordata  all'originaria competenza sul reato,
che  non  ha come criterio principale quello del luogo di residenza o
di domicilio dell'interessato.
3. La  collocazione  del  d.P.R.  30 maggio  2002 n. 115 e del d.lgs.
30 maggio 2002 n. 113 nel sistema delle fonti.
    La  verifica della natura e della collocazione del d.PR 30 maggio
2002  n. 115  e  prima  di  questo  del d.lgs. 30 maggio  maggio 2002
n. 113  nel  sistema delle fonti e' assai complessa (a dispetto della
loro origine da leggi di "semplificazione").
    Per  cominciare,  infatti,  occorre  chiarire  la  ragione  della
triplicazione di fonti in cui si e' scomposto l'unitario procedimento
di  formazione  del t.u. n. 115/2002 e per fare cio' occorre risalire
alle origini normative da cui promana la produzione normativa che qui
si dovrebbe applicare.
    L'art. 7  della  legge  8  marzo  1999,  n. 50, nella sua stesura
originaria,  prevedeva  che  in alcune materie determinate (si vedra'
poi  in  che  modo  individuate)  il  Governo dovesse procedere ad un
riordino  "mediante l'emanazione di testi unici riguardanti materie e
settori  omogenei,  comprendenti,  in  un  unico  contesto  e  con le
opportune    evidenziazioni,    le    disposizioni    legislative   e
regolamentari"  e  allo scopo dettava una serie di criteri e principi
direttivi per guidare questa attivita' di semplificazione normativa.
    Con  l'art. 1  della  legge  24  novembre 2000 n. 340 l'art. 7 in
questione  e'  stato  mutato,  per  la  parte  che ora qui interessa,
attraverso  la previsione che ciascun testo unico dovesse comprendere
le   disposizioni  contenute  in  un  decreto  legislativo  e  in  un
regolamento   che   il   Governo  avrebbe  dovuto  emanare  ai  sensi
dell'articolo  14  e dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988,  n. 400,  attenendosi  ai  criteri e principi direttivi dettati
dallo stesso art. 7 legge n. 50/1999.
    In  forza  di  questa  modifica  il  legislatore ha dunque inteso
rendere  maggiormente evidente che l'intervento di riordino normativo
rimesso  all'esecutivo  non implicava una mera attivita' ricognitiva,
secondo  lo  schema  dei  t.u. cd compilativi, ma di una attivita' in
qualche  misura  innovativa  del  tessuto  normativo  preesistente: a
questo scopo, infatti, risponde la previsione che prima siano emanati
un  decreto  legislativo ai sensi dell'art. 14 della legge n. 400 del
1980 e un regolamento dell'articolo 17, comma 2, della stessa legge e
solo  dopo  che  i  due  testi  siano  raccolti  in un ulteriore t.u.
emanato,  in  forza  del comma 4 dell'art. 7 della legge 50 del 1999,
con  decreto  del Presidente della Repubblica. Il decreto legislativo
e',  infatti,  espressione dell'esercizio di una potesta' legislativa
delegata.
    Esattamente,   quindi,   il  fondamento  del  potere  legislativo
esercitato  deve  essere rinvenuto in una delega, come indicato nelle
stesse  premesse  al d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113 (riportate per vero
integralmente  anche nel d.P.R. n. 115/2002), che indica la fonte del
potere   normativo   esercitato   dal   Governo  nell'art.  76  della
Costituzione,  ed  esattamente  nella  delega  costituita dall'art. 7
della  legge  8  marzo  1999, n. 50, come modificato dall'articolo 1,
comma  6,  lettere d) ed e), come pure indicato nelle stesse premesse
al d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113.
    Per  vero,  pero', parrebbe doversi concludere che tale capacita'
di  innovazione  del  sistema  normativo  competa unicamente al testo
approvato  con  decreto  legislativo  e  non al testo unico che ne e'
seguito,   di   raccolta  delle  disposizioni  del  predetto  decreto
legislativo e del regolamento contestualmente adottato.
    Questa notazione e' indispensabile per porre un primo dato di una
qualche affidabilita', nel senso che il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115
e'  un  mero  testo  unico  di  natura  cd  "compilativa",  che cioe'
raccoglie  le  varie disposizioni che regolano la materia delle spese
di  giustizia  e  piu'  precisamente  raccoglie  le  norme del d.lgs.
