IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Il  Tribunale  ha  il  dubbio  che  gli  artt. 195  c.p.p.,  come
modificato dall'art. 4, legge 1 marzo 2001, n. 63, recante "Modifiche
al  codice  penale  e  di procedura penale in materia di formazione e
valutazione  della  prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma   dell'art. 111   della  Costituzione",  e  500  c.p.p,  come
modificato   dall'art. 16,  legge  1  marzo  2001,  n. 63,  siano  in
contrasto  con  la  Costituzione, per le ragioni che ci si accinge ad
illustrare.
    Va  premesso  che  la questione sulla legittimita' costituzionale
dell'art. 195,   quarto   comma,  c.p.p.  e'  nel  presente  processo
(n. 169/97 R.G. Trib. Potenza a carico di Perrotti Vincenzo ed altri)
concreta  e  rilevante,  perche' il giudizio non puo' essere definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   stessa:   facendo
applicazione  di  tale  norma,  infatti,  il  tribunale  non dovrebbe
consentire  al teste maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Anobile, la
cui  escussione  e'  in  corso  all'odierna udienza e che e' indicato
nella  lista testimoniale regolarmente depositata ed autorizzata come
persona  in  grado  di riferire anche sulle dichiarazioni ritualmente
rese  nella fase delle indagini preliminari al p.m. o, su sua delega,
alla p.g., di riferire le dichiarazioni rese da persone informate sui
fatti   nel   corso   delle   indagini   preliminari  e  regolarmente
verbalizzate.  Anche  ove  riferite, tali affermazioni non potrebbero
avere alcun valore, alla luce del canone generale posto dall'art. 191
c.p.p., secondo il quale le prove acquisite in violazione dei divieti
stabiliti   dalla   legge   non   possono   essere  utilizzate  e  la
inutilizzabilita'  e'  rilevabile  anche  di  ufficio in ogni stato e
grado del procedimento.
    La norma della cui conformita' alla Carta fondamentale si dubita,
infatti,  recita:  "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria
non  possono  deporre  sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da
testimoni  con  le  modalita'  di  cui agli artt. 351 e 357, comma 2,
lettere a) e b)".
    La  questione,  inoltre,  non  e' manifestamente infondata, per i
seguenti motivi.
    Le    disposizioni    costituzionali    violate    dall'art. 195,
quarto comma,  c.p.p.  sono le seguenti: artt. 2, 3, 24, 25, 97, 101,
111,   112.   Da   esse,   considerate   sia   in  se'  che  valutate
complessivamente  e  nelle  reciproche  interferenze,  si  traggono i
seguenti  valori  di  rango  super-legislativo:  eguaglianza  tra  le
persone,   formale   e  sostanziale  (art. 3);  ragionevolezza  delle
previsioni legislative (art. 3); diritto di difesa, nell'accezione di
difesa non solo dell'imputato ma anche delle persone offese dei reati
(art. 24); diritto alla sicurezza dei consociati e correlativo dovere
per  lo  Stato  di  mantenere  la  pace  tra  di  essi, dovere cui e'
strumentale  la  repressione dei reati, la ricerca dei responsabili e
l'accertamento  giusto  e  rapido  della responsabilita' penale degli
imputati  colpevoli e della innocenza di quelli incolpevoli (artt. 2,
3,  25,  97, 111 e 112); principio della non dispersione dei mezzi di
prova  nell'interesse  della  giustizia  e della ricerca nel processo
penale   della  verita'  storica  e  non  gia'  di  quella  meramente
processuale  (artt. 3,  24,  25, 97, 101, 111 e 112); principio della
parita' tra accusa e difesa (artt. 3, 24, 111 e 112).
    Valori  costituzionali  che  non sono rispettati dalla previsione
dell'art. 195 c.p.p., come recentemente modificato dal legislatore.
    Tale  disposizione  prevede  in  primo luogo che la testimonianza
indiretta  e' ammessa, purche' il teste indichi la persona o la fonte
da  cui  ha  appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame (primo e
settimo  comma);  la  persona-fonte  deve essere chiamata a deporre a
richiesta  di  parte  ovvero puo' essere convocata d'ufficio (primo e
secondo  comma).  Se, nonostante la richiesta della parte, le persone
indicate  non  sono  state  esaminate, la testimonianza indiretta non
puo'  essere  utilizzata,  salvo  che  l'esame  delle  persone stesse
risulti  impossibile  per  morte, infermita' o irreperibilita' (comma
3).  Il  comma 4,  sostituito dall'art. 4, legge 1 marzo 2001, n. 63,
vieta  poi  la  testimonianza  indiretta  degli  ufficiali di polizia
giudiziaria sulle dichiarazioni loro rese dalle persone informate sui
fatti  e  verbalizzate  con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357,
comma  2,  lettere  a)  e  b): "Gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria  non  possono  deporre  sul contenuto delle dichiarazioni
acquisite  da testimoni con le modalita' di cui agli artt. 351 e 357,
comma  2,  lettere  a)  e  b).  Negli  altri  casi  si  applicano  le
disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo".
