IL TRIBUNALE Sull'appello presentato dal difensore di Vela Dashmir, nato a Telepene (Albania) in data 28 maggio 1973, avverso l'ordinanza emessa dal g.i.p. presso il Tribunale di Torino in data 6 agosto 2002, ha pronunciato la seguente ordinanza; Vela Dashmir e' sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, emessa in data 26 giugno 2002, in relazione al reato di cui all'art. 110 c.p. 74 d.P.R. 309-90 indicato al capo d) di incolpazione, per essere concorso nell'associazione a delinquere finalizzata al commercio internazionale di sostanza stupefacente composta da Vaqo Artur, Hasanbelliu Ramazan, Hasanbelliu Agim, Blushi Arjan partecipando all'azione ritorsiva decisa dal gruppo contro Bejaioui Nourredine e Amraoui Ben Foued Houcine, responsabili di essersi resi irreperibili dopo avere ricevuto la consegna di un grosso quantitativo di droga; lo stesso Vela Dashmir, in data 27 novembre 1999, era stato infatti arrestato ed attinto, in esito al giudizio di convalida, da ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, per rapina ai danni di Bejaioui Nourredine e Amraoui Ben Foued Houcine, fatto per cui e' stato gia' condannato alla pena detentiva di anni quattro di reclusione. Nell'ambito del predetto procedimento per concorso in associazione finalizzata al traffico di stupefacenti il difensore avanzava istanza al g.i.p. con cui richiedeva dichiararsi l'inefficacia della misura per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare poiche' tutti gli elementi sui quali si fondava l'ordinanza costitutiva erano noti al p.m. anteriormente alla celebrazione del giudizio per il reato di rapina per il quale Vela e' stato condannato. Il g.i.p. respingeva l'istanza, sulla base della considerazione secondo cui gli indizi del concorso esterno del Vela all'associazione a delinquere sarebbero emersi solo successivamente al suo arresto in flagranza per rapina e che, quindi, prima di quel momento l'a.g. non era in grado di formulare a suo carico l'ipotesi di reato poi contestata e con il provvedimento di applicazione della misura custodiale emesso in data 26 giugno 2002. La difesa ha interposto appello avverso la predetta ordinanza rilevando che nelle telefonate intercettate subito dopo l'arresto del Vela emergeva con chiarezza il quadro indiziario posto a fondamento dell'ordinanza impugnata e che detti elementi erano conosciuti dal p.m. prima della celebrazione del processo a suo carico per rapina. Occorre preliminarmente osservare che fra il reato di rapina e quello di concorso nell'associazione volta al traffico di droga, capeggiata da Vaqo Artur, esiste il rapporto di connessione qualificata richiesto dall'art. 297 comma 3 c.p.p poiche' il concorso esterno all'associazione, contestato con il secondo provvedimento cautelare, si sarebbe estrinsecato proprio nella partecipazione alla rapina commessa in data 27 novembre 1999 ai danni di Bejaoui Nourredine e Amraoui Ben Foued Houcine. Peraltro, osserva il Tribunale, gli elementi che hanno determinato il p.m. alla richiesta di misura cautelare, non preesistevano all'arresto del Vela ma emergevano dalla trascrizione delle telefonate intercettate effettuata dalla D.I.A. di Bari; e il contenuto di tali telefonate, inerenti la posizione dell'odierno appellante, nel testo trascritto dalla P.G. di Bari, se pur precedenti o concomitanti l'arresto del medesimo, erano state portate a conoscenza del p.m. dopo l'arresto ma prima del rinvio a giudizio (avvenuto in data 22 novembre 2000) per il reato oggetto della prima misura cautelare. Invero, quanto alla prima delle suddette affermazioni si puo' concludere, contrariamente all'assunto difensivo secondo cui al momento dell'arresto il p.m. aveva gia' tutti gli elementi per formulare delle accuse precise a carico dell'istante, che la nota D.I.A. di Bari (inspiegabilmente) datata 29 novembre 1999(1), l'arresto e' infatti del 27 novembre 1999. Secondo cui alcune persone coinvolte in traffici di droga, seguendo le direttive del "capo" dell'organizzazione in Albania si trovavano nelle vicinanze della Questura di Torino ed attendevano il rilascio di due nordafricani, persone offese della "rapina" addebitata al Vela, era assai scarna delineando unicamente in modo vago e poco circostanziato l'esistenza di un'associazione a delinquere volta al traffico di droga, ma dalla stessa nulla emergeva circa i componenti di siffatta organizzazione, le fonti dell'attivita' di indagine, la cui conoscenza avrebbe potuto portare il p.m. ad enucleare dalla stessa fatti e correlative responsabilita', circostanze viceversa emergenti in modo piu' concretamente apprezzabile dalla nota D.I.A.di Bari del 6 dicembre 1999, cui il g.i.p. procedente ha fatto, nell'ordinanza costitutiva, frequente riferimento. Sgombrato quindi il campo dalla prima delle questioni dedotte (se cioe' i fatti di causa erano desumibili gia' prima della data di applicazione della prima misura cautelare) occorre esaminare se e' applicabile la seconda parte della norma in esame che prevede la non applicabilita' della regola di retrodatazione dei termini di durata massima della custodia cautelare nel caso in cui i fatti