30 maggio  2002 n. 113, testo unico delle disposizioni legislative in
materia  di  spese di giustizia e le norme di altro provvedimento, il
n. 114  adottato  con  d.P.R. emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2,
della  legge  n. 400  del  1988,  che contiene le norme regolamentari
relative alla medesima materia.
    Quel che ne consegue e' che il d.P.R 30 maggio 2002 n. 115, nella
parte   in   cui   contenesse   disposizioni   di  rango  legislativo
contrastanti  o  diverse  dalle  disposizioni  di  rango  legislativo
preesistenti    alla    propria   adozione   andrebbe   semplicemente
disapplicato, nel senso che la collocazione subordinata di quel testo
nel  sistema  delle  fonti  imporrebbe  in  ogni caso di applicare la
disposizione  di  legge  preesistenti ad esso, perche' non avrebbe la
forza necessaria ad abrogarle.
    Con   l'ovvia   accortezza   di  rilevare  che  per  disposizioni
preesistenti  si  deve  intendere  quelle  del  d.lgs. 30 maggio 2002
n. 113,  il quale, al contrario, non puo' essere considerato un testo
unico di natura meramente compilativa, essendo stato emanato in forza
di  una  legge  delega,  qual  e', per quel che si e' detto, la legge
n. 50 del 1999.
    Stando  cosi'  le  cose e', dunque, rispetto a quest'ultimo testo
che dovra' essere valutata la sua conformita' alla legge delega.
4. Verifica   circa  l'attribuzione  al  legislatore  delegato  della
competenza a modificaze le norme in materia di conversione delle pene
pecuniarie.
    A  questo  proposito  due  sono i profili rilevabili in relazione
alla  materia  qui in esame, consistente nell'attribuzione al giudice
dell'esecuzione della competenza a disporre la conversione delle pene
pecuniarie.
    In  primo  luogo  vi  e'  da  valutare  se  la  predetta  materia
rientrasse o meno nella delega.
    Anche a questo proposito la ricostruzione della disciplina non e'
del  tutto  semplice,  ma  pare  a  questo  giudice  debba portare ai
seguenti risultati.
    Di  nuovo il punto di riferimento e' il citato art. 7 della legge
n. 50/1999,  come  modificato  dall'art.  1  legge  n. 340/2000,  che
prevede  la  possibilita'  per il Governo di effettuare interventi di
riordino  tramite la procedura che si e' sopra descritta e culminanti
con l'adozione di testi unici in relazione "alle materie elencate:
        a)  nell'articolo  4, comma 4, e nell'articolo 20 della legge
15  marzo  1997,  n. 59, e successive modificazioni e nelle norme che
dispongono  la  delegificazione  della materia ai sensi dell'art. 17,
comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400;
        b) nelle leggi annuali di semplificazione;
        c) nell'allegato 3 della presente legge;
        d)   nell'articolo  16  delle  disposizioni  sulla  legge  in
generale,  in  riferimento  all'articolo  2,  comma  2,  del  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
        e)   nel   codice   civile,  in  riferimento  all'abrogazione
dell'articolo 17 del medesimo codice;
        f)  nel  codice  civile, in riferimento alla soppressione del
bollettino  ufficiale  delle  societa' per azioni e a responsabilita'
limitata  e  del  bollettino  ufficiale  delle  societa' cooperative,
disposta dall'articolo 29 della legge 7 agosto 1997, n. 266;
        f)-bis  da  ogni  altra disposizione che preveda la redazione
dei testi unici".
    Questa  modalita' di indicazione delle materie oggetto di delega,
con  rinvio  ad  una  pluralita'  di  fonti esterne alla legge delega
medesima,  lascia ampiamente dubbiosi di una conformita' al requisito
posto  dall'art. 76  Cost.,  che  vorrebbe  una delega conferita "per
oggetti definiti".
    Tanto  piu' quando si rinviene nel rinvio il richiamo a norme che
non contengono elenchi di materie, qual e' in particolare il richiamo
sub  a) a norme indicate "nell'articolo 20 della legge 15 marzo 1997,
n. 59".