    La  eccezione  posta  dal  comma  4,  dell'art. 195,  c.p.p, alla
generale  disciplina  dell'art. 195  e alla capacita' di testimoniare
appartenente   ad   ogni  persona  (art. 196,  primo  comma,  c.p.p.,
espressione   dell'art. 3  della  Costituzione)  e',  ad  avviso  del
tribunale, sfornita di qualsiasi ragionevole giustificazione.
    Posto  infatti  che  il  legislatore esclude qualsiasi ipotesi di
incompatibilita'   a   testimoniare  della  polizia  giudiziaria  (v.
art. 197   c.p.p.   sia  nella  versione  previgente  che  in  quella
introdotta  dall'art. 5,  legge  1  marzo  2001,  n. 63),  a meno che
l'appartenente alla stessa abbia svolto le funzioni di ausiliario del
pubblico  ministero  (art. 197, primo comma, lett. d), c.p.p.); posto
altresi'  che  il diritto vivente comunque considera l'ipotesi di cui
alla  lett. d) dell'art. 197, 1o comma, non come una incompatibilita'
assoluta  a  testimoniare  ma  solo  come  un  divieto  di deporre su
circostanze  e  fatti  appresi  nelle funzioni ausiliarie e non anche
sull'attivita' svolta in qualita' di ufficiale di polizia giudiziaria
nello  svolgimento  delle  proprie funzioni istituzionali, al di fuor
quindi  dell'assistenza  prestata al singolo atto del magistrato (v.,
per  tutte,  Cass.,  Sez.  IV,  23  novembre 2000, rel. Marzano, ric.
Bougamni,  in Guida Dir., 2000, n. 15, p. 88); ne discende che non si
comprende  affatto  perche'  agli appartenenti alla p.g. debba essere
inibita   quella  particolare  forma  di  testimonianza,  che  e'  la
testimonianza  indiretta,  naturalmente  entro  i  limiti  e  con  le
garanzie  di  cui  all'art. 195  c.p.p.  Si  consideri infatti quanto
segue.
    1)  Come  gia'  sostenuto dalla Consulta nella parte motiva della
sentenza  n. 24  del  1992,  infatti,  "non  si puo' certo sostenere,
nemmeno  in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia
giudiziaria  siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune;
a  prescindere  dalla palese assurdita' di una ipotesi siffatta, essa
risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione
che  la legge attribuisce alla polizia giudiziaria (v. l'art. 55 e il
titolo  IV  del  libro  V  del  codice di procedura penale)", polizia
giudiziaria  che,  si  consideri, dipende funzionalmente dal pubblico
ministero  (artt. 109  Cost.  e  55,  56,  58, 59, 326, 327, 347, 348
c.p.p.),  il  quale,  anche  abbandonata  la risalente definizione di
"parte   imparziale",   e'  certamente  magistrato  in  posizione  di
indipendenza  e  promotore  pubblico  di giustizia (cfr. sul punto le
sentenze  nn. 88  del 1991 e 111 del 1993 della Corte costituzionale)
ed  infatti  ha  il  dovere  di  svolgere  "accertamenti  su  fatti e
circostanze   a   favore  della  persona  sottoposta  alle  indagini"
(art. 358 c.p.p.), "veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e
regolare amministrazione della giustizia" (art. 73, primo comma, R.D.
30  gennaio 1941, n. 12), tanto che puo' sempre "proporre ricorso per
cassazione  nell'interesse  della  legge"  (art. 77,  R.D. 30 gennaio
1941, n. 12).
    2)  "Ne'  puo'  ritenersi che proprio dall'attivita' svolta nella
fase    delle    indagini    preliminari   derivi   una   ragionevole
giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui si discute. Si e'
gia'  osservato  che, se si trattasse di una incompatibilita' di tale
natura,   essa   avrebbe   dovuto   trovare   esplicita  collocazione
nell'art. 197  c.p.p.,  dove non ne e' traccia" - gia' ha ritenuto la
Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza n. 24 del 1992 -. Tale
rilievo  e'  rafforzato dalla constatazione che nemmeno nel novellato
art. 197  c.p.p.  (ad  opera  della  legge 1 marzo 2001, n. 63) vi e'
traccia di una siffatta incompatibilita' a deporre.
    3)  Ed  ancora, "la palese irragionevolezza della norma impugnata
viene  ancor  piu'  chiaramente  in  luce  ove si consideri che [...]
possono  verificarsi  casi  in  cui  la testimonianza indiretta della
polizia  giudiziaria che ha operato nell'immediatezza venga ad essere
addirittura fondamentale per l'accertamento dei fatti, quando l'esame
dei  testimoni-fonte  obbligatoriamente  indicati sia impossibile per
morte, infermita' o irreperibilita' (art. 195, comma 3): tali ipotesi
[...]  possono,  del resto, riguardare anche la difesa dell'imputato"
(Corte  cost.,  sent. n. 24 del 1992). Ed e' ancora piu' evidente che
la  richiamata  previsione  posta  dall'art. 195, terzo comma, c.p.p.
conferma   che  il  divieto  in  esame  non  concreta  un'ipotesi  di
incompatibilita' a testimoniare.