non erano desumibili prima del rinvio a giudizio per il reato oggetto della iniziale contestazione cautelare. (1) L'arresto e' infatti dal 27 novembre 1999. Ritiene il collegio che il p.m. conoscesse gli atti, su cui e' fondata l'ordinanza costituiva, prima del rinvio a giudizio in relazione al reato originariamente contestato; cio' emerge, oltre che da tutti gli atti di indagine effettuati precedentemente a tale data, dalla missiva inviata dal p.m. procedente al collega presso il Tribunale di Bari (presso cui erano in corso indagini nei confronti del medesimo gruppo criminale) in cui il requirente, in data 12 luglio 2000, rappresenta la necessita' di dover procedere, in relazione al reato di rapina e di detenzione di arma da guerra commessi nel novembre 1999, al deposito degli atti ex art. 415-bis c.p.p. e chiede una valutazione circa l'opportunita' di procedere alle iscrizioni nel registro notizie di reato in relazione all'art. 74 d.P.R. n. 309-90 e di "provare" a richiedere le "correlative misure cautelari" pur rappresentando l'ulteriore possibilita' di "stralciare gli atti inviati e iscrivere nuovo procedimento a carico degli indagati ed altri per tale reato". E' altresi in atti provvedimento di iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. dell'indagato per il reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309-90 e la formazione di altro fascicolo "stralciato" per le altre fattispecie di reato per cui le indagini "devono proseguire", atti datati 18 settembre 2000. Ritiene pertanto il Collegio che i fatti per cui ora si procede erano gia' "desumibili dagli atti" prima del rinvio a giudizio del Vela (datato, come detto, 22 novembre 2000); trova pertanto applicazione la prima parte dell'art. 297 comma 3 c.p.p. che prevede, in tale ipotesi, la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza dei termini di durata massima della misura cautelare al giorno in cui e' stata eseguita o notificata la prima ordinanza, che pertanto nel caso di specie, sarebbero gia' decorsi dovendosi computare il termine di cui all'art. 303, comma 1 lettara a) n. 3) dalla data del 27 novembre 1999 (data dell'arresto del Vela). A questo punto ritiene il Collegio di dovere puntualizzare il carattere assolutamente centrale ed assorbente che riveste, ai fini della decisione sulla interposta impugnazione, l'interpretazione che di fatto si e' venuta affermando - quanto meno a livello di giurisprudenza di legittimita' - in ordine alla disciplina dell'art. 297, comma 3 c.p.p., nella formulazione introdotta con l'art. 12 della legge n. 332 del 1995. Onde poter meglio inquadrare le delicate problematiche interpretative sottese a questa complessa disciplina pocessualpenalistica, appare opportuno premettere una rapida disamina delle principali tappe normative e giurisprudenziali attraverso cui la stessa risulta essersi via via dipanata: l'art. 297, comma 3, nella sua originaria formulazione, disponeva che i termini decorressero dall'esecuzione o dalla notificazione del primo provvedimento nel caso di pluralita' di ordinanze che dispongono la stessa misura cautelare per il medesimo fatto; tale norma, come e' dato immediatamente comprendere dal suo tenore letterale, mirava ad impedire l'artificioso prolungamento della durata della misure cautelari derivante dalla strumentale rinnovazione dell'originario provvedimento applicativo ed il criterio in questione si applicava, per esplicita previsione del legislatore, anche nel caso in cui il fatto contestato nei successivi provvedimenti cautelari fosse, diversamente circostanziato o qualificato, oltreche' nei casi di concorso formale e di aberratio iscus e aberratio delicti plurilesive di cui agli artt. 82, comma secondo, e 83, comma secondo, c.p.; non era invece specificamente disciplinato il caso delle cosiddette "contestazioni a catena", ovvero della contestazione, attraverso successive ordinanze, di fatti di reato diversi, ma gia' configurabili al momento in cui veniva adottato il primo provvedimento; in proposito, ed in adesione alla giurisprudenza anteriore all'emanazione del nuovo c.p.p., si era rilevato che, pur essendo legittima l'emissione, in successione di tempo, di nuovi provvedimenti cautelari volti ad integrare, perfezionare ed aggiornare i termini dell'accusa, questa non puo' incidere sul termine di durata della misura - rimanendo fissato il dies a quo al giorno della esecuzione della prima ordinanza - quando sia dimostrata, da parte dell'imputato. la "colpevole inerzia" dell'autorita' giudiziaria nella verifica degli indizi relativi ai nuovi fatti contestati: quando, cioe', il fatto nuovo era gia' conosciuto, o conoscibile, nei suoi elementi fondamentali al momento della emissione del primo provvedimento, e sarebbe stata giuridicamente possibile e doverosa la contestazione simultanea di tutti i fatti di reato; la Giurisprudenza di legittimita' aveva cosi' precisato che l'emissione di un ulteriore provvedimento restrittivo della liberta' per lo stesso fatto, comunque qualificato, per il quale era gia' stato emesso altro provvedimento a carico del medesimo soggetto, o per fatti gia' acquisiti agli