LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso
proposto  da:  I.N.A.I.L  -  Istituto  Nazionale  per l'Assicurazione
contro gli Infortuni sul Lavoro, in persona del legale rappresentante
pro  tempore, elettivamente domiciliato; in Roma via IV Novembre 144,
rappresentato   e  difeso  dagli  avvocati  Quaranta  Franco,  Muccio
Saverio, Rossi Pasquale, giusta delega in atti; ricorrente.
    Contro  Tec  Flam  Fonderie Riunite S.r.l., in persona del legale
rappresentante  pro  tempore,  elettivamente  domiciliato in Roma via
Barnaba Oriani n. 85, presso lo studio dell'avvocato Giulia Trabalza,
che  lo  rappresenta  e  difende unitamente agli avvocati David Maria
Santoro, Gian Paolo Sassi, giusta delega in atti; controricorrente.
    Avverso  la  sentenza n. 209/1999 del Tribunale di Busto Arsizio,
depositata il 20 febbraio 1999 - R.G.N. 21/1998;
      Udita  la  relazione  della causa svolta nella pubblica udienza
del 18 marzo 2002 dal Consigliere dott. Raffaele Foglia;
      Udito l'avvocato Muccio;
      Udito l'avvocato Sassi;
      Udito  il  p.m.  in  persona del sostituto procuratore generale
dott. Carlo Destro che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

                           Fatto e diritto

    Con  ricorso  del 23 febbraio 1998 al pretore di Busto Arsizio la
soc.  r.l.  Tec  Flam  Fonderie riunite conveniva in giudizio l'Inail
esponendo di aver assunto neali anni 1994/1995, 27 lavoratori a tempo
determinato  attingendoli  dalle  liste  di  mobilita' ai sensi della
legge n. 223 del 1991, trasformando poi i rispettivi rapporti a tempo
indeterminato.  Avendo  versato  per  detti  lavoratori  i prescritti
contributi  al  predetto  Istituto, con riserva di recupero in virtu'
del disposto dell'art. 8 della medesima legge, la societa' ricorrente
chiedeva   nei  confronti  dell'Inail  la  restituzione  della  somma
complessiva di L. 156.724.892 oltre accessori.
    L'istituto   convenuto   resisteva   sostenendo  che  i  benefici
contributivi  di  cui  al citato art. 8 non erano riferibili ai premi
Inail.
    Il  pretore accoglieva la domanda con sentenza del 13 maggio 1998
ritualmente impugnata dall'Istituto previdenziale.
    Costituitosi nuovamente il contraddittorio, il Tribunale di Busto
Arsizio,  con  sentenza del 20 febbraio 1999, confermava la pronunzia
di  primo  grado,  osservando che nessun rilievo aveva la circostanza
che  il  citato  art. 8  faccia  riferimento  a  "contributi" e non a
"premi"  essendo  comune  la  ratio  della  disposizione  di favorire
comunque  ii  reinserimento  del  lavoratore nel processo produttivo,
anche  mantenendo  in  vita  quelle  imprese  che vengono travolte da
procedure  concorsuali,  sgravando  di  tutti  gli oneri il datore di
lavoro  che  vede  cosi'  incentivata  la  finalita' perseguita dallo
Stato.
    Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Inail
articolando  un  unico  motivo:  cui  replica  con  controricorso  la
societa' intimata.
    In  prossimita'  dell'udienza  l'istituto  ha  depositato memoria
illustrativa, ex art. 378 c.p.c.
                         Osserva il collegio
    Con  l'unico motivo di ricorso, denunziando la violazione e falsa
applicazione dell'art. 8 comma 2 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e
dell'art. 21,  lett. a)  della  legge 19 gennaio 1955, n. 25, l'Inail
assume  che  la decisione impugnata avrebbe errato nel ritenere che i
premi  assicurativi  dovuti  dal  datore  di  lavoro, in relazione ai
lavoratori  collocati  in  mobilita'  ed assunti ex legge n. 223/1991
debbano  essere calcolati secondo il regime contributivo previsto per
apprendisti dalla legge n. 25/1955.
    La  questione  e' stata gia' affrontata e risolta da questa Corte
con  le  sentenze  nn. 2202/1998  e  3445/1999,  in senso contrario a
quanto  sostenuto  dal  ricorrente  e  dalle  ragioni  esposte  nelle
suindicate pronunzie la Corte non ritiene di discostarsi.
    Senonche',  con  la memoria illustrativa l'istituto ricorrente ha
invocato  l'art. 68,  comma  6  della  sopravvenuta legge 23 dicembre
2000,  n. 388  secondo  il  quale  "l'art. 8,  comma 2 della legge 23
luglio  1991,  n. 223  si  interpreta  nel  senso  che  il  beneficio
contributivo non si applica ai premi Inail".