    4)  "Ne'  si  potrebbe  obiettare  [sempre  ad avviso della Corte
costituzionale  nella parte motiva della sentenza n. 24 del 1992] che
il  divieto  di testimonianza indiretta nei confronti degli ufficiali
ed  agenti  di  polizia giudiziaria trovi un'adeguata giustificazione
nei  principi  generali  che  informano  il nuovo processo penale. Il
metodo  orale (art. 2, n. 2, legge delega) costituisce certamente uno
dei  principi  informatori  del codice vigente, ed in base ad esso il
convincimento  del  giudice  deve  essenzialmente formarsi sulla base
delle  prove  che  si  assumono  al  dibattimento  nella pienezza dei
contraddittorio. Ma con tale principio non solo non contrasta ma anzi
si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti attraverso
dichiarazioni  loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi
nei  modi e nelle forme rigorosamente prescritti dell'esame diretto e
del  controesame  [...]  L'oralita' della prova e' fuori discussione,
mentre   il   diritto  di  difesa  e'  comunque  tutelato  attraverso
l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone".
    Si  potrebbe,  ancora,  sostenere  che gli appartenenti alla p.g.
hanno  una posizione istituzionale che li potrebbe portare, per cosi'
dire,  a  "parteggiare"  naturalmente, sia pure in buona fede, per la
tesi  sostenuta  dalla  pubblica  accusa.  Il che non toglie che essi
hanno  come  tutti  -  ed  anzi  piu'  di  tutti  proprio per la loro
qualifica  -  il  dovere,  penalmente assistito da sanzioni certo non
risibili,  di  deporre secondo verita' e che le loro dichiarazioni, e
specialmente  quelle  de  relato,  non soltanto non sono assistite da
alcuna  fede  privilegiata  ma  debbono  essere sottoposte ad attento
vaglio di credibilita' da parte del giudice, alla pari di quelle rese
da  qualsiasi  testimone,  affinche'  su  di  esse  possa fondarsi un
giudizio di penale responsabilita'.
    Per  tutte  le  ragioni esposte, e comunque per tutte quelle gia'
poste  a  fondamento della sentenza della Consulta n. 24 del 1992, da
ritenersi  integralmente  richiamate  in  questa sede, si chiede alla
Corte  costituzionale  di dichiarare la illegittimita' costituzionale
dell'art. 195,  quarto comma,  c.p.p.,  per  evidente  contrasto  coi
canoni sopra richiamati.
    Potrebbe,  ancora, obiettarsi che, rispetto alla citata pronunzia
del  1992,  e'  mutato  il  quadro  giuridico di riferimento, essendo
intervenuta  la  importante  modifica  costituzionale consistente nel
novellato  testo  dell'art. 111  (legge  costituzionale  n. 2  del 23
novembre 1999).
    L'obiezione   pero'   sarebbe  priva  di  fondamento  perche'  il
principio  secondo  il  quale  "il  processo  penale  e' regolato dal
principio  del  contraddittorio  nella  formazione  della  prova" non
implica  affatto - ne' puo' implicare - il divieto per l'appartenente
alla  p.g.  di  porre  in essere dichiarazioni de relato: nel vigente
assetto  processuale,  infatti,  la  prova  viene assunta in udienza,
innanzi  a  giudice  terzo, imparziale ed all'oscuro degli atti delle
investigazioni  preliminari,  attraverso  l'esame  ed  il controesame
condotto  delle parti, ciascuna delle quali ha il diritto di chiedere
al  giudice,  privo  di  discrezionalita'  in merito, di convocare il
testimone-fonte  (art. 195, primo comma, c.p.p.) e di chiedergli ogni
chiarimento  necessario  per  comprendere  appieno i fatti di causa e
dimostrare,  eventualmente,  la  sua inattendibilita'. Si noti ancora
che  la  disposizione  ex art. 195, primo comma, c.p.p. e' rafforzata
dalla   previsione   della   inutilizzabilita'   della  testimonianza
indiretta  nel  caso  di  inosservanza  delle  disposizioni  previste
(art. 195, terzo comma, c.p.p.).
    Sussistono  evidenti ragioni di connessione per eccepire anche la
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 500 c.p.p., come novellato:
facendo  applicazione  di  tale norma nel caso di specie il tribunale
non  potrebbe acquisire le dichiarazioni rese in precedenza dal teste
(all'epoca  delle  indagini,  persona informata), il quale dichiari a
dibattimento di non rammentare i fatti. Infatti, a fronte del mancato
o inesatto o incompleto ricordo del testimone-fonte, dovuto alle piu'
svariate  ragioni  (ad  esempio,  decorso  del tempo, eta' del teste,
meccanismo di rimozione della vittima in presenza di reati sessuali o
comunque  particolarmente gravi, peculiare situazione psicologica non
sfociante  tuttavia  in  patologie  psichiatriche  tali da rendere la
primitiva    dichiarazione    irripetibile   etc.),   le   precedenti
dichiarazioni  non  potrebbero  in  alcun  modo essere recuperate ne'
mediante  le  contestazioni  ne'  -  come si e' visto - attraverso la
deposizione  dell'ufficiale  di  p.g. che ha sentito il teste. Va poi
considerato  che  e'  principio gia' piu' volte affermato dal giudice
delle  leggi  che  il  controllo  sulla  valutazione  della rilevanza
compiuta   dal   giudice  rimettente,  nel  ritenere  di  dover  fare
applicazione  della  norma  al caso sottoposto al suo esame, consiste
nella  verifica  di  una ragionevole possibilita' che la disposizione
denunziata sia applicabile nel giudizio a quo (Corte cost., 19 giugno
1998,  n. 227;  Id.,  18  aprile 1996, n. 117; Id., 12 novembre 1991,
n. 409).
