IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    Visti gli atti relativi all'espulsione dal territorio dello Stato
ai  sensi e per gli effetti di cui all'art. 16, d.l. n. 286/1998 come
modificato  dall'art. 15  legge  189/2002  nei  confronti  di: Hricha
Mohamed, nato in Marocco il 2 luglio 1973, in atto detenuto presso la
Casa   Circondariale  di  Alessandria,  in  espiazione  pena  di  cui
all'ordine  di  esecuzione  della  Procura  generale di Torino del 19
aprile 2001 (sentenza 29 marzo 2000 Corte appello Torino).
    1. - Il procedimento. Risulta dall'istruttoria compiuta e in atti
che  Hricha  Mohamed:  a) e' condannato a pena detentiva nella misura
residua inferiore a due anni; b) e' condannato per delitto diverso da
quelli  contemplati dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di
procedura  penale,  ovvero dai delitti previsti dal testo unico delle
leggi  sull'immigrazione  (d'ora  innanzi,  t.u.);  c) si trova nelle
condizioni  di  cui  all'art. 13, comma 2 t.u.; d) e' di nazionalita'
marocchina,  assunte  le  rituali  informazioni  circa nazionalita' e
identita' presso la questura competente; e) non versa in alcuna delle
condizioni ostative di cui all'art. 19, t.u.
    Non vi e' pertanto dubbio circa il fatto che si renda allo stesso
applicabile  quanto  prescritto  dall'art. 16, commi 5 e seguenti del
t.u., cosi' come modificato dalla legge n. 189/2002.
    Nell'applicazione  di  tale norma sorge il dubbio di legittimita'
costituzionale sotto i seguenti profili e per i seguenti motivi.
    2. - I  parametri violati e i profili della assunta violazione. I
precetti   costituzionali   interessati   dalla  odierna  fattispecie
appaiono  quelli  degli  artt. 27,  Cost.,  anche in rapporto con gli
artt. 3 e 2, Cost., nel senso che si specifichera' a breve.
    Come  noto,  l'art. 27 connota la pena del fine rieducativo. Tale
fine rieducativo e', evidentemente, immanente e necessario nella pena
(ancorche'   non   esclusivo),   come   riconosciuto  dalla  costante
giurisprudenza costituzionale e dalla stessa inequivoca lettera della
disposizione in esame. L'uso del verbo "tendere" serve a chiarire che
si  tratta  di  finalita'  imposta al legislatore, ma non consente di
affermare  che  tale  finalita' possa essere solo eventuale. Le norme
che   disciplinano  la  pena  debbono  pertanto  avere  anche  questo
indefettibile scopo.
    In  cio'  e'  fermo l'insegnamento della Corte cost. che ha cosi'
sancito:  "la  finalita'  rieducativa  della  pena  e' una proprieta'
essenziale che caratterizza quest'ultima nel suo contenuto ontologico
e  l'accompagna  da quando nasce, nell'astratta previsione normativa,
fino  a quando in concreto si estingue" (ex plurimis v. sent. 313 del
1990).
    Posto  questo  primo  caposaldo  pacifico, deve osservarsi che la
misura  della  espulsione  dal  territorio  dello Stato e' certamente
priva   di   contenuto   e   finalita'   rieducativa.   Il   semplice
allontanamento dal territorio nazionale non ha, sotto nessun profilo,
ne'  una  certificata  idoneita'  ne'  una  finalita' di concorrere a
rimuovere   i   fattori   criminogeni   nel   reo.  Tale  profilo  e'
assolutamente  evidente. Esso risulta, all'evidenza, dalla disciplina
della   espulsione   (che  non  la  accompagna  di  alcun  contenuto,
prescrittivo, di supporto e simili, a differenza di quanto accade per
la  pena,  sia  nella  forma  detentiva  che  in quella alternativa).
Certamente   essa   non   puo',  per  tali  ragioni,  ontologicamente
assimilarsi  ne'  a una pena, ne' a una misura alternativa. Non e' un
caso,  in  proposito,  che  il nomen juris prescelto dal legislatore,
volutamente  ambiguo,  sia quello di sanzione. Ma cio' e' anche stato
riconosciuto    costantemente   dalla   stessa   dottrina   e   Corte
costituzionale  (ex  plurimis  nella  sentenza  n. 62  del  1994) che
riconosce nella espulsione una sospensione della pena, una temporanea
rinuncia dello Stato ad applicarla (tra l'altro, proprio per salvarne
la legittimita' costituzionale sotto i profili in esame).
    Poste  queste  due  premesse, parrebbe addirittura necessitata la
conclusione  circa  l'illegittimita'  costituzionale della espulsione
del condannato definitivo, prima della fine della pena. Cosi' non e',
perche', sul piano logico, due potrebbero essere i motivi di salvezza
costituzionale  dell'istituto,  tali  che,  non  ostante l'assenza di
finalita' rieducativa, essa potrebbe giustificarsi.