    L'applicazione   della  disposizione  appena  citata,  quale  ius
superveniens imporrebbe, dunque, l'accoglimento del ricorso.
    La  societa'  intimata, peraltro, resiste sollevando eccezione di
legittimita'  costituzionale  del citato art. 68, comma 6 nei termini
gia'  condivisi dal Tribunale di Taranto con ordinanza del 28 gennaio
2002 resa in causa INAIL, contro ILVA S.p.a (R.G. 25511/99).
    Ad  avviso  del  Collegio - scontata la rilevanza della questione
sollevata  con riferimento ad una norma che ha una evidente e diretta
incidenza  sulla soluzione della controversia presente - il dubbio di
legittimita' costituzionale non appare manifestamente infondato.
    Si   ripropone   la   tematica  delle  leggi  di  interpretazione
autentica, per loro natura retroattive, rispetto alla quale esiste un
antico  dibattito  ii  quale  ha  preso  le  mosse dall'art. 11 delle
preleggi  (secondo il quale "la legge non dispone che per l'avvenire:
essa  non na valore retroattivo") soffermandosi sull'art. 25, comma 2
Cost.  il  quale  vieta espressamente le leggi retroattive in materia
penale.
    Come  noto, si e' proposto di estendere questo divieto alle leggi
non  penali,  richiamandosi talvolta il principio di irragionevolezza
espresso  dall'art. 3 Cost., talvolta quello di divisione dei poteri,
con  l'esclusiva  potesta  degli  organi  giurisdizionali di decidere
sull'efficacia  degli  atti normativi, o il principio di eguaglianza.
Talvolta  si  e' affermata l'incostituzionalita' della retroattivita'
non  adeguatamente giustificata e talaltra si e' voluto imporre a chi
sostiene  l'incostituzionalita'  l'onere  di  provare  la violazione,
determinata,  appunto,  dalla  retroattivita',  di  una  certa  norma
costituzionale,  pervenendosi comunque alla conclusione - comunemente
condivisa  -  che  al  di  fuori  delle leggi penali non esiste alcun
divieto  assoluto di retroattivita', e che non puo' dunque escludersi
la necessita' - valutata dal legislatore secondo una discrezionalita'
insindacabile    dalla   giurisdizione   costituzionale,   ai   sensi
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1957, n. 87, di imporre l'efficacia
retroattiva di una legge.
    I  problemi  che  si  pongono  in  sede  giurisdizionale  -  piu'
frequentemente   con   riferimento   alle  leggi  di  interpretazione
autentici  retroattive  per  definizione,  come quella richiamata nel
motivo  del  ricorso  -  concernono,  appunto,  i  limiti  di  questa
discrezionalita'.
    In  proposito  la  Corte  costituzionale  ha  in  varie occasioni
affermato che il divieto di retroattivita' pur non sancito in termini
generali dalla legge fondamentale, "rappresenta pur sempre una regola
essenziale   del   sistema   a   cui,   salva   una  effettiva  causa
giustificatrice,  il  legislatore  deve  ragionevolmente attenersi in
quanto  la  certezza  dei  rapporti preteriti costituisce un indubbio
cardine  della civile convivenza e della tranquillita' dei cittadini"
(sent. 4 aprile 1990, n. 155).
    Non  sempre  e  necessario,  peraltro, ai fini della legittimita'
della  norma  di  interpretazione  autentica,  che  essa  a dirima un
contrasto ermeneutico, cio' che importa e che la scelta imposta dalla
legge  interpretativa  rientri  tra le possibili varanti di senso del
testo  originario con cio' vincolando un significato ascrivibile alla
norma  anteriore  entro  questo  limite,  e  sempre  che  non risulti
l'intenzione  di  incidere  direttamente  su concrete fattispecie sub
iudice  (il  che  aprirebbe  l'adito  a  possibili interferenze con i
principi   enunciati  dagli  artt. 101,  102  e  104  Cost.)  non  e'
contestabile  la  legittimita'  del ricorso a tal forma di produzione
giuridica  da parte del legislatore anche in presenza di un indirizzo
omogeneo  della  Corte di cassazione, istituzionalmente investita del
potere  nomofilattico  (cfr.  le  sentenze della Corte costituzionale
nn. 311  del  1995,  397  del  1994  e l'ordinanza n. 480 del 1992 in
precedenza,  cfr.  sentenze  nn. 390  del 1990, 455 del 1992 e 39 del
1993).