    Tanto  premesso,  appare  opportuno richiamare il testo del nuovo
art. 500  c.p.p., sostituito dall'art. 16, legge 1 marzo 2001, n. 63,
che recita:
        1. Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per
contestare  in  tutto  o  in  parte  il  contenuto della deposizione,
possono   servirsi   delle  dichiarazioni  precedentemente  rese  dal
testimone  e  contenute  nel  fascicolo  del pubblico ministero. Tale
facolta' puo' essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze
da contestare il testimone abbia gia' deposto.
        2. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere
valutate ai fini della credibilita' del teste.
        3.   Se  il  teste  rifiuta  di  sottoporsi  all'esame  o  al
controesame  di  una delle parti, nei confronti di questa non possono
essere  utilizzate,  senza  il suo consenso, le dichiarazioni rese ad
altra   parte,   salve  restando  le  sanzioni  penali  eventualmente
applicabili al dichiarante.
        4.  Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento,
vi  sono  elementi  concreti  per  ritenere che il testimone e' stato
sottoposto  a  violenza,  minaccia,  offerta  di  denaro  o  di altra
utilita',   affinche'   non  deponga  ovvero  deponga  il  falso,  le
dichiarazioni   contenute   nel   fascicolo  del  pubblico  ministero
precedentemente  rese  dal  testimone sono acquisite al fascicolo del
dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.
        5.  Sull'acquisizione  di  cui  al comma 4, il giudice decide
senza  ritardo,  svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su
richiesta  della  parte,  che  puo' fornire gli elementi concreti per
ritenere  che  il testimone e' stato sottoposto a violenza, minaccia,
offerta o promessa di denaro o di altra utilita'.
        6. A richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice
a  norma dell'art. 422 sono acquisite al fascicolo del dibattimento e
sono valutate ai fini della prova nei confronti delle parti che hanno
partecipato  alla  loro  assunzione,  se sono state utilizzate per le
contestazioni previste dal presente articolo. Fuori dal caso previsto
dal  periodo precedente, si applicano le disposizioni di cui ai commi
2, 4 e 5.
        7.  Fuori  dai casi di cui al comma 4, su accordo delle parti
le  dichiarazioni  contenute  nel  fascicolo  del  pubblico ministero
precedentemente  rese  dal  testimone sono acquisite al fascicolo del
dibattimento.
    Ad  avviso  del  tribunale,  la  questione  di  costituzionalita'
dell'art. 500 c.p.p. e' non manifestamente infondata perche' la norma
appare  contrastare  con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 111 e 112 Cost.
nella   parte   in  cui  preclude  al  giudice  di  valutare,  previa
acquisizione del documento che le contiene, le dichiarazioni rese dai
testi  al  pubblico ministero, contenute nel fascicolo delle indagini
preliminari e delle quali si e' data lettura per le contestazioni.
    La   attuazione   del  giusto  processo  voluta  dal  legislatore
costituente,   infatti,  con  tutte  le  sue  naturali  e  necessarie
implicazioni,  non  puo'  e  non  deve precludere al giudice di avere
piena cognizione dei fatti.
    Gia'  nella  motivazione della sentenza n. 255 del 1992, la Corte
costituzionale ha avuto modo di rilevare quanto segue.
    "2.1. - [...] l'oralita' assunta a principio ispiratore del nuovo
sistema,  non  rappresenta,  nella  disciplina del codice, il veicolo
esclusivo  di formazione della prova del dibattimento; cio' perche' -
e'  appena  il  caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del
processo  penale  non  puo'  che  rimanere quello della ricerca della
verita'  (in  armonia  coi  principi  della  Costituzione:  come reso
esplicito nell'art. 2, parte I, e nella direttiva n. 73 legge delega,
tradottasi  nella  formulazione  degli artt. 506 e 507; cfr. anche la
sentenza  n. 258  del  1991  di questa Corte), di guisa che in taluni
casi  la  prova  non  possa,  di  fatto,  prodursi  oralmente e' dato
rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
atti  formatisi  oralmente prima ed al di fuori del dibattimento. Che
la  volonta'  del  legislatore  esprima  anche  un  principio  di non
dispersione  dei  mezzi  di prova emerge con evidenza da tutti quegli
istituti  che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla
utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di esser surrogati (o
compiutamente  e  genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale
[...].
