Ricorso  della  Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente
della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con
deliberazione  della  giunta  regionale  n. 254 del 24 febbraio 2003,
rappresentata  e  difesa  come  da procura rogata dal notaio Federico
Stame  del collegio di Bologna n. 46998 di rep. del 27 febbraio 2003,
dagli  avv.  prof.  Giandomenico Falcon, prof. Franco Mastragostino e
Luigi  Manzi  di  Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio
dell'avv. Manzi, via Confalonieri n. 5;
    Contro   il   Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione   di   illegittimita'  costituzionale  della  legge  27
dicembre  2002,  n. 289,  recante  disposizioni per la formazione del
bilancio  annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003),
pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 305  del 31 dicembre 2002,
suppl. ordinario n. 240, con riferimento alle seguenti disposizioni:
        art.  2;  art. 3, primo comma, lett. a); artt. 5, 6, 7, 3, 9,
ad  eccezione  del comma 17; artt. 13, terzo comma, 15 e 16, art. 24,
art. 25;  art. 26,  commi  primo,  secondo  periodo, secondo e terzo;
art. 27;  art. 28,  commi  quinto  e sesto; artt. 30, primo, secondo,
quinto  e  quindicesimo  comma art. 31, decimo comma; art. 33, quarto
comma;  art. 34,  commi  primo,  secondo,  terzo, quarta, undicesimo;
art. 35;  art. 46, commi secondo, terzo, quarto, quinto e sesto; art.
47;  art.  48;  art. 52,  commi quarto, diciannovesimo e ventunesimo;
art. 56;  art. 67;  art. 69,  comma  ottavo;  art.  72,  commi primo,
secondo, terzo e quarto; art. 80, comma sesto, art. 90, commi 18, 20,
21, 22, 24, 25 e 26; art. 91, commi 1, 2, 3 e 4;
        per  violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei
principi  costituzionali  di  ragionevolezza  e proporzionalita', nei
modi e per i profili di seguito indicati.

                              F a t t o

    Nel  supplemento  ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31
dicembre  2002  e' stata pubblicata la legge 27 dicembre 2002, n. 289
(finanziaria  2003). In essa sono contenuto disposizioni che incidono
inequivocabilmente  su  materie di competenza regionale suscettibili,
quindi,  di  rilevare  sul  piano dell'illegittimita' costituzionale,
anche e soprattutto a fronte delle innovazioni introdotte dalla legge
costituzionale n. 3/2001.
    In  estrema  sintesi,  e  come  verra'  illustrato  nei motivi di
diritta,  la  legge  risulta  lesiva  in primo luogo sotto il profilo
strettamente  finanziario,  comportando  -  anziche'  l'aumento delle
entrate  in  attuazione  dell'art. 119 Cost.; anche in relazione alle
nuove  funzioni  del  sistema locale, ed in contrasto palese con tale
articolo  - una drastica restrizione dell'autonomia di entrata, pur a
fronte   di   livelli   delle  prestazioni  essenziali  espressamente
confermati  al livello dagli anni precedenti. Inoltre, a fronte della
restrizione  delle  entrate  regionali,  la  stessa  legge mantiene e
incrementa  una  pluralita' di spese ed interventi statali in materie
nelle  quali  secondo  la  Costituzione  lo  Stato  non  ha  potesta'
legislativa,  o ha potesta' legislativa solo in relazione ai principi
fondamentali.  L'esistenza  di  fondi settoriali in materie regionali
appare  di  per  se'  incompatibile  con  l'autonomia  finanziaria di
entrata   e  di  spesa  di  cui  all'art. 119  Cost.,  ed  e'  dunque
accettabile  soltanto  come  soluzione transitoria, per assicurare il
finanziamento  del  settore  in  attesa  della  attuazione  del nuovo
sistema  di  finanziamento.  Di  certo,  pero',  come  si  vedra', la
gestione  dei  fondi non puo' avvenire a livello centrale. Infine, la
legge 289 del 2002 reca disciplina di materie - quali l'istruzione, a
la  finanza  locale - semplicemente ignorando la potesta' legislativa
concorrente  o  residuale  spettante  alle  regioni,  e  per  di piu'
ispirando  tale disciplina di settore a criteri puramente finanziari,
senza adeguata considerazione delle esigenze proprie di tali materie.