atti al momento della emissione del primo dei provvedimenti restrittivi, determina il fenomeno della cosiddetta "contestazione a catena"; e sostenuto che tale illegittimo modo di procedere comporta, qualora ne siano dimostrati i presupposti, che la decorrenza dei termini di custodia cautelare abbia inizio - e debba, quindi essere calcolata - dal momento in cui e' stato eseguito il primo provvedimento restrittivo della liberta' personale, con la conseguente scarcerazione automatica dell'indagato e dell'imputato qualora, partendo da tale data, risultino superati i termini di durata massima della custodia cautelare previsti per ciascuna fase procedimentale, o quelli massimi (2) , con particolare riguardo all'ipotesi di reati uniti dal vincolo della continuazione la Corte di Cassazione aveva rilevato che in materia di misure cautelari personali, nel caso di pluralita' di fatti criminosi, eventualmente in continuazione tra loro, l'ingiustificata scissione delle diverse contestazioni con emissione "a catena" di successivi provvedimenti cautelari nonostante i fatti contestati fossero noti fin dall'inizio comportava conseguenze identiche a quelle di cui all'art. 297, comma 3 (riproducente lo schema gia' delineato dall'art. 271, comma 3, del codice abrogato), cioe' la decorrenza del termine di custodia cautelare dal giorno dell'esecuzione del primo provvedimento (3); in altre decisioni la Corte di cassazione non ha per contro ravvisato la violazione dell'art. 297 comma 3 c.p.p. ritenendo non sussistente il fenomeno della cosiddetta "contestazione a catena" allorquando si e' in presenza di una pluralita' di fatti criminosi, formanti oggetto di separati provvedimenti restrittivi emessi in successione fra loro, e non vi sono elementi atti ad evidenziare che gli indizi originariamente a disposizione dell'autorita' giudiziaria erano gia' tali da consentire l'emissione di un unico provvedimento (4). gia' sotto la vigenza della precedente disciplina introdotta con il nuovo codice del 1989 si era posto il problema dell'estensione della disciplina di cui si sta trattando alle ipotesi di piu' provvedimenti cautelari emessi per un medesimo fatto e nei confronti della stessa persona, ma nell'ambito di piu' procedimenti distinti, e tale questione era stata risolta nel senso che lo speciale regime di decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all'art. 297 comma 3 c.p.p. si applica solo se le ordinanze sono state emesse nell'ambito di un unico procedimento cumulativo, riferibile all'imputato e pendente davanti allo stesso giudice, mentre le ordinanze custodiali emesse, sia pur in relazione a reati fra loro connessi, ma da Giudici aventi una diversa competenza funzionale o territoriale, conservano autonomi termini di decorrenza iniziale della custodia (5); in questo quadro si e' inserita la citata novella di cui all'art. 12 della legge n. 332 del 1995 che ha sensibilmente mutato la situazione normativa; oltre a prevedere che la "retrodatazione" del conto iniziale della durata dei termini di custodia cautelare si ha non soltanto nei casi di ordinanze relative allo stesso fatto, benche' diversamente circostanziato o qualificato, ma anche nel caso di fatti diversi, quando sussista connessione ai sensi dell'art. 12, lett. b) (concorso formale e continuazione di reati) e lett. c) (limitatamente all'ipotesi di reati commessi per eseguirne altri) e purche' i fatti diversi siano stati commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza, tale norma ha altresi' precisato che la disposizione non si applica quando i fatti diversi non erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per i reati rispetto ai quali sussiste il prescritto rapporto di connessione; verificandosi tale caso si ritorna al regime ordinario di decorrenza dei termini di custodia che, conseguentemente, dovranno essere computati autonomamente per le nuove ordinanze; sulla applicabilita' della disposizione in esame anche nell'ipotesi in cui il fatto connesso sia emerso successivamente alla adozione della prima misura cautelare e' stata sollevata una questione di legittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 3 Cost. (6), nella quale si rileva in particolare che il legislatore ha disciplinato in modo identico situazioni assai divergenti, con la previsione di uno stesso regime di decorrenza della misura sia nell'ipotesi di artificioso ritardo della nuova contestazione cautelare, sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato tempestivo in rapporto al momento in cui il fatto e' stato accertato: in quest'ultima ipotesi, ad avviso del giudice rimettente, si sarebbe verificato un sacrificio ingiustificato di effettive esigenze cautelari, scaturente da una sorta di presunzione che la stessa tardivita' della notizia rispetto a quella sfruttata per la prima contestazione sia espressione di una sottostante volonta' di eludere artificiosamente la disciplina sui termini massimi di durata della custodia cautelare; e si sarebbe altresi' verificata, sempre ad avviso del giudice rimettente, una ingiustificata disparita' di trattamento con riguardo al diverso regime stabilito nelle