LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso proposto da
Fiore  Umberto  e  Fusco  Giuseppina, avverso l'ordinanza della corte
d'appello   di   Roma,   che   il  26  novembre  2001  ha  dichiarato
inammissibili  le  dichiarazioni  di ricusazione da loro proposte nei
confronti del magistrato Luisanna Figliolia;
    Letta  la requisitoria del sostituto procuratore generale, che ha
concluso per l'annullamento senza rinvio.

                            O s s e r v a

    Il  22  novembre 2001 Umberto Fiore e Giuseppina Fusco ricusavano
il  giudice  Luisanna Figliolia, perche' aveva assunto la funzione di
giudice  dell'udienza  preliminare  tenuta  nei  loro confronti per i
medesimi  fatti  per i quali in precedenza lo stesso magistrato aveva
gia'  disposto  il  rinvio  a  giudizio  con decreto, successivamente
annullato.
    Il  26  novembre  2001  la  corte d'appello di Roma ha dichiarato
inammissibili   le   dichiarazioni  di  ricusaziane,  osservando  che
l'ipotesi   attuale   non   rientra   tra   i   casi  di  ricusazione
normativarnente  previsti, che sono tassativi e suscettibili soltanto
d'interpretazione  letterale,  con  esclusione  di quella analogica o
anche estensiva.
    Ricorrono  i  succitati  Fiore  e  Fusco, proponendo questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 34  nella  parte  in  cui non
prevede  la  fattispecie in esame, per contrasto con con gli artt. 3,
24  e 111 Cost., in quanto anche nel caso di specie sussisterebbe una
evidente compromissione dell'imparzialita' del giudice, per la "forza
di  prevenzione"  esercitata  nella rinnovata fase processuale, dalle
valutazioni precedentemente
    Reputa  il  collegio  che la questione vada nuovamente sottoposta
alla valutazione della Corte costituzionale, esclusivamente alla luce
dell'art. 111 della Carta fondamentale.
    Con  l'ordinanza  n. 112  del 2001 la Corte ha esaminato proprio,
questo   tema   ed   e'  pervenuta  alla  declaratoria  di  manifesta
infondatezza,  in  quanto  non  ha  potuto  valutare  la disposizione
dell'art. 34 alla luce delle innovazioni nel frattempo apportate alla
disciplina  dell'udienza  preliminare  dalla  legge 16 dicembre 1999,
n. 479,  la quale ha attribuito al giudice di quell'udienza il potere
di   compiere   apprezzamenti   sul   merito  dell'accusa,  idonei  a
pregiudicare la terzieta' e l'imparzialita' del medesimo giudice, una
volta  chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla richiesta di rinvio a
giudizio.  Queste  modifiche  legislative,  infatti, non erano ancora
operanti  nel  momento  in  cui  i  giudici per l'udienza preliminare
avevano  pronunziato  i decreti nei procedimenti sottoposti al vaglio
della  Corte  costituzionale.  Successivamente con la sentenza n. 224
del  2001 la Corte si e' occupata di una specifica fattispecie, ossia
quella  del  giudice che, avendo pronunciato o concorso a pronunciare
sentenza  di  primo  grado,  sia  chiamato  ad esercitare funzioni di
giudice dell'udienza preliminare nel medesimo processo per effetto di
una   vicenda   regressiva   consequenziale   all'annullamento  della
decisione da parte del giudice di appello.
    Il  comma 2 dell'art. 34 cod. proc. pen.- ha rilevato la Corte al
riguardo - stabilisce che non puo' partecipare al giudizio il giudice
che  ha  emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare,
ma   non   prevede   l'incompatibilita'  nell'evenienza  inversa.  Ha
precisato,  inoltre,  che per il carattere tassativo delle ipotesi di
incompatibilita'  non  e'  possibile  estendere analogicamente questa
disposizione a casi diversi da quelli in esse considerati.
    In  particolare con la decisione menzionata la Corte ha ricordato
che  le  norme sulla incompatibilita' del giudice determinata da atti
compiuti  nel  procedimento  presidiano i valori costituzionali della
terzieta'   e   dell'imparzialita'  della  giurisdizione,  risultando
finalizzate:
        a)  da  un  lato ad evitare che la decisione sul merito della
causa  possa  essere  o  apparire  incondizionata  dalla "forza della
prevenzione"  -  ossia  dalla  naturale  tendenza  a  confermare  una
decisione  gia'  presa  o a mantenere un atteggiamento gia' assunto -
scaturente  da  valutazioni  cui il giudice sia stato precedentemente
chiamato in ordine alla medesima res iudicanda;
        b)  dall'altro  ad  impedire che un giudizio inteso nel senso
sostanziale dei suoi contenuti ed in ogni sequenza del procedimento -
anche diversa dal giudizio dibattimentale - la quale, collocandosi in
una   fase  diversa  da  quella  in  cui  si  e'  svolta  l'attivita'
"pregiudicante",  implichi  una valutazione sul merito dell'accusa, e
non  determinazioni  incidenti sul semplice svolgimento del processo,
ancorche'  adottate  sulla  base di un apprezzamento delle risultanze
processuali.