    Disposizione  che,  infatti,  pur dopo gli interventi di modifica
apportati  dalla  legge n. 50/1999 e n. 340/2000, lungi dal contenere
un  elenco  di  materie,  fa  piu' genericamente riferimento a "norme
concernenti procedimenti amministrativi" che possono divenire oggetto
di  delegificazione  a  seguito di apposito provvedimento legislativo
che  deliberi tale delegificazione. Con la conseguenza che la lettera
a)  citata  dovra'  essere  intesa  come  un  generale  richiamo alla
possibilita'  di  adottare  testi unici nelle materie gia' oggetto di
delegificazione,   rispetto   alle  quali,  pero',  viene  meno  ogni
problematica relativa al rango nel sistema delle fonti.
    In relazione al testo normativo che ci occupa, tuttavia, la gamma
di  materie  rispetto alle quali il Governo ha ritenuto di esercitare
la  delega conferita nel modo ora ricostruito e' rinvenibile (secondo
quanto  indicato  nelle  stesse  premesse  al  d.lgs. 30 maggio 2002,
n. 113)  ai  numeri  9,  10,  11  e  12  dell'allegato  1  alla legge
n. 50/1999.
    Il   n. 9,   infatti,  indica  il  "Procedimento  di  gestione  e
alienazione  dei  beni  sequestrati  e  confiscati",  seppure facendo
riferimento  per  definirne  il contenuto ai seguenti testi normativi
"norme  approvate  con  decreto  legislativo  28 luglio 1989, n. 271;
decreto  del  Ministro  di  grazia  e  giustizia,  30 settembre 1989,
n. 334;  regolamento  approvato  con  regio  decreto 9 febbraio 1896,
n. 25".
    Il   n. 10   indica  il  "Procedimento  relativo  alle  spese  di
giustizia"; seppure facendo riferimento per definirne il contenuto ai
seguenti  testi  normativi  "regio decreto 23 dicembre 1865, n. 2701;
regio decreto 23 dicembre 1865, n. 2700".
    Il  n. 11  indica  i  "Procedimenti per l'iscrizione a ruolo e il
rilascio   di   copie   di  atti  in  materia  tributata  e  in  sede
giurisdizionale,  compresi i procedimenti in camera di consiglio, gli
affari   non   contenziosi   e   le  esecuzioni  civili  mobiliari  e
immobiliari",  richiamando  i  seguenti  testi  "legge 8 agosto 1895,
n. 556; regio decreto 9 febbraio 1896, n. 25; legge 21 febbraio 1989,
n. 99;  testo  unico  approvato  con regio decreto 20 settembre 1934,
n. 2011;  legge  3 aprile 1979, n. 103; legge 11 maggio 1971, n. 390;
decreto  del  Presidente  della Repubblica 18 dicembre 1972, n. 1095;
decreto  del  Presidente  della  Repubblica  26 ottobre 1972, n. 642;
legge 25 aprile 1957, n. 283; legge 29 dicembre 1990, n. 405; decreto
del    Presidente   della   Repubblica   26 ottobre   1972,   n. 641;
decreto-legge    19    dicembre   1984,   n. 853,   convertito,   con
modificazioni,  dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17; decreto-legge 30
maggio  1988,  n. 173,  convertito, con modificazioni, dalla legge 26
luglio 1988, n. 291".
    Il  n. 12  indica  il  "Procedimento  per  la determinazione e la
liquidazione  dei  compensi  spettanti  ad  ausiliari  del  giudice",
richiamando la "legge 8 luglio 1980, n. 319, articolo 11".
    A parte l'anomalia per cui nelle premesse al d.lgs. n. 113/2002 e
al d.P.R. n. 115/2002 (e nella relazione) risultano richiamati solo i
numeri. 9, 10 e 11 dell'allegato 1 alla legge n. 50/1999, quel che e'
fonte  di  maggiori  incertezze  e'  il  fatto  che  in nessuna delle
disposizioni  sopra  indicate si rinvengono tra le materie oggetto di
delega  al Governo ad esempio la materia del patrocinio a spese dello
Stato,   pure   disciplinata   nel   t.u.   (con   innovazioni  anche
significative)  e  soprattutto,  per  quel che qui rileva, la materia
delle  pene pecuniarie e della loro conversione in caso di insolvenza
del condannato.