    Anche  la  piu' recente giurisprudenza del giudice delle leggi ha
ribadito   l'avviso  che  non  contrasta  di  per  se'  con  precetti
costituzionali l'emanazione di una legge di interpretazione, anche se
approvata   in   assenza   di   pronunce   discordanti,  a  meno  che
l'interpretazione   "non   collida   con  il  generale  principio  di
ragionevolezza"  (Corte cost. nn. 29 del 2002; 525 del 2000 e 229 del
1999), sicche' puo' dirsi che lo scrutinio di costituzionalita' della
norma  impugnata  si  sostanzia  nella  valutazione riguardo alla sua
compatibilita'   con   il   tenore  della  norma  interpretata,  alla
ragionevolezza  della  opzione ermeneutica imposta ed al rispetto dei
limiti  di  retroattivita'  delle norme extrapenali individuati dalla
giurisprudenza costituzionale sent. n. 29 del 2002 cit.).
    L'effettivo  problema  da  affrontare  nella presente fattispecie
riguarda,  pertanto, non gia' la natura (interpretativa o meno) della
legge,  ma  solo  i  limiti che essa incontra quanto alla sua portata
retroattiva.,  con particolare riferimento al "valore costituzionale"
dell'affidamento  della  certezza dei rapporti giuridici e dei propri
diritti e doveri.
    Come e' stato gia' sottolineato da questa Corte in riferimento ad
altra  disposizione contenuta nel medesimo art. 68 della legge n. 388
del  2000 (cfr. ordinanza del 20 giugno 2001, n. 8454. concernente il
precedente  comma  5),  anche  nel  caso  di specie, viene in rilievo
l'affidamento  del cittadino nella sicurezza giuridica; principo che,
quale  elemento  essenziale  dello  Stato di diritto, non puo' essere
leso  da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente
su  situazioni  regolate  da  una  disciplina  legislativa precedente
pacificamente  intesa (Corte cost. sentenze nn. 525 del 2000; 416 del
1999; 211 del 1997; 155 del 1990; 822 del 1988; 349 del 1985).
    Ne'  la finalita' della contrazione della spesa pubblica, sottesa
alla  disposizione  in esame, pare ragione sufficiente a giustificare
le prospettate volazioni dei suddetti principi costituzionali.
    La norma impugnata fornisce una interpretazione del citato art. 8
della  legge  n. 223  del 1991 che non era tra quelle accolte in sede
giudiziale, oltre ad essere nettamente minoritaria in dottrina.
    Come   gia'   ricordato,   in   analoghe   circostanze  la  Corte
costituzionale ha dichiarato illegittima una norma interpretativa che
interveniva  su  una  applicazione  prolungata ed incontroversa della
norma  "interpretata",  considerando questo un elemento rilevatore di
concreta  irrazionalita'  (v.  Corte  cost.. n. 283 del 1989: nonche'
n. 155 del 1990).
    Orbene,   nel   caso   di   specie,   non   puo'  sottacersi  che
l'interpretazione  dettata  dal  legislatore  anche per il passato e'
intervenuta  a  distanza  di  oltre  nove anni dall'entrata in vigore
della legge n. 223 del 1991, a fronte di una disposizione che sia per
la  sua  formulazione  testuale,  sia  per  la  sua  operativita'  in
concreto,  ha  trovato  una  lettura  univoca nella giurisprudenza di
questa   Corte  per  tutto  questo  periodo.  Sotto  questo  profilo,
l'intervento   del   legislatore  e'  oggettivamente  destabilizzante
rispetto ad un assetto di rapporti che la stessa Corte costituzionale
definisce comunemente quale "diritto vivente".
    In particolre, va rilevato che il comma 2 dell'art. 8 della legge
23 luglio 1991, n. 223 - su cui interviene la legge n. 388 del 2000 -
prevedendo  la  possibilita'  di assumere lavoratori in mobilita' con
contratto a termine di durata non superiore a 12 mesi, stabilisce che
"la  quota  di  contribuzione a carico del datore di lavoro e' pari a
quella  prevista  per  gli  apprendisti dalla legge 19 gennaio 1955 e
successive  modificazioni".  Tale  beneficio contributivo puo' essere
prolungato  per  un  massimo  di  altri  12  mesi  per  l'ipotesi  di
successiva   trasformazione  dei  predetto  contratto  a  termine  in
contratto o tempo indeterminato.
