IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza. Il Tribunale ha il dubbio che gli artt. 195 c.p.p., come modificato dall'art. 4, legge 1 marzo 2001, n. 63, recante "Modifiche al codice penale e di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione", e 500 c.p.p, come modificato dall'art. 16, legge 1 marzo 2001, n. 63, siano in contrasto con la Costituzione, per le ragioni che ci si accinge ad illustrare. Va premesso che la questione sulla legittimita' costituzionale dell'art. 195, quarto comma, c.p.p. e' nel presente processo (n. 169/97 R.G. Trib. Potenza a carico di Perrotti Vincenzo ed altri) concreta e rilevante, perche' il giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa: facendo applicazione di tale norma, infatti, il tribunale non dovrebbe consentire al teste maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Anobile, la cui escussione e' in corso all'odierna udienza e che e' indicato nella lista testimoniale regolarmente depositata ed autorizzata come persona in grado di riferire anche sulle dichiarazioni ritualmente rese nella fase delle indagini preliminari al p.m. o, su sua delega, alla p.g., di riferire le dichiarazioni rese da persone informate sui fatti nel corso delle indagini preliminari e regolarmente verbalizzate. Anche ove riferite, tali affermazioni non potrebbero avere alcun valore, alla luce del canone generale posto dall'art. 191 c.p.p., secondo il quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate e la inutilizzabilita' e' rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento. La norma della cui conformita' alla Carta fondamentale si dubita, infatti, recita: "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b)". La questione, inoltre, non e' manifestamente infondata, per i seguenti motivi. Le disposizioni costituzionali violate dall'art. 195, quarto comma, c.p.p. sono le seguenti: artt. 2, 3, 24, 25, 97, 101, 111, 112. Da esse, considerate sia in se' che valutate complessivamente e nelle reciproche interferenze, si traggono i seguenti valori di rango super-legislativo: eguaglianza tra le persone, formale e sostanziale (art. 3); ragionevolezza delle previsioni legislative (art. 3); diritto di difesa, nell'accezione di difesa non solo dell'imputato ma anche delle persone offese dei reati (art. 24); diritto alla sicurezza dei consociati e correlativo dovere per lo Stato di mantenere la pace tra di essi, dovere cui e' strumentale la repressione dei reati, la ricerca dei responsabili e l'accertamento giusto e rapido della responsabilita' penale degli imputati colpevoli e della innocenza di quelli incolpevoli (artt. 2, 3, 25, 97, 111 e 112); principio della non dispersione dei mezzi di prova nell'interesse della giustizia e della ricerca nel processo penale della verita' storica e non gia' di quella meramente processuale (artt. 3, 24, 25, 97, 101, 111 e 112); principio della parita' tra accusa e difesa (artt. 3, 24, 111 e 112). Valori costituzionali che non sono rispettati dalla previsione dell'art. 195 c.p.p., come recentemente modificato dal legislatore. Tale disposizione prevede in primo luogo che la testimonianza indiretta e' ammessa, purche' il teste indichi la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame (primo e settimo comma); la persona-fonte deve essere chiamata a deporre a richiesta di parte ovvero puo' essere convocata d'ufficio (primo e secondo comma). Se, nonostante la richiesta della parte, le persone indicate non sono state esaminate, la testimonianza indiretta non puo' essere utilizzata, salvo che l'esame delle persone stesse risulti impossibile per morte, infermita' o irreperibilita' (comma 3). Il comma 4, sostituito dall'art. 4, legge 1 marzo 2001, n. 63, vieta poi la testimonianza indiretta degli ufficiali di polizia giudiziaria sulle dichiarazioni loro rese dalle persone informate sui fatti e verbalizzate con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b): "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo". La eccezione posta dal comma 4, dell'art. 195, c.p.p, alla generale disciplina dell'art. 195 e alla capacita' di testimoniare appartenente ad ogni persona (art. 196, primo comma, c.p.p., espressione dell'art. 3 della Costituzione) e', ad avviso del tribunale, sfornita di qualsiasi ragionevole giustificazione. Posto infatti che il legislatore esclude qualsiasi ipotesi di incompatibilita' a testimoniare della polizia giudiziaria (v. art. 197 c.p.p. sia nella versione previgente che in quella introdotta dall'art. 5, legge 1 marzo 2001, n. 63), a meno che l'appartenente alla stessa abbia svolto le funzioni di ausiliario del pubblico ministero (art. 197, primo comma, lett. d), c.p.p.); posto altresi' che il diritto vivente comunque considera l'ipotesi di cui