    Non  aiuta  a  risolvere  questo  dilemma  neppure  la  relazione
ministeriale,  che  nel  capitolo  dedicato a "fondamento giuridico e
natura  del  testo  unico"  fa riferimento solo al conferimento della
delega per l'emanazione di testi unici nelle materie di cui ai numeri
9-10-11 dell'allegato 1 alla legge n. 50/1999.
    La  stessa  relazione,  peraltro, offre un indizio chiarificatore
nella  parte  in  cui  trattando  dell'"oggetto  del  testo unico" lo
definisce  nei  termini  seguenti: "Il testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia riunisce
e coordina le norme sulle spese del procedimento giurisdizionale.
    Oggetto  del  testo  unico  sono  le norme relative alle spese in
tutte  le  fasi che rilevano rispetto al processo. Sono disciplinate:
tutte  le  voci  di  spesa;  le  procedure  per il pagamento da parte
dell'erario   e   dei   privati;   l'annotazione   nei  registri;  la
riscossione.
    Il  testo  unico  riunisce  e  coordina anche le norme in tema di
patrocinio  a  spese  dello  Stato, che si sostanziano in una diversa
disciplina delle spese del procedimento.
    Infine,  il  testo unico disciplina la riscossione delle spese di
mantenimento  in  istituto,  delle  pene  pecuniarie,  delle sanzioni
amministrative  pecuniarie  e  delle sanzioni pecuniarie processuali,
che e' comune a quella delle spese processuali".
    Da  questo passaggio se ne dovrebbe concludere che per la materia
delle  pene  pecuniarie l'attuazione nel testo unico sarebbe derivata
dal  fatto  di  costituire  materia  "comune  a  quella  delle  spese
processuali"  (mentre  per  il  patrocinio  a  spese  dello Stato, di
sostanziarsi   "in   una   diversa   disciplina   delle   spese   del
procedimento").
    Ora,  per  cominciare, sembra gia' difforme rispetto al contenuto
della  legge delega ritenere che la materia oggetto di devoluzione al
potere  esecutivo  fosse  da individuare sulla base della titolazione
delle  materie  indicate  nell'allegato 1 alla legge n. 50/1999 e non
invece  con  riferimento  agli  specifici  atti normativi indicati in
quell'allegato,   visto   che   si   trattava  di  delegare  la  sola
semplificazione  di procedimenti, come recita esaustivamente anche il
titolo  del  citato allegato 1 alla legge n. 50/1999. Al riguardo non
appare  casuale  che,  ad  esempio,  in  materia  di "procedimento di
gestione  e  alienazione dei beni sequestrati e confiscati" non siano
indicate tra le norme attingibili dal procedimento di semplificazione
anche  le  disposizioni  contenute  nel corpo del codice di procedura
penale,  atteso  che  cio'  avrebbe  necessariamente  inciso anche su
previsioni di portata sostanziale e non solo procedimentale.
    Ma anche a voler dare prevalenza alla mera e generale indicazione
delle  titolazioni  dei  numeri  del citato allegato, di certo non e'
rispondente  alla delega, che per forza di imposizione costituzionale
(art. 76 Cost.) deve avere "oggetti definiti", attrarre anche materie
del   tutto  eterogenee,  com'e'  sicuramente  quella  relativa  alla
disciplina  delle  pene pecuniarie e con riferimento soprattutto alle
determinazioni    delle    regole    processuali   e   degli   organi
giurisdizionali   competenti   alla   loro  conversione  in  caso  di
insolvenza del condannato.
    La  comunanza  tra spese di giustizia e pene pecuniarie, al piu',
puo'  riguardare  il  momento  della  riscossione,  ma certo non puo'
spingersi  fino  ad  attrarre  momenti  e  fasi diversi che attingono
profili  sostanziali,  come  la tematica della conversione delle pene
pecuniarie in relazione alla competenza a provvedervi e al rito.
    Per   queste   ragioni,   dunque,   in  via  principale  appaiono
illegittimi costituzionalmente per contrarieta' all'art. 76 Cost. gli
artt. da 235 a 239 del d.lgs. n. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R.
n. 115/2002 (e con analoghi effetti anche per le norme corrispondenti
di  questo  testo),  per mancanza di una valida delega a disciplinare
anche  la materia relativa alle sanzioni pecuniarie (e di conseguenza
l'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p.).