ipotesi in cui i fatti oggetto della nuova ordinanza cautelare siano accertati prima o dopo il rinvio a giudizio per i fatti connessi che sono stati posti a fondamento della prima ordinanza; (2) Cfr. Cass. 11 marzo 1994, Sena, Cass. pen. 1996, 243; Cass. 1 aprile 1991, Falanga, Cass. pern. 1992, 705; Cass. 14 settembre 1990, Osareme, Giust. pen. 1990, III, p. 732, Arch. Nuova proc. pen. 1991, 285. (3) Cfr. Cass. 23 luglio 1992, Pezzella, C.E.D. Cass., n. 191938. (4) Cfr. Cass. 25 febbraio 1992, Mezzacuocolo, Cass. pen. 1993, 1772. (5) Cfr. Cass. 3 maggio 1996, Manuele, Cass. pen. 1996, 3379. (6) Vedi Tribunale di Milano, 13 settembre 1995, Sarlo, Cass. pen 1995, 3095; la Corte adita - pur affermando che le scelte operate dal legislatore, spinte ben oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimita' in ordine al patologico fenomeno delle cosiddette "contestazioni a catena", possono offrire spazio alle perplessita' ed ai dubbi di coerenza enunciati dal giudice rimettente - ha dichiarato l'infondatezza della questione assumendo che nella disciplina in questione puo' essere rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari, in aderenza a quanto previsto dall'art. 13 ultimo comma della Costituzione, e di impedire la diluizione dei termini in ragione dell'episodico concatenarsi di piu' fattispecie cautelari, e non puo' conseguentemente ritenersi incoerente allo scopo, e quindi priva di ragione, la scelta di individuare alcune ipotesi che, piu' di altre, presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentire una valutazione unitaria ai fini del trattamento cautelare; con la conseguenza che l'individuazione del rinvio a giudizio come momento processuale che traccia la linea di displuvio agli effetti della operativita' della deroga risulta, per un verso, perfettamente simmetrica rispetto al regime che scandisce, nell'art. 303 c.p.p., i termini di durata delle misure in funzione delle diverse fasi processuali e, per altro verso, aderente all'intendimento del legislatore di impedire che, nel corso delle indagini, le contestazioni cautelari plurime per fatti connessi ammettano un diverso trattamento sul piano della durata delle misure a seconda che l'indagato riesca o meno a provare l'artificiosa diluizione nel tempo delle singole ordinanze; pertanto l'opzione legislativa attuata attraverso la novella del 1995, sostanziantesi nell'introduzione di parametri certi e predeterminati, risulterebbe in tale prospettiva del tutto coerente rispetto alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi ed ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla liberta' personale, e cio' con particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari che, trovando la sua principale linea di sviluppo nell'autonomo potere di ricerca della prova spettante al pubblico ministero, finisce per rivelarsi scarsamente permeabile a qualsivoglia azione di controllo successivo sul piano della tempestivita' delle iniziative investigative. Emerge quindi piuttosto chiaramente che, di fronte al nuovo testo dell'art. 297 comma 3 c.p.p., si e' sostanzialmente intravisto un intendimento del legislatore specificamente volto a stabilire - anche nel caso di distinte ordinanze relative a "fatti diversi", limitatamente alle situazioni di connessione qualificata ivi indicate - la regola della comune decorrenza dalla prima ordinanza dei termini di durata delle misure applicate, e cio' senza attribuire alcun peso alla circostanza che, a quell'epoca, tali fatti fossero gia' noti al Pubblico Ministero in tutti i loro elementi rilevanti a livello cautelare, ovvero gli fossero sconosciuti. Peraltro simile impostazione ermeneutica - escludendo qualunque margine di valutazione circa la "tempestivita'" del Pubblico Ministero nel richiedere le misure cautelari successive alla prima, con riferimento ai predetti "fatti diversi" - ha continuato anche dopo la pronuncia della suddetta sentenza di rigetto della Corte costituzionale a suscitare le maggiori riserve circa la congruita', in chiave di ragionevolezza, della regola come sopra desunta dall'art. 297, comma 3 attualmente vigente. Piu' esattamente si e' stigmatizzato il fatto che la novella del 1995, non distinguendo a seconda della "tempestivita'" - ovvero della "intempestivitap - dell'iniziativa del pubblico ministero in ordine alle ordinanze cautelari successive alla prima, ancorche' riferite a "fatti diversi", abbia finito per introdurre una sorta di presunzione assoluta di indebito prolungamento della custodia cautelare, sulla scorta di un meccanismo che non lascia spazio (come avrebbe, invece, suggerito un apprezzato indirizzo giurisprudenziale sviluppatosi in precedenza) ad alcuna verifica circa la sussistenza di una "colpevole inerzia" o di un "artificioso ritardo" da parte del pubblico ministero nel richiedere la misura cautelare per il fatto diverso connesso a quello anteriormente contestato. Ne' d'altro canto si e' ritenuto sufficiente, per respingere tali censure, il richiamo alla esigenza di configurare limiti obiettivi ed ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla liberta' personale - esigenza