alla lett. d) dell'art. 197, 1o comma, non come una incompatibilita' assoluta a testimoniare ma solo come un divieto di deporre su circostanze e fatti appresi nelle funzioni ausiliarie e non anche sull'attivita' svolta in qualita' di ufficiale di polizia giudiziaria nello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali, al di fuor quindi dell'assistenza prestata al singolo atto del magistrato (v., per tutte, Cass., Sez. IV, 23 novembre 2000, rel. Marzano, ric. Bougamni, in Guida Dir., 2000, n. 15, p. 88); ne discende che non si comprende affatto perche' agli appartenenti alla p.g. debba essere inibita quella particolare forma di testimonianza, che e' la testimonianza indiretta, naturalmente entro i limiti e con le garanzie di cui all'art. 195 c.p.p. Si consideri infatti quanto segue. 1) Come gia' sostenuto dalla Consulta nella parte motiva della sentenza n. 24 del 1992, infatti, "non si puo' certo sostenere, nemmeno in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia giudiziaria siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune; a prescindere dalla palese assurdita' di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione che la legge attribuisce alla polizia giudiziaria (v. l'art. 55 e il titolo IV del libro V del codice di procedura penale)", polizia giudiziaria che, si consideri, dipende funzionalmente dal pubblico ministero (artt. 109 Cost. e 55, 56, 58, 59, 326, 327, 347, 348 c.p.p.), il quale, anche abbandonata la risalente definizione di "parte imparziale", e' certamente magistrato in posizione di indipendenza e promotore pubblico di giustizia (cfr. sul punto le sentenze nn. 88 del 1991 e 111 del 1993 della Corte costituzionale) ed infatti ha il dovere di svolgere "accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini" (art. 358 c.p.p.), "veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia" (art. 73, primo comma, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), tanto che puo' sempre "proporre ricorso per cassazione nell'interesse della legge" (art. 77, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12). 2) "Ne' puo' ritenersi che proprio dall'attivita' svolta nella fase delle indagini preliminari derivi una ragionevole giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui si discute. Si e' gia' osservato che, se si trattasse di una incompatibilita' di tale natura, essa avrebbe dovuto trovare esplicita collocazione nell'art. 197 c.p.p., dove non ne e' traccia" - gia' ha ritenuto la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 24 del 1992 -. Tale rilievo e' rafforzato dalla constatazione che nemmeno nel novellato art. 197 c.p.p. (ad opera della legge 1 marzo 2001, n. 63) vi e' traccia di una siffatta incompatibilita' a deporre. 3) Ed ancora, "la palese irragionevolezza della norma impugnata viene ancor piu' chiaramente in luce ove si consideri che [...] possono verificarsi casi in cui la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria che ha operato nell'immediatezza venga ad essere addirittura fondamentale per l'accertamento dei fatti, quando l'esame dei testimoni-fonte obbligatoriamente indicati sia impossibile per morte, infermita' o irreperibilita' (art. 195, comma 3): tali ipotesi [...] possono, del resto, riguardare anche la difesa dell'imputato" (Corte cost., sent. n. 24 del 1992). Ed e' ancora piu' evidente che la richiamata previsione posta dall'art. 195, terzo comma, c.p.p. conferma che il divieto in esame non concreta un'ipotesi di incompatibilita' a testimoniare. 4) "Ne' si potrebbe obiettare [sempre ad avviso della Corte costituzionale nella parte motiva della sentenza n. 24 del 1992] che il divieto di testimonianza indiretta nei confronti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria trovi un'adeguata giustificazione nei principi generali che informano il nuovo processo penale. Il metodo orale (art. 2, n. 2, legge delega) costituisce certamente uno dei principi informatori del codice vigente, ed in base ad esso il convincimento del giudice deve essenzialmente formarsi sulla base delle prove che si assumono al dibattimento nella pienezza dei contraddittorio. Ma con tale principio non solo non contrasta ma anzi si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti attraverso dichiarazioni loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi nei modi e nelle forme rigorosamente prescritti dell'esame diretto e del controesame [...] L'oralita' della prova e' fuori discussione, mentre il diritto di difesa e' comunque tutelato attraverso l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone". Si potrebbe, ancora, sostenere che gli appartenenti alla p.g. hanno una posizione istituzionale che li potrebbe portare, per cosi' dire, a "parteggiare" naturalmente, sia