    Il  primo possibile motivo di giustificazione e' nel ritenere che
il  principio di rieducazione non abbia una portata generalizzata, ma
sia  solo  limitato  alle  persone  che hanno titolo di permanenza in
Italia.  Il  secondo  e' che il principio di rieducazione, di portata
generale,  sia  immanente  alla  pena, ma non venga in considerazione
quando   il   legislatore,   nell'esercizio   ragionevole  della  sua
discrezionalita', sospenda la pena medesima.
    Circa  la prima giustificazione, e' sufficiente osservare che, in
primo  luogo,  essa  non sarebbe del tutto coerente con la disciplina
dell'espulsione.  Infatti,  se  la  finalita' rieducativa non dovesse
concernere le persone abusivamente sul territorio dello Stato, non si
vede  perche' l'espulsione sarebbe limitata, in relazione all'entita'
della  pena  e  al titolo di reato. Come sia di questo, in ogni caso,
deve  osservarsi:  a)  che  l'art. 27,  comma  2,  non contiene alcun
elemento  che  consenta  di  limitarne  la  portata  (e'  vero che e'
inserito  nella  parte  relativa a diritti e doveri dei cittadini, ma
nessuno  ha mai dubitato che la portata dei suoi principi, cosi' come
di  quelli  degli altri commi, o degli altri articoli collocati nella
stessa  parte  e  titolo,  abbiano  portata  generalissima);  b) tale
generale  portata  e'  stata  sempre  riconosciuta, implicitamente ma
univocamente,  da  tutta  la  giurisprudenza costituzionale che si e'
occupata  della  materia  (cfr.  tra  le  altre, Corte cost. sentenza
n. 283/1994,  ordinanza  n. 401/1994, ordinanza n. 174/1994, sentenza
n. 129/1995,  sentenza  n. 62/1994,  ordinanza  n. 72/1994, ordinanza
n. 106/1995),    anche    atteso   il   carattere   inaccettabilmente
discriminatorio della soluzione opposta.
    Circa   la   seconda   giustificazione   (irrilevante   il   fine
rieducativo, se la pena e' sospesa), vale la pena di sottolineare che
si  tratta  del fondamento della ritenuta legittimita' costituzionale
del   sistema   della   espulsione,   come  disciplinata  nel  regime
previgente,  tenuta  ferma dalla giurisprudenza costituzionale appena
citata.
    Per  esaminare  se  cio' comporti la manifesta infondatezza della
questione  di  legittimita'  costituzionale  (che,  in  pratica,  non
sarebbe  nuova)  si  tratta  di  verificare la esportabilita' di tale
giustificazione alla attuale disciplina della espulsione.
    Tale  operazione  non  puo' prescindere dalla esegesi del tessuto
argomentativo  seguito  dall'Autorevolissima  Corte  delle  leggi. La
questione  si  trova  sviscerata  con  grande chiarezza e completezza
essenzialmente nelle decisioni n. 283 e, soprattutto, 62 del 1994.
    L'iter logico del giudice costituzionale e' cosi' scandito:
        a)  il  principio di rieducazione non viene in considerazione
per  misure  che,  come l'espulsione, determinino la non applicazione
della pena, la sua semplice sospensione;
        b)  si  tratta,  allora,  di  sindacare la legittimita' della
rinuncia  del  legislatore  alla attuale applicazione della pena, nei
limiti   ristretti   della   manifesta  irrazionalita'  delle  scelte
legislative;
        c)  in  tale  sindacato  rileva, in primo luogo, che si possa
formulare  una  ragionevole  presunzione, anche di fonte legislativa,
circa  il  fatto  che  la  parte  di  pena  espiata (nel caso di pena
residua)  abbia  gia'  raggiunto  la finalita' rieducativa che gli e'
propria  (sentenza  62/1994 al punto 5 dei motivi di diritto), ovvero
che  tale finalita' non e' necessaria (nel caso di pena non iniziata,
caso non pertinente in questa sede);
        d)  ai  fini  di  tale  presunzione non e' irrilevante che il
giudice  sia  chiamato  a  decidere  "acquisite le informazioni degli
organi  di  polizia,  accertato  il  possesso  del  passaporto  o  di
documento  equipollente,  sentito  il  pubblico  ministero e le altre
parti" (ibidem);
        e)   la   iniziativa   del   condannato,   volta  a  ottenere
l'espulsione,  sarebbe  la garanzia che raccorderebbe l'espulsione al
necessario rispetto "di un diritto inviolabile dell'uomo" (ibidem).
    Si  tratta  allora  di  verificare  se  tutti  i  passaggi appena
descritti  siano rispettati nel regime previsto dall'art. 16, commi 5
e seguenti t.u., nella formulazione attuale.
    Invariati  appaiono  i  presupposti  di  cui ai punti a) e b) che
precedono.