    In  via  subordinata  appaiono illegittimi costituzionalmente gli
artt. 237  e  238  del d.lgs. n. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R.
n. 115/2002 (e con analoghi effetti anche per le norme corrispondenti
di  questo  testo),  nella parte in cui attribuiscono la competenza a
disporre   la   conversione   delle   pene   pecuniarie   al  giudice
dell'esecuzione,  per  mancanza  di  una valida delega a disciplinare
anche  la materia relativa alla disciplina delle regole processuali e
degli  organi  giurisdizionali competenti alla conversione in caso di
insolvenza  del  condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie (e di
conseguenza l'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p.).
5. Il  rispetto dei criteri e principi direttivi che avrebbero dovuto
guidare il legislatore delegato.
    Ma vi e' un ulteriore profilo che deve essere valutato.
    Anche  a  volere ritenere che la delega relativa alla materia del
procedimento  relativo  alle spese di giustizia possa in qualche modo
attrarre  la  disciplina delle pene pecuniarie, vi erano nella delega
criteri   e  principi  direttivi  che  avrebbero  dovuto  guidare  il
legislatore  delegato,  espressi  nel  ricordato  art. 7  della legge
n. 50/1999.
    Quei  criteri,  per  vero,  sembrano  mostrare una natura anomala
rispetto all'elaborazione di principi e criteri direttivi che intende
l'art. 76 Cost., perche' se quest'ultima disposizione, come e' certo,
richiede  che  il  legislatore ordinario fissi le direttive entro cui
deve  muoversi  il  legislatore  delegato  nel  regolare  la  materia
delegata,  operando  le  scelte fondamentali al riguardo, una lettura
dei  principi  e  criteri  direttivi  di  cui  all'art. 7 della legge
n. 50/1999  mostra  come  in  questo caso si tratti di tuttaltro, nel
senso  che,  lungi  dal fissare i criteri e principi (cioe' le scelte
fondamentali)   che  debbono  guidare  il  legislatore  delegato  nel
disciplinare  in  concreto  le materie delegate, sono invece indicate
pressoche'  unicamente  regole  generali  per la realizzazione di una
buona  attivita' di normazione, che non si occupano minimamente delle
singole   materie  delegate,  lasciando,  quindi,  su  queste  ultime
apparentemente  del  tutto  libero  il legislatore delegato, che tale
infatti si e' ritenuto nei testi normativi in esame.
    Questo elemento, tuttavia, non deve condurre al convincimento che
sia  la stessa legge delega ad essere inficiata da una illegittimita'
costituzionale   per  mancata  definizione  dei  principi  e  criteri
direttivi,  perche',  in  realta', proprio il contenuto dei criteri e
principi  direttivi formulati nella legge n. 50/1999 definisce invece
con  estrema  precisione  l'ambito  materiale  della delega conferita
all'esecutivo.
    A  parte,  infatti,  le  regole di buona normazione indicate alle
lettere  b),  c),  e), f) ed h) (la lettera g) risulta abrogata dalla
legge n. 340/2000) e a parte la lettera a), che si occupa del caso in
cui  intervenga  una  delegificazione,  l'unico  criterio  capace  di
definire  l'ambito entro cui deve muoversi il legislatore delegato e'
quello di cui alla lettera d), la quale prevede la possibilita' di un
"coordinamento   formale   del   testo  delle  disposizioni  vigenti,
apportando,   nei   limiti   di  detto  coordinamento,  le  modifiche
necessarie   per   garantire  coerenza  logica  e  sistematica  della
normativa  anche  al  fine  di  adeguare e semplificare il linguaggio
normativo".
    Questo  criterio  e'  fondamentale perche' mostra - e conferma il
contesto  normativo  in  cui la delega e' inserita - che quest'ultima
non  e'  una  delega  a  riformare  le diverse materie individuate (o
magari addirittura quelle affini o connesse), ma e' semplicemente una
delega  a realizzare testi unici delle disposizioni gia' vigenti, con
la sola facolta' aggiuntiva, che attribuisce al processo normativo il
rango  di  fonte legislativa primaria (che per l'appunto richiede una
delega  e  che la si attui con decreti legislativi), costituito dalla
possibilita'  di  modificare  le  disposizioni  vigenti,  ma solo per
apportare le "modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e
sistematica   della   normativa",   anche   al  fine  di  adeguare  e
semplificare il linguaggio normativo, nell'ambito di un coordinamento
formale del testo.