pure in buona fede, per la tesi sostenuta dalla pubblica accusa. Il che non toglie che essi hanno come tutti - ed anzi piu' di tutti proprio per la loro qualifica - il dovere, penalmente assistito da sanzioni certo non risibili, di deporre secondo verita' e che le loro dichiarazioni, e specialmente quelle de relato, non soltanto non sono assistite da alcuna fede privilegiata ma debbono essere sottoposte ad attento vaglio di credibilita' da parte del giudice, alla pari di quelle rese da qualsiasi testimone, affinche' su di esse possa fondarsi un giudizio di penale responsabilita'. Per tutte le ragioni esposte, e comunque per tutte quelle gia' poste a fondamento della sentenza della Consulta n. 24 del 1992, da ritenersi integralmente richiamate in questa sede, si chiede alla Corte costituzionale di dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art. 195, quarto comma, c.p.p., per evidente contrasto coi canoni sopra richiamati. Potrebbe, ancora, obiettarsi che, rispetto alla citata pronunzia del 1992, e' mutato il quadro giuridico di riferimento, essendo intervenuta la importante modifica costituzionale consistente nel novellato testo dell'art. 111 (legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999). L'obiezione pero' sarebbe priva di fondamento perche' il principio secondo il quale "il processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova" non implica affatto - ne' puo' implicare - il divieto per l'appartenente alla p.g. di porre in essere dichiarazioni de relato: nel vigente assetto processuale, infatti, la prova viene assunta in udienza, innanzi a giudice terzo, imparziale ed all'oscuro degli atti delle investigazioni preliminari, attraverso l'esame ed il controesame condotto delle parti, ciascuna delle quali ha il diritto di chiedere al giudice, privo di discrezionalita' in merito, di convocare il testimone-fonte (art. 195, primo comma, c.p.p.) e di chiedergli ogni chiarimento necessario per comprendere appieno i fatti di causa e dimostrare, eventualmente, la sua inattendibilita'. Si noti ancora che la disposizione ex art. 195, primo comma, c.p.p. e' rafforzata dalla previsione della inutilizzabilita' della testimonianza indiretta nel caso di inosservanza delle disposizioni previste (art. 195, terzo comma, c.p.p.). Sussistono evidenti ragioni di connessione per eccepire anche la illegittimita' costituzionale dell'art. 500 c.p.p., come novellato: facendo applicazione di tale norma nel caso di specie il tribunale non potrebbe acquisire le dichiarazioni rese in precedenza dal teste (all'epoca delle indagini, persona informata), il quale dichiari a dibattimento di non rammentare i fatti. Infatti, a fronte del mancato o inesatto o incompleto ricordo del testimone-fonte, dovuto alle piu' svariate ragioni (ad esempio, decorso del tempo, eta' del teste, meccanismo di rimozione della vittima in presenza di reati sessuali o comunque particolarmente gravi, peculiare situazione psicologica non sfociante tuttavia in patologie psichiatriche tali da rendere la primitiva dichiarazione irripetibile etc.), le precedenti dichiarazioni non potrebbero in alcun modo essere recuperate ne' mediante le contestazioni ne' - come si e' visto - attraverso la deposizione dell'ufficiale di p.g. che ha sentito il teste. Va poi considerato che e' principio gia' piu' volte affermato dal giudice delle leggi che il controllo sulla valutazione della rilevanza compiuta dal giudice rimettente, nel ritenere di dover fare applicazione della norma al caso sottoposto al suo esame, consiste nella verifica di una ragionevole possibilita' che la disposizione denunziata sia applicabile nel giudizio a quo (Corte cost., 19 giugno 1998, n. 227; Id., 18 aprile 1996, n. 117; Id., 12 novembre 1991, n. 409). Tanto premesso, appare opportuno richiamare il testo del nuovo art. 500 c.p.p., sostituito dall'art. 16, legge 1 marzo 2001, n. 63, che recita: 1. Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facolta' puo' essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia gia' deposto. 2. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilita' del teste. 3. Se il teste rifiuta di sottoporsi all'esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante. 4. Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone e' stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta di denaro o di altra utilita', affinche' non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate. 5. Sull'acquisizione di cui al comma 4, il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che puo' fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone e' stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilita'. 