    Il  fatto  che  tali  disposizioni siano inserite nello strumento
principale  della manovra finanziaria dello Stato non puo', peraltro,
sotto  alcun profilo rappresentare l'occasione per apportare profonde
ed illegittime incisioni alla sfera di autonomia regionale.
    Da  qui  la  necessita'  della  proposizione del presente ricorso
attraverso   cui   si  contesta  l'illegittimita'  costituzionale  di
specifiche  disposizioni,  in  relazione  alle quali l'intervento del
giudice  costituzionale  puo'  valere  ad impedire che si consolidino
situazioni  non  corrispondenti  al  nuovo  assetto  conseguente alla
riforma  del titolo V e che si pregiudichino prerogative e competenze
di sicura spettanza regionale.
    Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed
invasive per le seguenti ragioni di

                            D i r i t t o

    1.  -  Illegittimita'  costituzionale  dell'art. 2 per violazione
dell'art. 119, comma 4 Cost.
    L'art. 2  della  legge  27 dicembre 2002, n. 289, nell'avviare il
programma   di   riforma   fiscale  con  specifico  riferimento  alla
disciplina  dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, introduce
il  principio  secondo  cui  e' consentita una quota di deduzione dal
reddito imponibile, suscettibile di produrre un risparmio di imposta.
    In  particolare  l'art. 2, comma 4, determina i possibili effetti
del  nuovo  sistema  sulle addizionali I.R.P.E.F., stabilendo che «la
deduzione  di  cui  all'art. 10-bis del testo unico delle imposte sui
redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986,  n. 917,  introdotto  dal  comma  1  del presente articolo, non
rileva  ai  fini  della  determinazione  della  base imponibile delle
addizionali  all'imposta  sul  reddito  delle  persone fisiche, fermo
restando,  comunque,  quanto  previsto dall'art. 50, comma 2, secondo
periodo, del decreto legislativo 15 dicembre 1997 n. 446, e dall'art.
1, comma 4 del decreto legislativo 28 settembre 1998, n 360».
    Orbene,  gli  artt. 50,  comma  2, secondo periodo, del d.lgs. 15
dicembre  1997,  n. 446,  e 1, comma 4, del d.lgs. 28 settembre 1998,
n. 360,  comportano  che l'addizionale, regionale e comunale, non sia
dovuta  qualora  per  la  stesso  anno  l'I.R.P.E.F.,  al netto delle
detrazioni e dei crediti riconosciuti rilevanti dal testo unica della
disposizione  sul  reddito delle persone fisiche, non sia a sua volta
dovuta.
    Il che produce una diminuzione delle risorse a disposizione delle
regioni,  senza nel contempo prevedere alcuna misura compensativa, in
contrasto  con  l'art. 119,  comma 4, Cost., la' dove viene stabilito
che  «le  risorse  derivanti  dalle  fonti di cui ai commi precedenti
consentono  ...  alle regioni di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite».
    2.  -  Illegittimita'  costituzionale  degli  art. 3 primo comma.
lett.  a);  artt. 5, 6, 7, 8, 9, ad eccezione del comma 17; 13, terzo
comma, 15 e l6 per violazione degli artt. 117, 118 e 119, Cost.
    Vengono  innanzi  tutto  in  rilevo  le  disposizioni  di  ordine
tributario-finanziario,  in  relazione  alle  quali  le misure a tale
titolo  previste si traducono in una chiara violazione dell'autonomia
impositiva delle regioni, costituzionalmente garantita.
    In  particolare:  l'art. 3,  primo  comma,  lett. a), prevede una
sospensione  degli  aumenti  delle  addizionali  all'I.R.P.E.F. per i
comuni e le regioni e della maggiorazione dell'aliquota I.R.A.P. sino
a  quando non si raggiunga un accordo in sede di conferenza unificata
tra  Stato,  regioni  ed  enti  locali sui meccanismi strutturali del
federalismo fiscale.
    L'art. 5  introduce una serie di modifiche al decreto legislativo
statale  istitutivo  dell'I.R.A.P. (n. 446/1997), destinate a ridurne
il gettito.
    L'art.  6  istituisce  il  concordato  triennale  preventivo, cui
possono   accedere   anche   i  contribuenti  soggetti  all'I.R.A.P.,
definendo  per tre anni la base imponibile anche di tale imposta, con
la  conseguenza  che  gli  eventuali  maggiori imponibili, rispetto a
quello   oggetto   del  concordato,  non  sono  soggetti  all'imposta
suddetta.