    Questa  precisa delimitazione dell'oggetto del potere legislativo
attribuito  al  legislatore  delegato  spiega  l'assenza di criteri e
principi direttivi sull'oggetto delle materie delegate, come vorrebbe
l'art. 76  Cost.,  perche'  le  strut-ture portanti che la disciplina
della  materia  gia'  possiede  non possono essere modificate, mentre
oggetto  di modifica possono essere solo quegli aspetti che servono a
semplificare   il   linguaggio   o  a  garantire  coerenza  logica  e
sistematica alla normativa.
    A  questa precisa delimitazione il legislatore delegato non si e'
assolutamente  attenuto nell'elaborazione dell'intero testo normativo
qui   esaminato,   avendo   introdotto   una  serie  innumerevoli  di
innovazioni   radicali   della   disciplina   vigente,   con   scelte
inconciliabili,  anche  nell'impostazione  di  fondo,  con  le  norme
previgenti.
    Proprio  nel  caso  ora  all'attenzione ve ne e' uno degli esempi
piu' rilevanti, atteso che oltre a non potersi certo qualificare come
mero   intervento  di  coordinamento  formale  del  testo  oppure  di
semplificazione   del  linguaggio  normativo,  lo  spostamento  della
competenza  a  gestire  il  procedimento  di  conversione  delle pene
pecuniarie in capo al giudice dell'esecuzione, si vede bene come esso
non   sia  neppure  necessario  a  garantire  la  coerenza  logica  e
sistematica  della  normativa.  Ma  soprattutto  si  puo' agevolmente
percepire  come  esso  realizzi un'inversione radicale dell'indirizzo
cui  il  legislatore  si  e'  orientato  fin  dal  tempo  in  cui  ha
individuato la figura della magistratura di sorveglianza, la quale e'
sempre  andata acquistando maggiori competenze nella fase di gestione
dell'esecuzione   della   pena.  Inversione  analoga  solo  a  quella
realizzata  con  la  disciplina del giudice di pace, ma anche in quel
caso senza che vi fosse una delega sul punto.
    Anche    per    questo    aspetto,   dunque,   sono   illegittimi
costituzionalmente  per contrasto con l'art. 76 Cost. gli artt. 237 e
238 del d.lgs. n. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R. n. 115/2002 (e
con  analoghi  effetti  anche  per  le norme corrispondenti di questo
testo)  perche'  contrari  ai  principi e criteri direttivi contenuti
nella  legge  delega  (di  conseguenza  l'art. 299 nella parte in cui
abroga l'art. 660 c.p.p.).
    Va  da  se'  che  se,  invece,  si  ritenesse  la delega idonea a
consentire  interventi  del  tutto  innovativi  del tessuto normativo
precedente ad essere illegittimo costituzionalmente per contrasto con
l'art.  76 Cost. sarebbe l'art. 7 della legge n. 50/1999, nella parte
in  cui  non  detta  criteri e principi direttivi idonei a definire i
tratti  fondamentali  e  le  scelte  rilevanti  con  riferimento alle
specifiche materie delegate.
    In  forza  di  queste  considerazioni  si  chiede che le relative
pronunce,  nell'ordine  logico  in  cui  sono  state  esposte,  siano
adottate  dalla  Corte  costituzionale  apparendo  non manifestamente
infondati i profili di illegittimita' costituzionale di una attivita'
delegata  che,  riassuntivamente,  ha portato il legislatore delegato
prima  ad  estendere  l'ambito  delle  materie delegate sulla base di
asserite  vicinanze e poi a disattendere il fine di mero riordino che
la  delega  prevedeva  per  cambiare radicalmente la disciplina della
materia,  compiendo scelte tecniche e organizzative di enorme rilievo
in via del tutto autonoma.
6. Il buon andamento del servizio giustizia.
    Da  ultimo  vi  e'  altresi'  da  chiedersi  se siano conformi al
disposto  dell'art.  97  comma  1 Cost. soluzioni organizzative della
struttura  amministrativa  della  giustizia che riversino sull'organo
della  cognizione  competenze  e  incombenze  ulteriori  e diverse da
quelle di cognizione.