6. A richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice a norma dell'art. 422 sono acquisite al fascicolo del dibattimento e sono valutate ai fini della prova nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dal presente articolo. Fuori dal caso previsto dal periodo precedente, si applicano le disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 5. 7. Fuori dai casi di cui al comma 4, su accordo delle parti le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento. Ad avviso del tribunale, la questione di costituzionalita' dell'art. 500 c.p.p. e' non manifestamente infondata perche' la norma appare contrastare con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 111 e 112 Cost. nella parte in cui preclude al giudice di valutare, previa acquisizione del documento che le contiene, le dichiarazioni rese dai testi al pubblico ministero, contenute nel fascicolo delle indagini preliminari e delle quali si e' data lettura per le contestazioni. La attuazione del giusto processo voluta dal legislatore costituente, infatti, con tutte le sue naturali e necessarie implicazioni, non puo' e non deve precludere al giudice di avere piena cognizione dei fatti. Gia' nella motivazione della sentenza n. 255 del 1992, la Corte costituzionale ha avuto modo di rilevare quanto segue. "2.1. - [...] l'oralita' assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova del dibattimento; cio' perche' - e' appena il caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia coi principi della Costituzione: come reso esplicito nell'art. 2, parte I, e nella direttiva n. 73 legge delega, tradottasi nella formulazione degli artt. 506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258 del 1991 di questa Corte), di guisa che in taluni casi la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi oralmente prima ed al di fuori del dibattimento. Che la volonta' del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di esser surrogati (o compiutamente e genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale [...]. 2.2. - [...] il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale. Proprio sotto questo profilo, e cioe' proprio in raffronto al sistema nel cui ambito e' destinata ad inserirsi, la norma impugnata [l'originario comma 3 dell'art. 500 c.p.p., corrispondente al vigente comma 2] appare priva di giustificazione ponendo in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verita' [...] la norma in esame istituisce pertanto una irragionevole regola di esclusione che, non solo puo' giocare cosi' a vantaggio come a danno dell'imputato, ma e' suscettibile di ostacolare la funzione stessa del processo penale proprio nei casi nei quali si fa piu' pressante l'esigenza di difesa della societa' dal delitto, quando per di piu' il ricorso all'intimidazione dei testimoni si verifica assai di frequente. 2.3. - Del resto, la preoccupazione di assicurare che elementi di prova non siano dispersi nei casi di possibile intimidazione o corruzione di testimoni affinche' non depongano o depongano il falso e', come la stessa norma rende esplicito, alla base dell'ipotesi di incidente probatorio prevista dall'art. 392, comma 1, lett. b); ma se detta esigenza e' stata ritenuta a tal punto meritevole di tutela dal legislatore da farne oggetto di apposita previsione, risulta del tutto incoerente che, ove lo stesso effetto che si vuole scongiurare sia accertato soltanto a posteriori (mediante la deposizione di un teste che appaia manifestamente falso o reticente), valga un regime opposto: e cioe' quello della totale inutilizzabilita', al fine dell'accertamento dei fatti, delle precedenti dichiarazioni ritenute inattendibili. 3. - [...] posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali, non poteva esser altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione [...] in quanto, se la precedente dichiarazione e' ritenuta veritiera, e per cio' stesso sufficiente a stabilire l'inattendibilita' del teste nella diversa deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente irrazionale che essa, una volta introdotta nel giudizio, entrata quindi nel patrimonio di conoscenze del giudice, ed esaminata nel contraddittorio delle parti (con la presenza del teste che rimane comunque sottoposto all'esame incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della prova dei fatti in essa affermati". Tali argomenti sono pienamente condivisi dal tribunale, che ne ritiene la perdurante validita' anche nel mutato assetto normativo. Perche' va ribadito con decisione che il fine ineludibile del processo penale e' quello della ricerca della verita' storica e non gia' meramente processuale; diversamente orientato, come noto, e', sia pure solo tendenzialmente pero', il processo civile, il cui oggetto consiste, di regola, in diritti disponibili, e che infatti coerentemente