    L'art. 7 prevede la definizione automatica dei redditi di impresa
e    di   lavoro   autonomo   per   gli   anni   pregressi   mediante
autoliquidazione.  Tale definizione automatica ha effetto, per quanto
qui  interessa,  anche  ai  fini  delle addizionali I.R.P.E.F. per le
Regioni  e dell'I.R.A.P. e si perferziona con il versamento, mediante
autoliquidazione,   dei  tributi  derivanti  dai  maggiori  ricavi  o
compensi  determinati  sulla  base  dei  criteri  e delle metodologie
stabiliti  con  decreto,  ai sensi del comma 14 della medesima norma.
L'art. 8  prevede  la  integrazione  degli  imponibili  per  gli anni
pregressi  che  puo'  avere  effetto, per quanto qui rileva, anche ai
fini delle addizionali I.R.P.E.F., e dell'I.R.A.P.
    L'art. 9  disciplina  la  definizione  automatica  per  gli  anni
progressi, che riguarda tutte le imposte e tutti i periodi di imposta
per   i   quali   i  termini  per  la  presentazione  delle  relative
dichiarazioni siano scaduti entro il 31 ottobre 2002. Le modalita' di
perfezionamento  di  tale  forma  di  condono  sono  differenziate in
funzione  delle  imposte interessate. Per quanto riguarda l'I.R.A.P.,
si  prevede  il  pagamento  del  18% dell'imposta lorda, se l'imposta
lorda  e'  risultata  di  ammontare  superiore  a Euro 10.000,00 = la
percentuale  applicabile all'eccedenza e' del 16%, mentre per importi
superiori  a  Euro 20.000,00 = si paghera', sull'ulteriore eccedenza,
il 13%.
    L'art.  13  prevede  la  possibilita'  per  le regioni e gli enti
locali di stabilire la riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse
loro  dovute,  nonche'  l'esclusione  o  la  riduzione  dei  relativi
interessi  e  sanzioni,  qualora i contribuenti adempiano ad obblighi
tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti. Il terzo
comma  specifica,  poi,  che,  ai  fini  del  presente  articolo,  si
intendono  tributi  propri della regione i tributi la cui titolarita'
giuridica   ed   il  cui  gettito  siano  alla  stessa  integralmente
attribuiti,  con  esclusione delle compartecipazioni ed addizionali a
tributi   erariali,   nonche'   delle   mere   attribuzioni  ad  enti
territoriali del gettito, totale e parziale, di tributi erariali.
    L'art. 15  prevede  che  possano  formare  oggetto di definizione
agevolata gli avvisi di accertamento, gli inviti al contraddittorio e
i   processi   verbali   di   constatazione   non   ancora  definiti,
relativamente   a  tutte  le  imposte,  ivi  compresa  l'I.R.A.P.,  e
stabilisce le percentuali da corrispondere per la definizione stessa.
    L'art. 16  disciplina la chiusura delle liti fiscali pendenti che
possono  essere  definite,  anche  ove  relative all'I.R.A.P., con il
pagamento delle somme determinate dalla norma stessa.
    Le  forme di condono sopra indicate determinano rilevanti effetti
sostanziali,  tra  cui  l'estinzione  delle  sanzioni  amministrative
tributarie,  comprese  quelle accessorie, relative alle dichiarazioni
condonate.
    Le  suddette  disposizioni  si pongono in contrasto con gli artt.
117  e  119  Cost.,  in  quanto applicabili anche All'I.R.A.P. per le
seguenti considerazioni.