sulla quale nessuno potrebbe avanzare obiezioni come pure sulla conseguente necessita' che vengano introdotti parametri certi e predeterminati in materia - in quanto tali insopprimibili esigenze risulterebbero gia' soddisfatte dalla previsione di ben definiti termini "intermedi" e "complessivi" di durata delle misure cautelari (e, nella specie, della custodia carceraria) in rapporto alle differenti imputazioni contestate al medesimo imputato. Da qui l'assunto secondo cui la regola codificata nell'art. 297 comma 3 c.p.p., soprattutto nella parte in cui si riferisce ai "fatti diversi", non sarebbe riconducibile ad una esigenza di salvaguardia della obiettivita' ed ineludibilita' dei termini di durata della custodia cautelare posto che, se per un verso e' la stessa Costituzione a imporre la previsione di termini di durata delle misure cautelari (almeno per quanto concerne la custodia carceraria) e, quindi, a presupporre l'inconferenza delle esigenze che dovessero residuare al di la' di un limite temporale certo ed invalicabile, per altro verso il canone della "retrodatazione" della decorrenza dei termimi di custodia risultante dalla norma processuale in questione non presenterebbe alcun rapporto diretto con la previsione costituzionale di cui all'art. 13, comma quinto della Costituzione. In altri termini, si e' rilevato come nell'art. 297, comma 3 c.p.p. risulti sancita una sorta di fictio iuris volta a far decorrere dal medesimo giorno i termini relativi a misure cautelari applicate con provvedimenti distinti, ed in epoche distinte, anche per "fatti diversi" tutte le volte che si e' in presenza di quei presupposti specificamente ed esplicitamente indicati in sede normativa quali la antecedenza di tutti i fatti contestati rispetto alla data di emissione del primo provvedimento e la sussistenza di un rapporto di identita' o di connessione qualificata fra i fatti contestati con le varie ordinanze. Ma si e' altresi' osservato come tale impostazione normativa possa esclusivamente giustificarsi' quale strumento di neutralizzazione dell'indebito utilizzo delle contestazioni c.d. "a catena", quali espedienti di sapore vanificatorio rispetto all'ordinaria disciplina della durata delle misure cautelari, attraverso la distribuzione nel tempo di piu' provvedimenti cautelari per fatti criminosi legati dal vincolo della continuazione o della connessione teleologica ancorche' i singoli episodi delittuosi da contestare fossero tutti noti fin dall'inizio e sulla base di elementi idonei a consentire fin da subito l'emissione del corrispondente provvedimento. E si e' quindi concluso che un meccanismo processuale come quello contenuto nell'art. 297, comma 3 c.p.p. risulti del tutto ragionevole soltanto quando si verifichino queste situazioni di differimento contra legem, collegato ad "inerzie" od a "ritardi", o ad altre improprie dilazioni nell'iniziativa dei pubblico ministero in ordine all'adozione di provvedimenti cautelari tutti immediatamente azionabili; mentre in assenza di tali presupposti fattuali il medesimo meccanismo appaia privo di ragionevolezza in quanto l'alterazione (in chiave di "retrodatazione" del dies a quo di decorrenza) degli ordinari criteri di computo dei termini delle diverse misure, quali risultano dai commi 1 e 2 dell'art. 297 c.p.p. non troverebbe giustificazione nella esigenza di "controbilanciare" il rischio di un surrettizio svuotamento della garanzia rappresentata dalla definizione per legge dei termini massimi di durata delle misure cautelari. Tale orientamento interpretativo si e' definitivamente consolidato attraverso quella pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (Sent. 17 luglio 1997, cc. 25 giugno 1997, ric. Atene, Cass. pen. 1996, m. 1654), poi costantemente seguita in sede di legittimita' (7), che derivava dalla necessita' di comporre un contrasto venutosi a creare sulla effettiva possibilita' di estendere, alla luce della modifica introdotta dalla novella del 1995, il gia' esistente regime derogatorio del principio generale di autonomia delle ordinanza che dispongono una misura cantelare, a situazioni cautelari afferenti a procedimenti "diversi", e che ha optato per la soluzione positiva avallando l'orientamento gia' emerso a seguito dell'entrata in vigore della suddetta novella e coiltrastante con l'indirizzo assolutamente prevalente che si era formato antecedentemente, anche sulla scia di quello consolidatosi sotto la vigenza dell'art. 271, comma 3 c.p.p. 1930 (8). La suddetta pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione e' stato ancorata, sul piano logico sintattico, al rilievo che la regola posta dall'art. 297 comma 3 c.p.p. si applica anche a procedimenti connessi ai sensi dell'art. 12 c.p.p. (nei limiti indicati dalla prima parte della norma stessa) e pertanto necessariamente "diversi", oltreche' all'ulteriore rilievo che la stessa regola vale anche (e sempre con i limiti imposti dal citato comma 3 parte seconda) in relazione a fatti oggetto di procedimento scaturito da una "separazione" di atti a seguito di richiesta di rinvio a giudizio e quindi di un procedimento ancora una volta diverso da