    Profondamente  critico appare invece quanto sub c) e d). Infatti,
e  in  primo  luogo,  deve osservarsi che la presunzione sottesa alla
norma  qui  in esame ha carattere assoluto. Sussistenti i presupposti
descritti,  l'espulsione  e' automatica. Cio' crea perplessita' sotto
diversi  aspetti.  E',  innanzitutto, assai dubbia la legittimita' di
presunzioni  che non ammettano la prova contraria, nei casi in cui il
fatto  presunto  (nella specie, che la finalita' rieducativa e' stata
raggiunta)  non sia di verificazione necessaria, sicura, immancabile.
Cosi'  ha  insegnato,  infatti,  la Corte delle leggi, sia pure nella
diversa  materia  tributaria  (nella  quale  peraltro il nucleo delle
garanzie  non  puo'  ritenersi  superiore  a  quello  della  liberta'
personale): "se e' pur lecito formulare previsioni logicamente valide
e attendibili, non e' peraltro consentito trasformare tali previsioni
in  certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilita'
che  si  ammetta la prova del contrario" (Corte cost. 28 luglio 1976,
n. 200). Nella specie, invece, sotto i due anni di pena e in presenza
dei requisiti formali prescritti, l'espulsione e' de jure.
    Come  che  sia  di  cio',  vale la pena di osservare che, in ogni
caso,  il  fatto  presunto (la non necessita' di rieducazione), oltre
che  non  assolutamente  certo, non e' neppure probabile. Non si vede
perche' il solo fatto che la pena sia inferiore al limite di legge (2
anni)   dovrebbe   fondare   tale   presunzione.   Cio'   e',   anzi,
manifestamente   irragionevole   almeno   sotto  due  altri  profili.
Innanzitutto,   perche'  verificatasi  la  condizione  di  legge,  fa
presumere  la  non necessita' di attivita' rieducativa per situazioni
completamente  diverse  (equiparando  irragionevolmente,  per fare un
esempio,  situazioni  quali  quella del detenuto che abbia tenuto una
condotta    penitenziaria   pessima,   rifiutando   ogni   intervento
rieducativo e quella, opposta, di chi abbia effettivamente completato
tutto  il  percorso  rieducativo,  magari  anche con l'ottenimento di
benefici  penitenziari,  previsti dall'ordinamento penitenziario). In
secondo   luogo  perche',  manifestamente,  discrimina  tra  soggetti
legittimati  a  rimanere  in Italia e non legittimati, anticipando il
momento  in  cui non sarebbe piu' necessaria l'attivita' rieducativa,
nei  confronti dei soggetti clandestini (come se la risocializzazione
fosse per definizione piu' rapida per questi ultimi). Inoltre (e cio'
rafforza  la  conclusione  predetta)  non  e'  dato  alcun  potere di
valutazione  del  percorso  rieducativo  svolto  dal condannato (o di
altri  elementi),  in  manifesta  frizione  con  quanto imposto dalla
giurisprudenza  costituzionale  e  ribadito sopra sub d). Oltre a non
essere  fondata la disciplina in esame su valori rieducativi, non e',
in  altre  parole, lasciato alcuno spazio per la concreta valutazione
di  tali  aspetti in sede di applicazione. Nell'attuale sistema e' si
prevista  l'acquisizione  di  informazioni,  ma  non e' finalizzata a
valutazioni   sul  percorso  rieducativo  (ma  solo  all'accertamento
dell'identita'  e  nazionalita'  e  al  riscontro  di eventuali cause
ostative) o a valutazioni sulla persona e l'individuo.
    Non  valorizzabile  e' poi la circostanza che la disciplina della
espulsione  si  collochi  nel  contesto  ordinamentale che ne prevede
altre  forme, posto che o si tratta di forme che non collidono con il
principio  di rieducazione (quelle da disporsi a fine pena) ovvero di
forme  che  potrebbero  essere di legittimita' costituzionale dubbia,
sotto  il  profilo  che qui interessa (ma non sono, all'evidenza, qui
rilevanti).
    Infine,  e  cio'  rileva  potenzialmente  con riguardo all'art. 2
Cost. secondo quanto rilevato dalla Corte costituzionale nell'arresto
n. 62  del  1994,  non e' condizionata l'espulsione alla volonta' del
soggetto.  In tutto quanto precede sta l'esposizione dei motivi per i
quali  il dubbio di legittimita' costituzionale delle disposizioni di
cui  ai  commi  5  e seguenti dell'art. 16 t.u., come riformato dalla
legge n. 189/2002.
    Poiche'  si  tratta  dell'insieme di norme sulla cui applicazione
verte    il    presente    procedimento    (finalizzato   esattamente
all'espulsione del condannato dallo Stato ai sensi di tali precetti),
la   questione  e'  evidentemente  rilevante  ai  fini  del  presente
giudizio,   non   potendo   essere   questo   definito   se  non  con
l'applicazione di esse.
    Il  procedimento  deve  pertanto  sospendersi  e  gli atti essere
inviati alla Corte costituzionale.