    In  quell'occasione  la  Corte ha constatato che, a seguito delle
importanti  innovazioni  introdotte,  in  particolare, dalla legge 16
dicembre  1999,  n. 479, l'udienza preliminare ha subito una profonda
trasformazione  sul  piano sia della quantita' e qualita' di elementi
valutativi   che   vi   possono  trovare  ingresso,  sia  dei  poteri
correlativamente  attribuiti  al  giudice,  e,  infine,  per cio' che
attiene  alla piu' estesa gamma delle decisioni che lo stesso giudice
e' chiamato ad adottare.
    Ha ricordato:
        1)  L'esigenza  di completezza delle indagini preliminari (v.
sentenza  n. 115 del 2001) ora significativamente valutabile anche in
sede  di  udienza preliminare, al cui giudice e' attribuito il potere
di  disporre  l'integrazione delle indagini stesse (art. 421-bis cod.
proc. pen.);
        2)  l'analogo  potere  di integrazione concernente i mezzi di
prova, a fronte del quale il giudice puo' assumere anche d'ufficio le
prove  delle  quali  appaia  evidente  la  decisivita'  ai fini della
sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc. pen.);
        3)  le  nuove  cadenze  delle indagini difensive - introdotte
dalla  legge  7 dicembre 2000, n. 397 - ed il conseguente ampliamento
del   tema   decisorio,  non  piu'  limitato  al  materiale  raccolto
dall'organo dell'accusa.
    Ha  altresi',  evidenziato  che  questi  sono  tutti  elementi di
novita'  che  postulano, all'interno della udienza preliminare, da un
lato,   un  contraddittorio  piu'  esteso  rispetto  al  passato,  e,
dall'altro,    un   incremento   degli   elementi   valutativi,   cui
necessariamente  corrisponde  -  quanto  alla  decisione  finale - un
apprezzamento   del   merito   ormai   privo  di  quei  caratteri  di
"sommarieta'" che prima della riforma erano tipici di una delibazione
tendenzialmente circoscritta allo "stato degli atti".
    La  Corte  ha  anche  considerato  i  nuovi  "contenuti" che puo'
assumere  la decisione con la quale il giudice e' chiamato a definire
l'udienza preliminare:
        nel  caso  di  rinvio  a giudizio il giudice deve valutare la
sufficienza,  non  contraddittorieta'  e,  comunque,  idoneita' degli
elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio;
        nel  caso contrario, deve pronunziare sentenza di non luogo a
procedere,   che   puo'   conseguire   anche  all'applicazione  delle
circostanze  attenuanti  generiche e della conseguente disciplina del
bilanciamento, di cui all'art. 69 cod. pen.;
        nel  caso di sentenza di non luogo a procedere per difetto di
imputabilita'  (ora consentita, quando non ne consegna l'applicazione
di  una  misura  di sicurezza) del pari il giudice adotta statuizioni
che  incidono  sul  merito della causa, in quanto per giungere a tale
pronunzia    deve    compiere    "il   necessario   accertamento   di
responsabilita'  in  ordine  al  fatto  reato" (v. sentenza n. 41 del
1993).
    L'alternativa  decisoria  che  si  offre al giudice quale epilogo
dell'udienza  preliminare,  riposa,  dunque,  su  una valutazione del
merito  della  accusa  ormai  non  piu'  distinguibile  -  quanto  ad
intensita'  e completezza del panorama delibativo - da quella propria
di altri momenti processuali, gia' ritenuti non solo "pregiudicanti",
ma   anche   "pregiudicabili",   ai   fini  della  sussistenza  della
incompatibilita'.
    Ne  deriva,  a  parere  del collegio, che la dedotta questione e'
rilevante   e   non   manifestamente  infondata,  poiche',  nel  caso
d'annullamento   del   decreto  che  dispone  il  giudizio,  appaiono
ricorrere tutte le anzidette condizioni d'incompatibilita'.
    Questa Corte, pero', per il principio di tassativita' delle cause
d'incompatibilita', reputa che non e' possibile estendere la norma in
esame,  andando oltre il suo significato letterale, come ha richiesto
il procuratore generale presso la Cassazione, dovendo essere, invece,
invocato l'intervento adeguatore della Corte costituzionale.