    Confermando un orientamento gia' condiviso dai giudici di merito,
questa  Corte  ha,  in  piu'  occasioni  precisato  che  la "quota di
contribuzione"   anzidetta   comprende   anche  i  versamenti  dovuti
all'Inail,  a  nulla  rilevando  la circostanza che, a differenza dei
contributi  destinati  all'Inps,  quelli  dovuti  all'Inail  sono  ad
esclusivo  carico  del  datore  di lavoro (ex art. 27 del testo unico
30 giugno   1965,   n. 1124)   dovendosi   piuttosto   ritenere   che
nell'espressione  anzidetta  il termine "quota" e' usato col sinonimo
di "ammontare" o "importo" e non gia' nel senso (proprio) di parte di
una  somma  globale  dovuta  o  che  spetta  secondo  una determinata
ripartizione (Cass., 27 febbraio 1998, n. 2202; Cass., 8 aprile 1999,
n. 3445 gia' citate).
    Del  resto, l'unitarieta' della nozione non solo corrisponde alla
comune  finalita'  - perseguita dall'art. 8, comma 2 - di favorire la
rioccupazione  dei  lavoratori,  ma  si trae anche dal fatto che essa
equipara  la  "quota" contributiva del datore di lavoro del personale
in  mobilita'  assunto a tempo determinato per un periodo inferiore a
dodici  mesi  alla  "quota",  prevista  per  i datori di lavoro degli
apprendisti secondo la legge 10 gennaio 1955 n. 25 sebbene questa non
preveda  alcuna  ripartizione  dell'onere assicurativo, giacche' tale
onere  -  espressamente  comprensivo  anche  dell'assicurazione lnail
(art. 21) - e' ad esclusivo carico del datore di lavoro (art. 22).
    Negli  stessi  termini  questa  Corte si e' pronunziata in ordine
agli  sgravi  previsti  dal  decreto  legge  1  aprile  1989, n. 120,
convertito  nella  legge  15  maggio  1989,  n. 181  (in  materia  di
risanamento   del   settore   siderurgico)   ritenuti   pacificamente
applicabili  sia  ai  contributi  Inps  che a quelli dovuti all'Inail
(Cass. 5 maggio 2000, n. 5628).
    In  sostanza,  l'intervento  del legislatore del 2000, escludendo
dai  benefici  della  decontribuzione  i  premi  lnail, introduce una
inedita  dissociazione  all'interno  della  contribuzione,  a seconda
degli  enti  di destinazione, in tal modo ponendo a carico dei datori
di  lavoro,  con effetto retroattivo, maggiori oneri contributivi non
previsti,   ne'   prevedibili  -  sulla  base  del  "diritto  vivente
all'epoca"  -  nei  rispettivi piani di investimento o di produzione,
con  possibili  distorsioni  sul piano della concorrenza, rispetto ad
altri  datori  di  lavoro che - pur stipulando, nei medesimi periodi,
contratti  di  lavoro  a  termine  con lavoratori gia' iscritti nelle
liste  di  mobilita'  -  abbiano  avuto la definizione della vertenza
contributiva con l'istituto prima dell'approvazione e dell'entrata in
vigore della nuova legge.
    E'  legittimo  il  dubbio  che  la  suindicata  dissociazione sia
ingiustificata.
    Ad  avviso  del  Collegio, infatti, appare plausibile il sospetto
che  la  volonta'  di chiarire il senso dell'anzidetto art. 8 comma 2
della   legge   n. 223  del  1991  e  le  eventuali,  pur  legittime,
considerazioni  di convenienza del legislatore abbiano travalicato il
limite  della ragionevolezza nella parte in cui lo stesso legislatore
ha  disposto  l'applicabilita',  anche  per  il  passato  della nuova
disciplina,  perche' in tal modo e' stato frustrato l'affidamento dei
soggetti  nella  possibilita'  di operare sulla base delle condizioni
normative esistenti nell'ordinamento in un dato periodo storico, e si
e'  introdotto  un elemento di distorsione nel trattamento riservato,
per  il  periodo  1992/2000, ai medesimi soggetti, senza che vi fosse
una  ragionevole  necessita'  di  sacrificare  tale  affidamento  nel
bilanciamento con altri interessi costituzionalmente costituzionali.
    Tale  esigenza  di  garanzia  si arresta, come riconosciuto dalla
Corte  costituzionale  con  la  sentenza n. 525 del 22 novembre 2000,
solo  nel  momento  in  cui  la  norma  interpretativa sia entrata in
vigore,  sicche'  non  si  ravvisa  alcuna  ragione  per  fornire una
interpretazione di una norma non piu' in vigore.
    Deve,  conclusivamente,  ritenersi rilevante e non manifestamente
infondata  la  questione  di  legittimita' costituzionale della norma
denunciata.