ammette un tipo di prova dal valore legalmente predeterminato - il giuramento decisorio -. E perche' il sistema penale deve necessariamente assicurare al giudice la piena conoscenza dei fatti onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione. Si tratta di principi affermati in svariate occasioni dalla Consulta, tra l'altro nelle sentenze nn. 241 del 1992, 254 del 1992 e 111 del 1993. Ebbene, nel caso in cui il teste non confermi a dibattimento quanto dichiarato in precedenza, il sistema introdotto con la novella del 1 marzo 2001 prevede una "lettura-contestazione" senza acquisizione del documento che contiene le prime dichiarazioni: insomma, le dichiarazioni oggetto di contestazione non possono costituire prova dei fatti in essi affermati, ma soltanto servire in chiave critica per valutare la credibilita' del teste, con l'eventuale effetto di paralizzare l'efficacia probatoria delle dichiarazioni difformi rese a dibattimento, mentre e' piuttosto problematico ritenere che le dichiarazioni dibattimentali di smentita di quanto detto in precedenza, siano esse totali o parziali, possano essere idonee a far ritenere dimostrati, in positivo, i fatti negati in udienza cosi' come descritti nella prima versione. E se sinora i profili problematici sono non lievi, va particolarmente posto in luce un aspetto che il legislatore ha totalmente obliterato, come evidenziato gia' nei primi commenti dottrinali sul tema, e cioe' la disciplina degli effetti del silenzio del teste dovuto a carenza di ricordi, in genere a causa del lungo, e talora lunghissimo, decorso del tempo tra la verificazione degli accadimenti e l'accertamento giudiziale. Non e' affatto scontato che il vuoto normativo sul punto autorizzi la lettura-contestazione, sia pure senza acquisizione, prevista dal legislatore: ma, anche a voler ritenere ammesso tale meccanismo di lettura finalizzata alla contestazione (tale infatti e' l'interpretazione accolta dal tribunale), la impossibilita' di acquisire il verbale delle precedenti dichiarazioni preclude in maniera ingiustificabile al giudice di avere piena conoscenza dei fatti che deve giudicare e limita, sino a snaturarla, la peculiare funzione del giudice penale (artt. 101 e 111 Cost.), priva di efficacia la legge penale sostanziale (art. 25 Cost.), viola il diritto costituzionale di azione della parte pubblica e della parte civile (artt. 3, 24 e 112 Cost.), svuota di effettiva tutela i diritti inviolabili dell'individuo riconosciuti dalla Costituzione e salvaguardati dalla legge penale (artt. 2, 25, 112 Cost). Non occorre aggiungere altro per convenire che e' nel contempo gravemente ferito il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). In sostanza, dunque, il legislatore ha ripristinato la regola di esclusione probatoria gia' posta nell'originaria versione dell'art. 500 c.p.p. e gia' giudicata non conforme a Costituzione dal giudice delle leggi nella richiamata sentenza n. 255 del 1992 per irragionevole contrasto con i principi della non dispersione delle fonti di prova e del libero convincimento dei giudice. Anche in questo caso si potrebbe obiettare che l'introduzione dell'art. 111 della Costituzione ha mutato i parametri di riferimento. Ma e' evidente, ad avviso del tribunale, che il principio secondo il quale "il processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova" non e' violato dal meccanismo della acquisizione delle precedenti dichiarazioni nell'ipotesi in cui permanga difformita' all'esito della lettura-contestazione. Ed e' sul punto necessario richiamare integralmente tutte le argomentazioni ampiamente e persuasivamente svolte dalla Consulta nelle motivazioni delle note sentenze n. 255 del 1992 e - naturalmente mutatis mutandis - n. 361 del 1998, ed in particolare i seguenti passaggi tratti dalla ultima delle citate sentenze: "Sul piano costituzionale, viene [...] in gioco la funzione del processo penale, che e' strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato delle relative responsabilita'. Tale funzione non puo' essere utilizzata per attenuare la tutela - piena e incoercibile - del diritto di difesa, coessenziale allo stesso processo. Sono invece censurabili, sotto il profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo"; "[...] funzione essenziale del processo [...] e' appunto quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilita'. Da un lato, non e' conforme al principio costituzionale di ragionevolezza una disciplina che precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa impone che l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilita' di instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni". Il contraddittorio, l'oralita' e l'immediatezza sono salvaguardate dal meccanismo dell'esame