    2.2. - [...]  il  sistema accusatorio positivamente instaurato ha
prescelto  la  dialettica  del  contraddittorio  dibattimentale quale
criterio  maggiormente  rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della
verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo
sistema  processuale,  il principio di non dispersione degli elementi
di  prova  non  compiutamente  (o  non  genuinamente) acquisibili col
metodo  orale.  Proprio  sotto  questo  profilo,  e  cioe' proprio in
raffronto  al  sistema  nel  cui ambito e' destinata ad inserirsi, la
norma   impugnata   [l'originario   comma   3  dell'art. 500  c.p.p.,
corrispondente  al  vigente  comma 2] appare priva di giustificazione
ponendo  in  essere  una irragionevole preclusione alla ricerca della
verita' [...] la norma in esame istituisce pertanto una irragionevole
regola  di  esclusione  che,  non solo puo' giocare cosi' a vantaggio
come  a  danno  dell'imputato,  ma  e'  suscettibile di ostacolare la
funzione  stessa del processo penale proprio nei casi nei quali si fa
piu'  pressante  l'esigenza  di  difesa  della  societa' dal delitto,
quando  per  di  piu'  il  ricorso all'intimidazione dei testimoni si
verifica assai di frequente.
    2.3. - Del resto, la preoccupazione di assicurare che elementi di
prova  non  siano  dispersi  nei  casi  di  possibile intimidazione o
corruzione  di testimoni affinche' non depongano o depongano il falso
e',  come  la stessa norma rende esplicito, alla base dell'ipotesi di
incidente probatorio prevista dall'art. 392, comma 1, lett. b); ma se
detta esigenza e' stata ritenuta a tal punto meritevole di tutela dal
legislatore  da  farne  oggetto  di  apposita previsione, risulta del
tutto  incoerente che, ove lo stesso effetto che si vuole scongiurare
sia  accertato  soltanto  a posteriori (mediante la deposizione di un
teste  che  appaia manifestamente falso o reticente), valga un regime
opposto:  e  cioe'  quello  della  totale  inutilizzabilita', al fine
dell'accertamento  dei fatti, delle precedenti dichiarazioni ritenute
inattendibili.
    3. - [...]  posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai
principi  costituzionali,  non  poteva esser altrimenti) il principio
del  libero  convincimento,  inteso  come  liberta'  del  giudice  di
valutare  la  prova  secondo  il  proprio prudente apprezzamento, con
obbligo  di  dare  conto  in  motivazione  dei criteri adottati e dei
risultati  conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice
di  contraddire  la  propria  motivata convinzione nel contesto della
stessa  decisione  [...] in quanto, se la precedente dichiarazione e'
ritenuta  veritiera,  e  per  cio'  stesso  sufficiente  a  stabilire
l'inattendibilita'  del  teste  nella  diversa  deposizione  resa  in
dibattimento,  risulta  chiaramente  irrazionale  che essa, una volta
introdotta  nel giudizio, entrata quindi nel patrimonio di conoscenze
del  giudice,  ed  esaminata  nel contraddittorio delle parti (con la
presenza   del   teste   che  rimane  comunque  sottoposto  all'esame
incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della prova
dei fatti in essa affermati".
    Tali  argomenti  sono  pienamente condivisi dal tribunale, che ne
ritiene la perdurante validita' anche nel mutato assetto normativo.
    Perche'  va  ribadito  con  decisione che il fine ineludibile del
processo  penale  e' quello della ricerca della verita' storica e non
gia'  meramente  processuale;  diversamente orientato, come noto, e',
sia  pure  solo  tendenzialmente  pero',  il  processo civile, il cui
oggetto  consiste,  di  regola, in diritti disponibili, e che infatti
coerentemente   ammette  un  tipo  di  prova  dal  valore  legalmente
predeterminato  -  il  giuramento  decisorio  -. E perche' il sistema
penale deve necessariamente assicurare al giudice la piena conoscenza
dei  fatti onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione. Si
tratta  di  principi  affermati in svariate occasioni dalla Consulta,
tra  l'altro  nelle sentenze nn. 241 del 1992, 254 del 1992 e 111 del
1993.
    Ebbene,  nel  caso  in  cui  il teste non confermi a dibattimento
quanto dichiarato in precedenza, il sistema introdotto con la novella
del   1   marzo   2001   prevede  una  "lettura-contestazione"  senza
acquisizione  del  documento  che  contiene  le  prime dichiarazioni:
insomma,  le  dichiarazioni  oggetto  di  contestazione  non  possono
costituire  prova dei fatti in essi affermati, ma soltanto servire in
chiave   critica   per   valutare  la  credibilita'  del  teste,  con
l'eventuale  effetto  di  paralizzare  l'efficacia  probatoria  delle
dichiarazioni  difformi  rese  a  dibattimento,  mentre  e' piuttosto
problematico ritenere che le dichiarazioni dibattimentali di smentita
di  quanto detto in precedenza, siano esse totali o parziali, possano
essere  idonee a far ritenere dimostrati, in positivo, i fatti negati
in udienza cosi' come descritti nella prima versione.