quello originario. (7) Cfr., tra le alte, Cass. III, 29 gennaio 1999 (cc. 9 dicembre 1998), Paggian G., rv. 212824; Cass. VI, 15 aprile 1998 (cc. 19 marzo 1998), Ciresi, rv. 211950. (8) Per quanto attiene all'orientamento contrastante con quello assunto dalle Sezioni Unite vedi, per il periodo in cui era ancora vigente il codice abrogato, Cass. sez. I, 2 febbraio 1989, Imparato, Cass. pen., 1990, p. 895, n. 753; Cass. sez. I, 13 dicembre 1988, Sorrentino, ibid., 1990, pag. 104, n. 92; per quanto attiene al periodo successivo all'entrata in vigore dell'attuale codice, cfr. Cass., sez. I, 31 gennaio 1994, Loiero, in Giust. Pen., 1994, III, c. 493; Cass. sez. II, 1 dicembre 1993, Prete, in Riv. Pen., 1995, p. 126; Cass. sez. V, 18 novembre 1992, Defina, Cass. peri., 1994, p. 2496, n. 1561; ed infine, con riferimento al periodo successivo alla entrata in vigore della novella del 1995, cfr. Cass. sez. I, 12 novembre 1996, Rotolo, in C.E.D. Cass., 206344; Cass. sez. V, 15 luglio 1996, Cuzzola, ibid, n. 205877; Cass, sez. I, 3 luglio 1996, Esposito, ibid. n. 205319; Cass. sez. I, 1 maggio 1996, Manuele, ibid., n. 204929 e Cass. pen., 1996, p. 3379, n. 1891. Per quanto attiene invece all'orientamento conforme a quello espresso dalle Sezioni Unite, cfr. Cass. sez. VI, 13 marzo 1997, Comande', in C.E.D. Cass., n. 207161; Cass. sez. VI, 13 gennaio 1997, De Fusco, ibid., n. 207160; Cass. sez. IV, 21 dicembre 1996, Panetta, ibid., n. 206325, Cass. sez. IV, 2 dicembre 1996, Greco, ibid., n. 206321; Cass. sez. IV, 23 settembre 1996, Micheletti, ibid., n. 205574; Cass. sez. V, 26aprile 1996, Cuneo, ibid., n. 204853. Sul piano sistematico il Supremo Collegio ha poi ritenuto non condivisibili quelle sentenze che avevano individuato la ratio dell'attuale art. 297 comma 3 c.p.p. nella necessita' di impedire la artificiosa diluizione nel tempo delle contestazioni, sostenendo che tale ratio deve anzi essere riconsiderata alla luce della riforma del 1995 il cui scopo sarebbe piuttosto quello di contenere entro sicuri spazi il termine di durata massima delle misure cautelari in virtu' di quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 13 Cost., con l'introduzione di paramentri certi e determinati. In altri termini (ed e' questo il punto maggiormente rileva ai fini della presene decisione) le Sezoni unite hanno con detta pronuncia sostanzialmente ribaltato quell'argomento portato a principale sostegno della pronuncia sostanzialmente ribaltato quell'argomento portato a principale sostegno della opposta tesi - e cioe' il riferimento contenuto nell'ultima parte del piu' volte citato comma 3 del l'art. 297 c.p.p. alla "desumibilita' dagli atti" delle circostanze su cui vengono fondate le ulteriori ordinanze cautelari, indice eloquente del fatto che deve essere la stessa autorita' ad emettere anche queste ultime, nell'ambito di un medesimo procedimento - utilizzando proprio tale riferimento alla "desumibilita' degli atti" non gia' come spia del criterio ispiratore della norma, ma quale fondamentale e oggettivo parametro al quale ancorare, al di la' di valutazioni di tipo soggettivistico, l'operativita' dell'istituto (9). Ritiene il Collegio che il criterio della "desumibilita' dagli atti", concretamente ed efficacemente adottabile in un contesto processuale quale quello esplicitamente delineato nell'ultima parte del comma 3 dell'art. 278 c.p.p., e cioe' con riferimento all'intervenuta conclusione delle indagini preliminari relative al fatto, od ai fatti, costituenti oggetto della originaria contestazione cautelare (vertendosi, in tale ipotesi, in una situazione processuale ormai cristallizzata ed integralmente conoscibile dalle parti, e per cio' stesso obiettivamente ed organicamente controllabile nelle sue implicazioni di ordine indiziario), comporti, per contro, obiettive ed insuperabili difficolta' ove rapportato ad una situazione processuale in divenire, non integralmente conoscibile dalle parti ed essenzialmente sottoposta, per quanto attiene alle possibili implicazioni di ordine indiziario, ad una insindacabile valutazione dell'organo inquirente, unico dominus delle scelte investigative di segno accusatorio concretamente prospettabili. La desumibilita' dagli atti di ipotesi delittuose distinte ed ulteriori rispetto a quelle per cui si sta procedendo costituisce infatti, in molti casi, il frutto di una elaborazione logico deduttiva svolta dall'Organo inquirente sulla base di una valutazione squisitamente soggettiva e non efficacemente apprezzabile a posteriori in termini di obiettiva ed inoppugnabile evidenza; bastera' in proposito considerare quei casi in cui l'ipotesi delittuosa destinata a divenire ulteriore titolo custodiale abbia ad oggetto - come nel caso di specie - fattispecie complesse, quali i reati associativi, la cui integrazione, quanto meno nella fase di iniziale impulso della azione penale, deve necessariamente passare attraverso una delibazione di circostanze meramente "sintomatiche", costituente appannaggio esclusivo dell'Organo inquirente; bastera' altresi' considerare le non meno problematiche ipotesi delittuose fondate non gia' su risultanze