e del controesame, condotto dalle parti, del teste sia che risponda, sia che si rifiuti di rispondere, sia che risponda solo parzialmente, sia che non ricordi nulla, sia che ricordi solo in limitata misura. E le letture-contestazioni e le eventuali successive acquisizioni sono pienamente compatibili col contraddittorio. Se infatti nel corso dell'esame il testimone rende una dichiarazione difforme dalla precedente, dopo la lettura-contestazione sara' sollecitato dalla parte che conduce l'esame a spiegare la contraddizione, quindi le altre parti in sede di controesame potranno a loro volta porre domande su tutto cio' che rileva nella loro prospettiva, sulla discrasia e sul perche' della stessa; all'esito, il giudice potra' a sua volta intervenire per chiedere spiegazioni circa la difformita'. E non e' seriamente contestabile, dunque, che le dichiarazioni lette per le contestazioni non siano assunte in contraddittorio. Ed e' sulla base delle risposte del teste, delle eventuali motivazioni dei suoi "non ricordo", della considerazione del tempo trascorso dai fatti, della valutazione dell'atteggiamento complessivo del dichiarante che il giudice potra', nel suo prudente apprezzamento stimare piu' attendibili le dichiarazioni rese a dibattimento o, eventualmente, quelle originarie. ll giudice dovra' comunque, come e' ovvio, dare conto in motivazione dei criteri di giudizio adottati attraverso la motivazione e le parti potranno avvalersi dei comuni mezzi di impugnazione. Affinche' il giudice abbia una corretta piattaforma cognitiva e' dunque assolutamente indispensabile che possa acquisire e poter valutare con prudente apprezzamento le dichiarazioni rese in precedenza e regolarmente acquisite, nell'ipotesi che vi sia una qualche forma di difformita', lato sensu intesa, tra le dichiarazioni dibattimentali e le prime. La soluzione adottata dal legislatore della riforma, invece, fa dipendere da un evento assolutamente imprevedibile, incontrollabile e, in estreme ipotesi-limite, capriccioso, la decisione sulle controversie penali. Ed e' ben vero che il teste falso o reticente potra' andare incontro a sanzioni penali anche di una certa gravita', ma cio' che rileva nel processo principale non e' certo incrementare il numero dei processi penali per violazione dell'art. 372 c.p. trasmettendo gli atti contro i testi quanto giungere ad un accertamento serio, completo, equilibrato, giusto, in ordine ai fatti di reato per cui il p.m. ha esercitato l'azione penale, punendo secondo giustizia chi si e' reso responsabile di delitti ed offrendo un ristoro anche solo morale alle vittime ma pure restituendo l'onore, la liberta' personale ed il patrimonio agli imputati innocenti. Ed e' quindi indispensabile un meccanismo rigoroso nelle modalita' di acquisizione delle prove, quale e' quello dell'esame e del controesame condotto dalle parti in pubblica udienza in posizione di parita' innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, ma congegnato in modo tale da non disperdere irragionevolmente le fonti di prova, da non costringere il giudice ad una presa d'atto quasi notarile delle dichiarazioni o del silenzio del teste, da salvaguardare in ultima analisi il principio di sicura rilevanza costituzionale del libero (e naturalmente prudente) convincimento del giudice. Nell'interesse non certo della parte pubblica, che nel dibattimento e' portatore di una tesi da dimostrare, ma della giustizia e degli stessi imputati, cui non e' affatto detto che i "non ricordo" del teste possano apportare vantaggio. Ne' puo' seriamente dubitarsi che la utilizzazione anche a fini probatori (o potenzialmente a fini probatori) delle precedenti dichiarazioni rese dal teste e lette ed eventualmente acquisite al fascicolo per il dibattimento sia conforme alla regola secondo cui "la colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore" (art. 111, quarto comma, Cost.). Le dichiarazioni lette per la contestazione presuppongono infatti l'esame ed il controesame del testimone e dunque la ampia possibilita' delle parti di chiedere chiarimenti e di dimostrare la sua attendibilita/inattendibilita'. Inoltre, il sistema introdotto con la novella fa ricadere il rischio, purtroppo piuttosto frequente in un sistema che, nonostante le buone intenzioni. (art. 111, secondo comma, Cost., secondo il quale la legge assicura la ragionevole durata del processo), spesso non riesce a garantire un giudizio entro tempi decenti, della dimenticanza e dell'imperfetto ricordo esclusivamente sul pubblico ministero, con cio' violando il principio della parita' delle parti, il diritto all'azione, il diritto alla difesa delle parti civili, il diritto alla salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo e delle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalita' (artt. 2, 3, 24, 25, 112 Cost.). E che tale rischio sia imprevedibile, per le plurime cause che possono determinare il non ricordo (cui si e' fatto cenno), ma, soprattutto, inevitabile con gli strumenti che l'ordinamento vigente appronta lo si desume dalla disciplina dettata dall'art. 392 c.p.p. che regola l'incidente probatorio. A seguito della modifica introdotta dall'art. 4, 1o comma, legge 7 agosto 1997, n. 267, infatti, nel corso delle indagini preliminari (e nell'udienza preliminare: Corte cost., sent. n. 77 del 1994) le parti possono sempre chiedere che si proceda all'assunzione anticipata con le forme e le garanzie del dibattimento dell'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilita' di altri e all'esame delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p senza che ricorrano specifici presupposti di pericolo per la genuinita' della prova, [art. 392, primo comma, lett. c) e d)], mentre per ottenere l'assunzione di una testimonianza in incidente probatorio e' necessario che sussistano o gravi ragioni di salute inerenti il teste che facciano ritenere probabile che non potra' essere esaminato a dibattimento ovvero il "fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilita' affinche' non deponga o deponga il falso" [art. 392, primo comma, lett. a) e b), c.p.p.]. Non vi e' dunque alcun istituto processuale che possa prevenire o rimediare il fenomeno del mancato o impreciso ricordo del teste. Cio' conferma ulteriormente la irragionevolezza della disciplina posta dall'art. 500 c.p.p. Ma vi e' di piu'. In un sistema che, finalmente, ha adeguato le regole sulla valutazione degli indizi in fase cautelare a quelle valevoli nella fase del merito (cfr. art. 273, comma 1-bis, c.p.p. introdotto dall'art. 11, legge 1 marzo 2001, n. 63, secondo il quale "nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli artt. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1"), la disciplina posta dal nuovo art. 500 c.p.p. e' tale da condurre a conseguenze assolutamente ingiuste, illogiche ed irragionevoli: si pensi alla eventualita' di emissione di misura cautelare, confermata dai collegi delle impugnazioni, in base alle dichiarazioni di persona informata sui fatti e di successiva celebrazione di processo in cui il teste dell'accusa dichiari di non rammentare alcunche', senza che emerga alcuna delle situazioni rilevanti ai sensi dei commi 4 e 5 del novellato art. 500 c.p.p. (la realta' giudiziaria nota agli operatori pratici presenta non infrequenti casi in cui il coniuge o il discendente maltrattato, violentato et similia, per sensi di colpa per aver fatto arrestare il congiunto o per vergogna o paura, sebbene non minacciato, oppure ancora nel disperato tentativo di ricostruire una qualche forma di unita' familiare, ritenga di non confermare le dichiarazioni rese nell'immediatezza dei fatti). Con conseguente possibile assoluzione dell'imputato e, magari, avvio del meccanismo per la riparazione dell'ingiusta (?) detenzione a suo tempo disposta in base ad elementi di prova regolarmente assunti e correttamente e prudentemente valutati dai giudici della liberta' personale. Questo e' un ulteriore argomento per ritenere assolutamente contrario al canone costituzionale di ragionevolezza il meccanismo derivante dal combinato disposto degli artt. 195 e 500 c.p.p., nel testo attualmente vigente, essendo irrimediabilmente precluso il recupero di dichiarazioni pur ritualmente assunte nelle indagini, ove il teste non ricordi (o dichiari di non rammentare) i fatti. Ed e' per questo che le due questioni (art. 195 ed art. 500 c.p.p.) non possono che essere affrontate e risolte insieme. ll tribunale chiede, pertanto, alla Consulta di riconoscere anche che la vigente disciplina del'art. 500 c.p.p. confligge con le disposizioni poste dalla Costituzione agli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 111 e 112 e, in conseguenza, di dichiarare la norma impugnata incostituzionale nella parte in cui non prevede che, qualora il teste rifiuti o comunque ometta, in tutto o in parte, di rispondere, anche a causa di mancato o impreciso ricordo, su fatti e circostanze gia' oggetto di sue precedenti dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero, le parti possono procedere a lettura-contestazione delle stesse e nella parte in cui non prevede che quando, a seguito della contestazione, permane difformita' rispetto al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate per la contestazione sono acquisite al fascicolo per il dibattimento e possono concorrere, unitamente ad altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilita', a fondare il prudente e libero convincimento del giudice sull'oggetto della prova.