    E   se   sinora   i  profili  problematici  sono  non  lievi,  va
particolarmente  posto  in  luce  un  aspetto  che  il legislatore ha
totalmente  obliterato,  come  evidenziato  gia'  nei  primi commenti
dottrinali sul tema, e cioe' la disciplina degli effetti del silenzio
del teste dovuto a carenza di ricordi, in genere a causa del lungo, e
talora  lunghissimo,  decorso  del  tempo  tra la verificazione degli
accadimenti  e l'accertamento giudiziale. Non e' affatto scontato che
il  vuoto normativo sul punto autorizzi la lettura-contestazione, sia
pure  senza acquisizione, prevista dal legislatore: ma, anche a voler
ritenere   ammesso   tale  meccanismo  di  lettura  finalizzata  alla
contestazione   (tale   infatti   e'  l'interpretazione  accolta  dal
tribunale),   la   impossibilita'   di  acquisire  il  verbale  delle
precedenti  dichiarazioni  preclude  in  maniera  ingiustificabile al
giudice  di  avere  piena  conoscenza  dei fatti che deve giudicare e
limita,  sino  a snaturarla, la peculiare funzione del giudice penale
(artt. 101   e  111  Cost.),  priva  di  efficacia  la  legge  penale
sostanziale  (art. 25  Cost.),  viola  il  diritto  costituzionale di
azione  della  parte pubblica e della parte civile (artt. 3, 24 e 112
Cost.),   svuota   di   effettiva   tutela   i   diritti  inviolabili
dell'individuo  riconosciuti dalla Costituzione e salvaguardati dalla
legge  penale  (artt. 2,  25, 112 Cost). Non occorre aggiungere altro
per  convenire  che e' nel contempo gravemente ferito il principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.).
    In  sostanza, dunque, il legislatore ha ripristinato la regola di
esclusione    probatoria    gia'   posta   nell'originaria   versione
dell'art. 500 c.p.p. e gia' giudicata non conforme a Costituzione dal
giudice  delle  leggi  nella  richiamata sentenza n. 255 del 1992 per
irragionevole  contrasto  con  i principi della non dispersione delle
fonti di prova e del libero convincimento dei giudice.
    Anche  in  questo  caso  si potrebbe obiettare che l'introduzione
dell'art. 111   della   Costituzione   ha   mutato   i  parametri  di
riferimento.
    Ma e' evidente, ad avviso del tribunale, che il principio secondo
il   quale   "il  processo  penale  e'  regolato  dal  principio  del
contraddittorio  nella  formazione  della  prova"  non e' violato dal
meccanismo   della   acquisizione   delle   precedenti  dichiarazioni
nell'ipotesi    in   cui   permanga   difformita'   all'esito   della
lettura-contestazione.   Ed   e'   sul  punto  necessario  richiamare
integralmente  tutte  le  argomentazioni ampiamente e persuasivamente
svolte  dalla  Consulta  nelle motivazioni delle note sentenze n. 255
del  1992  e - naturalmente mutatis mutandis - n. 361 del 1998, ed in
particolare  i  seguenti  passaggi  tratti  dalla ultima delle citate
sentenze:
    "Sul  piano  costituzionale, viene [...] in gioco la funzione del
processo  penale,  che  e'  strumento,  non  disponibile dalle parti,
destinato  all'accertamento  giudiziale  dei  fatti  di  reato  delle
relative  responsabilita'.  Tale  funzione non puo' essere utilizzata
per  attenuare  la  tutela  -  piena  e incoercibile - del diritto di
difesa,  coessenziale  allo stesso processo. Sono invece censurabili,
sotto  il  profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non
necessarie  per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la
funzione del processo";
    "[...]  funzione  essenziale del processo [...] e' appunto quella
di  verificare  la  sussistenza  dei  reati oggetto del giudizio e di
accertare le relative responsabilita'. Da un lato, non e' conforme al
principio   costituzionale   di  ragionevolezza  una  disciplina  che
precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova
raccolti  legittimamente  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
nell'udienza preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa
impone  che  l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze
del  giudice  sia  subordinato  alla  possibilita'  di  instaurare il
contraddittorio   tra   il   dichiarante   e  il  destinatario  delle
dichiarazioni".
    Il    contraddittorio,    l'oralita'    e   l'immediatezza   sono
salvaguardate  dal  meccanismo dell'esame e del controesame, condotto
dalle  parti,  del  teste  sia  che  risponda,  sia che si rifiuti di
rispondere,  sia  che risponda solo parzialmente, sia che non ricordi
nulla,   sia   che   ricordi   solo   in   limitata   misura.   E  le
letture-contestazioni  e  le  eventuali  successive acquisizioni sono
pienamente  compatibili  col  contraddittorio.  Se  infatti nel corso
dell'esame  il  testimone  rende  una  dichiarazione  difforme  dalla
precedente,  dopo  la  lettura-contestazione  sara' sollecitato dalla
parte  che  conduce  l'esame  a spiegare la contraddizione, quindi le
altre  parti  in  sede  di  controesame  potranno  a loro volta porre
domande  su  tutto  cio'  che  rileva  nella  loro prospettiva, sulla
discrasia  e sul perche' della stessa; all'esito, il giudice potra' a
sua  volta intervenire per chiedere spiegazioni circa la difformita'.