d'indagine certe e definite, ma su dichiarazioni testimoniali o, ancor peggio, su chiamate in correita', la cui rilevanza indiziaria passa necessariamente attraverso una valutazione del tutto autonoma ed insindacabile dello stesso organo inquirente e la cui concludenza, ai fini della formulazione di un giudizio di "conoscibilita'" dei fatti di reato eventualmente prospettabili, non sempre risulta obiettivamente ed inoppugnabilmente individuabile a posteriori (si pensi in proposito, e sempre a titolo meramente esemplificativo, alla prospettazione di condotte fraudolente poste in essere dalla persona indagata, la cui effettiva portata decettiva puo' essere efficacemente vagliata soltanto previo espletamento di complesse ed articolate verifiche istruttorie). (9) Cfr. Cass. Sezioni Unite 25 giugno 1997 cit., paragrafo 8: "Quanto ai dubbi manifestati in ordine a/dato temporale, al quale riferire la "desumibilita' dagli atti", va detto che, come essa, affini dell'applicazione del disposto di cui al secondo periodo del comma 3, deve farsi risalire ad epoca anteriore al "disposto" rinvio a giudizio - che segna il termine massimo di fase ai sensi dell'art 303 comma 1 lett. h) - cosi' la "desumibilita' dagli atti" di cui a/primo periodo della citata norma deve essere riferita ad epoca anteriore all'emissione della prima ordinanza caute/ape. Altrimenti verrebbe meno la ratio dell'intera disposizione; ed il tutto risulterebbe davvero affidato ad un paradossale ed irragionevole automatismo. D'altra parte, e sempre in linea con il dato letterale e con il significato complessivo della norma rispetto alla sua finalita' appare evidente che le situazioni apprezzabili come presupposti per l'emissione delle successive ordinanze, la cui efficacia va retrodatata, debbano avere caratteristiche e consistenza tali da legittimare l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca della prima ordinanza. Non e' sufficiente, pertanto, che entro i limiti temporali di cui al primo ed al secondo periodo del comma 3 dell'art. 297, sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia del fatto reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca dell'emissione della prima ordinanza (ovvero dall epoca del rinvio a giudizio: art. 297 comma 3, ult. parte, c.p.p.). Senza poi contare che l'impiego del suddetto criterio normativo diviene ancor piu' complesso ove si consideri, in conformita' a quanto costantemente affermato dalla Suprema Corte ed esplicitamente ribadito nella piu' volte citata pronuncia delle Sezioni Unite, che non e' sufficiente che, entro i limiti temporali di cui al primo ed ai secondo periodo del comma 3 dell'art. 297, sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia o il fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca dell'emissione della prima ordinanza (ovvero dall'epoca del rinvio a giudizio: art. 297 comma 3, ult. parte, cp.p.). Se per un verso, infatti, e' incontestabile che la pura e semplice sussunzione dei fatti di cui si e' venuti a conoscenza in sede inquirente entro l'alveo di una determinata norma incriminatrice puo' presentare, in taluni casi, problematiche non indifferenti ed implicare complesse valutazioni non facilmente apprezzabili "con il senno di poi" in termini di obiettiva ed incontrovertibile evidenza, per altro verso e' altrettanto certo che la delibazione in ordine alla gravita' e concludenza delle risultanze indiziarie raccolte in ordine a detta ipotesi di reato sconta, quanto meno nella delicata fase di impulso del procedimento cautelare disciplinata dall'art. 291 c.p.p., un larghissimo margine di autonomia operativa e valutativa dell'organo inquirente, concesso non soltanto sul terreno dei presupporti di ordine prettamente socialpreventivo delle misure cautelari (del tutto irrilevanti ai fini della determinazione dei limiti temporali di cui si sta trattando), ma anche e soprattutto sul piano della effettiva concludenza e gravita' delle risultanze di indagine raccolte e sulla possibilita' ed opportunita' di procedere ad integrazione delle stesse; un margine di autonomia che, comunque venga utilizzato, pone grossi ostacoli all'accertamento della effettiva "conoscibilita'", soprattutto in quella piu' ampia ed articolata accezione tracciata dalla giurisprudenza di legittimita'. Bastera' in proposito considerare, ancora una volta, che la valutazione richiesta all'organo giurisdizionale di controllo, sia esso il giudice procedente o il Tribunale del riesame, verte non gia' sulla "desumibilita'" all'interno di un contesto istruttorio gia' cristallizzato e conoscibile dalle parti - quale puo' essere l'insieme degli atti depositati ai sensi dell'art. 415, od il fascicolo processuale presentato ai sensi dell'art. 291 c.p.p. - obiettivamente ed organicamente controllabile nelle sue implicazioni di ordine indiziario, ma nell'ambito di un contesto processuale "in divenire", le cui implicazioni indiziarie, indissolubilmente collegate alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si prestano a qualsivoglia controllo successivo. Non solo, ma la situazione tende inevitabilmente a complicarsi, quanto meno ai fini