    Non  pare  possa  essere discusso, infatti, che cumulando in capo
all'organo   che   deve   esercitare   la   funzione  primaria  della
giurisdizione  penale,  che consiste nell'accertamento dell'esistenza
di  responsabilita'  per  la commissione di reati, anche di una varia
congerie  di incombenze marginali e, in ogni caso, ulteriori rispetto
alla  funzione  primaria, si finisce con il minarne ogni possibilita'
di efficienza, atteso che naturalmente il cumulo di attivita' provoca
(secondo  la  piu'  naturale  regola  organizzativa)  sottrazione  di
risorse alla funzione primaria.
    Il  tutto a fronte di un drammatico riconoscimento internazionale
dell'incapacita'  dell'organizzazione della giustizia italiana di far
fronte  all'obbligo  di garantire termini ragionevoli alla durata dei
processi.
    Un valore che oggi e' stato appositamente consolidato anche nella
nostra  Costituzione  all'art.  111  Cost.,  ma  il cui perseguimento
effettivo  puo'  essere  realizzato,  in combinazione con quanto gia'
avrebbe   consentito   l'art.   97  Cost.,  soprattutto  intervenendo
sull'organizzazione  giudiziaria,  intendendo con cio' prima di tutto
proprio  il  piano strutturale e organizzativo, con una distribuzione
delle  funzioni  e  delle  attivita'  che  sia  tale da non sottrarre
risorse all'esercizio del nucleo centrale della giurisdizione.
    Posto  cio', se ne sono condivisibili gli assunti, non potra' non
apparire  contrario  ad essi far convergere sull'organo preposto allo
svolgimento   della   funzione   di   cognizione   anche   competenze
propriamente  dirette  a  gestire  la fase di riscossione dei crediti
pecuniari  conseguenti  a  pene  pecuniarie,  come  l'indagine  circa
l'esistenza di beni e cespiti, ma anche la gestione del momento della
conversione  delle  pene  inadempiute,  soprattutto  considerando che
tutte queste attivita', dovendosi svolgere applicando la procedura di
cui  all'art. 666 c.p.p. impongono lo svolgimento di apposite udienze
(con  impiego  di  risorse. tempo ed energie alla presenza necessaria
(ex  art. 666  comma 4  c.p.p.) di difensore e pubblico ministero. Un
difensore,  fra l'altro, che ove sara' nominato d'ufficio comportera'
anche  un  conseguente  ricarico di costi per l'amministrazione della
giustizia  (da  sottrarre  ad  altri usi), atteso che quest'ultimo ha
diritto  al  pagamento  da  parte  dello Stato ove il suo cliente sia
insolvente   (art.  116  del  testo  unico  n. 115/2002)  ed  e'  per
definizione  insolvente  il  soggetto  cui  viene  convertita la pena
pecuniaria.
    In  conclusione  non  e' manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  per  contrarieta' al combinato disposto
degli artt. 97 comma 1 e 111, comma 2 Cost. degli artt. 237 e 238 del
d.lgs.  n. 113/2002,  come  riprodotti  nel d.P.R. n. 115/2002, nella
pade  in  cui  attribuiscono all'organo giudiziario cui la legge gia'
attribuisce le funzioni di cognizione anche competenze non pertinenti
a  quella  funzione e, in ogni caso, nella parte in cui non prevedono
che   la  conversione  sia  disposta  secondo  le  modalita'  di  cui
all'art. 667, comma 4, c.p.p.
7. La rilevanza della questione.
    Quanto  alla  rilevanza  della  questione per questo giudice e in
questa  fase  deve  essere  messo  in  evidenza che se le nuove norme
fossero  legittime  la  loro  applicazione  imporrebbe di azionare la
procedura di cui all'art. 238 provvedendo quindi a fissare udienza ex
art. 666 c.p.p. per poi disporre in quella sede le predette indagini,
attivita'  che questo giudice non ritiene di dover compiere prima che
sia accertata la legittimita' della norma che le impone, in quanto in
caso  contrario  anche  solo  attivando  le  procedure  dirette  alla
fissazione  dell'udienza farebbe immediatamente applicazione di norme
(ritenute) illegittime costituzionalmente.
    Laddove,  invece, fosse accolto uno dei profili di illegittimita'
prospettati  gli  sbocchi processuali conseguenti sarebbero diversi e
non  richiederebbero  ne'  la  fissazione  della predetta udienza ne'
tanto meno altre tra quelle indicate nelle norme impugnate.