E  non e' seriamente contestabile, dunque, che le dichiarazioni lette
per  le  contestazioni  non  siano  assunte in contraddittorio. Ed e'
sulla  base delle risposte del teste, delle eventuali motivazioni dei
suoi  "non  ricordo",  della  considerazione  del tempo trascorso dai
fatti,   della   valutazione   dell'atteggiamento   complessivo   del
dichiarante  che  il  giudice  potra', nel suo prudente apprezzamento
stimare  piu'  attendibili  le  dichiarazioni  rese a dibattimento o,
eventualmente, quelle originarie. ll giudice dovra' comunque, come e'
ovvio,  dare  conto  in  motivazione dei criteri di giudizio adottati
attraverso  la  motivazione  e le parti potranno avvalersi dei comuni
mezzi di impugnazione.
    Affinche'  il giudice abbia una corretta piattaforma cognitiva e'
dunque  assolutamente  indispensabile  che  possa  acquisire  e poter
valutare   con   prudente  apprezzamento  le  dichiarazioni  rese  in
precedenza  e  regolarmente  acquisite,  nell'ipotesi  che vi sia una
qualche forma di difformita', lato sensu intesa, tra le dichiarazioni
dibattimentali e le prime.
    La  soluzione  adottata dal legislatore della riforma, invece, fa
dipendere  da  un evento assolutamente imprevedibile, incontrollabile
e,   in  estreme  ipotesi-limite,  capriccioso,  la  decisione  sulle
controversie  penali.  Ed  e' ben vero che il teste falso o reticente
potra' andare incontro a sanzioni penali anche di una certa gravita',
ma  cio' che rileva nel processo principale non e' certo incrementare
il  numero  dei  processi  penali  per  violazione dell'art. 372 c.p.
trasmettendo   gli   atti  contro  i  testi  quanto  giungere  ad  un
accertamento serio, completo, equilibrato, giusto, in ordine ai fatti
di  reato  per  cui  il  p.m.  ha esercitato l'azione penale, punendo
secondo  giustizia chi si e' reso responsabile di delitti ed offrendo
un  ristoro  anche  solo  morale  alle  vittime  ma  pure restituendo
l'onore,  la  liberta'  personale  ed  il  patrimonio  agli  imputati
innocenti.  Ed  e' quindi indispensabile un meccanismo rigoroso nelle
modalita'  di  acquisizione delle prove, quale e' quello dell'esame e
del controesame condotto dalle parti in pubblica udienza in posizione
di  parita'  innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, ma congegnato
in  modo  tale da non disperdere irragionevolmente le fonti di prova,
da  non  costringere  il  giudice  ad una presa d'atto quasi notarile
delle  dichiarazioni  o  del  silenzio del teste, da salvaguardare in
ultima  analisi  il  principio di sicura rilevanza costituzionale del
libero   (e   naturalmente   prudente)   convincimento  del  giudice.
Nell'interesse  non  certo della parte pubblica, che nel dibattimento
e'  portatore  di  una tesi da dimostrare, ma della giustizia e degli
stessi  imputati,  cui  non  e' affatto detto che i "non ricordo" del
teste possano apportare vantaggio.
    Ne'  puo'  seriamente dubitarsi che la utilizzazione anche a fini
probatori  (o  potenzialmente  a  fini  probatori)  delle  precedenti
dichiarazioni  rese  dal  teste e lette ed eventualmente acquisite al
fascicolo  per  il  dibattimento sia conforme alla regola secondo cui
"la  colpevolezza  dell'imputato  non  puo' essere provata sulla base
delle  dichiarazioni  rese  da  chi,  per libera scelta, si e' sempre
volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o
del  suo difensore" (art. 111, quarto comma, Cost.). Le dichiarazioni
lette  per  la  contestazione  presuppongono  infatti  l'esame  ed il
controesame  del testimone e dunque la ampia possibilita' delle parti
di     chiedere     chiarimenti    e    di    dimostrare    la    sua
attendibilita/inattendibilita'.
    Inoltre,  il  sistema  introdotto  con  la novella fa ricadere il
rischio,  purtroppo piuttosto frequente in un sistema che, nonostante
le  buone  intenzioni.  (art. 111,  secondo comma,  Cost., secondo il
quale  la  legge assicura la ragionevole durata del processo), spesso
non  riesce  a  garantire  un  giudizio  entro  tempi  decenti, della
dimenticanza  e  dell'imperfetto  ricordo esclusivamente sul pubblico
ministero,  con cio' violando il principio della parita' delle parti,
il  diritto all'azione, il diritto alla difesa delle parti civili, il
diritto  alla  salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo e
delle  formazioni  sociali  in  cui  si  svolge  la  sua personalita'
(artt. 2, 3, 24, 25, 112 Cost.).