della determinazione dei limiti temporali che qui interessano, ove gli elementi indiziari destinati a sostanziare quel livello di qualificata probabilita' dell'ipotesi accusatoria oggetto delle ordinanze cautelari successive debbano essere desunti da fonti conoscitive cormotate da particolare complessita', la cui valutazione da parte dell'organo inquirente componi un lungo lavoro di interpretazione ed analisi (si considerino, per tutte, le consulenze tecnico contabili disposte in sede di accertamento di reati fiscali o di reati in materia di diritto penale commerciale), ed in ordine alle quali ben difficilmente puo' essere individuato a priori un preciso termine a partire dal quale si concretizza una situazione di effettiva ed inoppugnabile "desumibilita' dagli atti" a meno di voler fare sempre retroagire - con una astrazione del tutto difforme dalla realta' di fatto - tale termine al momento in cui le fonti informative sono pervenute all' inquirente. Ritiene pertanto il Collegio che la interpretazione sopra richiamata sembra discostarsi nettamente dall'orientamento ermeneutico accolto dalla Corte costituzionale nella sentenza 28 marzo 1996 n. 89(10) e che, d'altro canto, (10) Secondo cui nel nucleo della disciplina in questione puo' essere agevolmente rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari in perfetta aderenza con quanto previsto dall'art. 13, ultimo comma della Carta fondamentale, e se, dunque la "causa" delle norma e' quella di impedire la diluizione dei termini in ragione dell'episodico concatenarsi di piu' fattispecie cautelari, non puo' certo ritenersi incoerente allo scopo e, dunque, priva di ragione, la scelta di individuare alcune ipotesi che, piu' di altre, presentino elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare. Allo stesso modo, una volta individuata la regola, non puo' neppure dirsi eterodossa rispetto ai fini perseguiti la "causa" che sostiene la deroga introdotta nel secondo periodo del comma 3 dell'art. 297 c.p.p. la quale esclude l'applicabilita' del principio della retrodatazione dei termini in relazione alle ordinanze per fatti "nuovi" che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva contestazione, emergono soltanto dopo il rinvio giudizio per il fatto cui si riferisce l'originaria ordinanza cautelare. La individuazione del rinvio a giudizio come momento processuale che traccia la linea di displuvio agli effetti della operativita' della deroga, appare, infatti da un lato perfettamente simmetrica rispetto al regime che scandisce, nell'art. 303 c.p.p., i termini massimi di durata della misure in funzione delle diverse fasi processuali e, dall'altro aderente all'intendimento del legislatore di impedire che, nel corso delle indagini, le contestazion cautelari plurirme per fatti connessi ammettono un diverso trattamento sul piano della durata delle misura a seconda che l'indagato riesca o meno a provare l'artificiosa diluizione nel tempo delle singoli ordinanze. L'introduzione di parametri certi e predeterminati, quindi, lungi dall'assumere connotazioni di arbitrarieta', si appalesa nella specie come opzione rispetto alla avertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla liberta' personale e cio' con particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestivita' delle relative acquiszioni. l'attribuire alla norma in esame un implicito richiamo - anche fuori dei casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di piu' remota contestazione - alla tardivita' della contestazione cautelare piu' recente quale presupposto imprescindibile per la retrodatazione dei termini di durata massima della misura comporta, in assenza di parametri normativamente predeterminati, una situazione di incertezza in ordine alla data di decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate successivamente per fatti in rapporto di connessione gualificata rispetto a quelli di piu' remota contestazione, con conseguente indeterminatezza della durata complessiva delle misure stesse. Una simile impostazione normativa sembra infatti porsi in netto contrasto con il dettato dell'art. 13 ultimo comma della Carta costituzionale che, nel riservare alla legge la determinazione dei limiti massimi della carcerazione preventiva, demanda al legislatore non soltanto la scelta dei criteri di computo della durata massima della custodia cautelare, ma anche la impostazione di tali criteri secondo schemi operativi atti a precludere qualsivoglia margine di incertezza e discrezionalita' in sede applicativa, sgombrando il campo da scomode e pericolose interferenze con ambiti endoprocedimentali governati da scelte discrezionali di taluna delle parti ed ancorande gli ambiti di decorrenza ad eventi endoprocessuali assolutamente certi ed obiettivi. Alla luce delle circostanze sommariamente enunciate ritiene il Collegio sussistere la condizione di rilevanza cui la legge subordina l'eccezione di legittimita' costituzionale posto che, in applicazione della legge vigente cosi come sopra interpretata non dovrebbe essere riconosciuta ex art. 303 c.p.p. l'inefficacia sopravvenuta della misura cautelare in corso di esecuzione.