    E  che  tale  rischio sia imprevedibile, per le plurime cause che
possono  determinare  il  non  ricordo  (cui  si e' fatto cenno), ma,
soprattutto,  inevitabile con gli strumenti che l'ordinamento vigente
appronta  lo  si desume dalla disciplina dettata dall'art. 392 c.p.p.
che   regola   l'incidente   probatorio.  A  seguito  della  modifica
introdotta  dall'art. 4,  1o  comma,  legge  7 agosto  1997,  n. 267,
infatti,   nel  corso  delle  indagini  preliminari  (e  nell'udienza
preliminare:  Corte  cost.,  sent.  n. 77  del 1994) le parti possono
sempre chiedere che si proceda all'assunzione anticipata con le forme
e  le  garanzie  del dibattimento dell'esame della persona sottoposta
alle  indagini  su  fatti  concernenti  la responsabilita' di altri e
all'esame  delle  persone  indicate  nell'art. 210  c.p.p  senza  che
ricorrano  specifici  presupposti di pericolo per la genuinita' della
prova,  [art. 392,  primo comma,  lett. c) e d)], mentre per ottenere
l'assunzione   di   una  testimonianza  in  incidente  probatorio  e'
necessario che sussistano o gravi ragioni di salute inerenti il teste
che  facciano  ritenere  probabile  che non potra' essere esaminato a
dibattimento ovvero il "fondato motivo di ritenere che la persona sia
esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra
utilita'  affinche'  non  deponga  o  deponga  il  falso"  [art. 392,
primo comma, lett. a) e b), c.p.p.].
    Non vi e' dunque alcun istituto processuale che possa prevenire o
rimediare il fenomeno del mancato o impreciso ricordo del teste. Cio'
conferma  ulteriormente  la  irragionevolezza  della disciplina posta
dall'art. 500 c.p.p.
    Ma  vi  e' di piu'. In un sistema che, finalmente, ha adeguato le
regole  sulla  valutazione  degli  indizi  in fase cautelare a quelle
valevoli  nella  fase  del merito (cfr. art. 273, comma 1-bis, c.p.p.
introdotto  dall'art. 11, legge 1 marzo 2001, n. 63, secondo il quale
"nella  valutazione  dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le
disposizioni  degli  artt. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271,
comma  1"),  la disciplina posta dal nuovo art. 500 c.p.p. e' tale da
condurre   a   conseguenze   assolutamente   ingiuste,  illogiche  ed
irragionevoli:  si  pensi  alla  eventualita'  di emissione di misura
cautelare,  confermata  dai  collegi delle impugnazioni, in base alle
dichiarazioni   di  persona  informata  sui  fatti  e  di  successiva
celebrazione  di processo in cui il teste dell'accusa dichiari di non
rammentare  alcunche',  senza  che  emerga  alcuna  delle  situazioni
rilevanti  ai sensi dei commi 4 e 5 del novellato art. 500 c.p.p. (la
realta'   giudiziaria   nota  agli  operatori  pratici  presenta  non
infrequenti  casi  in  cui  il  coniuge o il discendente maltrattato,
violentato et similia, per sensi di colpa per aver fatto arrestare il
congiunto  o  per  vergogna  o  paura, sebbene non minacciato, oppure
ancora  nel  disperato  tentativo di ricostruire una qualche forma di
unita'  familiare,  ritenga  di  non confermare le dichiarazioni rese
nell'immediatezza  dei  fatti). Con conseguente possibile assoluzione
dell'imputato  e,  magari,  avvio  del  meccanismo per la riparazione
dell'ingiusta (?) detenzione a suo tempo disposta in base ad elementi
di   prova  regolarmente  assunti  e  correttamente  e  prudentemente
valutati dai giudici della liberta' personale.
    Questo  e'  un  ulteriore  argomento  per  ritenere assolutamente
contrario  al  canone  costituzionale di ragionevolezza il meccanismo
derivante  dal  combinato  disposto degli artt. 195 e 500 c.p.p., nel
testo  attualmente  vigente,  essendo  irrimediabilmente  precluso il
recupero di dichiarazioni pur ritualmente assunte nelle indagini, ove
il  teste  non  ricordi (o dichiari di non rammentare) i fatti. Ed e'
per  questo  che  le  due questioni (art. 195 ed art. 500 c.p.p.) non
possono che essere affrontate e risolte insieme.
    ll tribunale chiede, pertanto, alla Consulta di riconoscere anche
che  la  vigente  disciplina  del'art. 500  c.p.p.  confligge  con le
disposizioni  poste  dalla Costituzione agli artt. 2, 3, 24, 25, 101,
111  e  112  e,  in  conseguenza,  di  dichiarare  la norma impugnata
incostituzionale nella parte in cui non prevede che, qualora il teste
rifiuti  o comunque ometta, in tutto o in parte, di rispondere, anche
a  causa  di mancato o impreciso ricordo, su fatti e circostanze gia'
oggetto  di  sue precedenti dichiarazioni contenute nel fascicolo del
pubblico     ministero,     le     parti    possono    procedere    a
lettura-contestazione  delle  stesse e nella parte in cui non prevede
che  quando,  a  seguito  della  contestazione,  permane  difformita'
rispetto  al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate
per  la contestazione sono acquisite al fascicolo per il dibattimento
e  possono  concorrere,  unitamente ad altri elementi di prova che ne
confermano   l'attendibilita',   a   fondare  il  prudente  e  libero
convincimento del giudice sull'oggetto della prova.