    1.1.  -  Codesta  ecc.ma  Corte  costituzionale  con  la sentenza
n. 138/1999  ha  gia' avuto occasione, in riferimento alla originaria
formulazione  dell'art.  119  Cost.,  di  qualificare l"I.R.A.P. come
tributo  proprio delle regioni contrapponendola alle quote di tributi
erariali.  Tale  qualificazione,  a  maggior  ragione,  vale oggi, in
rapporto alla nuova formulazione della norma costituzionale. Infatti,
era  semmai  la  contrapposizione  dei  tributi  propri alle quote di
tributi  erariali  che  poteva consentire di ricomprendere l'I.R.A.P.
tra  le seconde (ma la Corte lo ha escluso), giacche' si potevano, al
limite,  qualificare  in  tal  modo  quelle  imposte  che,  anche  se
integralmente  percepite  dalle  regioni  (quota del 100%), dovessero
essere disciplinate soltanto dallo Stato. Una soluzione del genere e'
peraltro  esclusa  oggi,  poiche'  nella nuova versione dell'art. 119
Cost.  le  uniche  entrate tributarie, oltre ai tributi propri di cui
regioni ed enti locali possono disporre, sono le compartecipazioni ai
tributi erariali; il diverso termine impiegato dalla norma - non piu'
quote  di  tributi  erariali  ma,  appunto,  compartecipazioni a tali
tributi - e', al riguardo, significativo perche' la compartecipazione
presuppone   una   ripartizione   del  relativo  gettito  con  l'ente
competente  ad  istituire  e  disciplinare il tributo. In definitiva,
l'I.R.A.P. e' annoverabile tra i tributi propri delle regioni perche'
e'  a queste che spetta integralmente il relativo gettito, cosi' come
sono  qualificabili  nello  stesso  modo  tutti i tributi attualmente
esistenti che presentino analoga caratteristica: cio' che conta e' la
spettanza  del  gettito,  perche'  la  competenza  a  disciplinare il
tributo  e'  questione  che  dipende  dal modo in cui la Costituzione
ripartisce,  rispettivamente  tra, lo Stato e le regioni, i poteri in
ordine ai tributi propri delle regioni.
    Quanto  ai  poteri  spettanti  alle  regioni  sui tributi propri,
bisogna,  altresi', considerare che codesta Corte costituzionale, con
la  sentenza  n. 111/1999,  pur  qualificando l'I.R.A.P. come tributo
proprio dello regioni, ha poi escluso che la legge statale istitutiva
(che,  come  e'  noto,  disciplina  compiutamente  ogni aspetto della
predetta   imposta)   violasse  l'autonomia  speciale  della  Regione
Sicilia.  A questa conclusione la Corte e' pervenuta, pero', muovendo
dal  rilievo  che  il disegno abbozzato dallo statuto di tale regione
non  ha  trovato  poi  seguito  nell'ordinamento e le disposizioni di
attuazione  hanno  in  realta'  delineato  un  assetto  completamente
differente,  in  cui la Regione Sicilia viene a disporre, sui tributi
propri,  dei  medesimi  spazi  di autonomia riconosciuti alle regioni
ordinarie  (sentenza  n. 138/1999).  Questi  spazi  di autonomia sono
stati  peraltro  ricostruiti  muovendo  da  una lettura dell'art. 119
Cost.  incentrata  su due elementi tra loro strettamente connessi: la
potesta'   impositiva  e'  conferita  alle  regioni  dalle  leggi  di
coordinamento,  preposte, secondo l'originaria formulazione dell'art.
119,  a  stabilire  le  forme  ed i limiti dell'autonomia finanziaria
delle  regioni  e  ad  attribuire  loro  i  tributi  propri (sentenza
n. 156/1990);  inoltre,  questa  potesta' e' cosa distinta e separata
dalla  potesta'  legislativa di cui all'art. 117, comma primo, Cost.,
con  la  conseguenza  che  non  si  configura  come  potesta' di tipo
concorrente  ma,  semmai,  come  potesta'  attuativa, alla stregua di
quella  prevista  dall'art. 117 u.c. (sentenza n. 355/1998 e sentenza
n. 295/1993).  Sono  questi  i  presupposti che hanno consentito alla
Corte   costituzionale   di  dichiarare  infondata  la  questione  di
costituzionalita'    relativa   all'insufficiente   spazio   lasciato
all'autonomia normativa regionale dalla disciplina statale istitutiva
dell'I.R.A.P.;  senonche'  essi  non  valgono  a  far ritenere per la
stesso motivo legittime le disposizioni della legge finanziaria 2003,
qui impugnate.
    Entrambi  i  suddetti  presupposti  sono,  infatti, venuti meno a
seguito della modifica del titolo V della Costituzione. Per un verso,
la  potesta'  l'impositiva e' riconosciuta direttamente dall'art. 119
Cost.,  in quanto la legge statale non e' piu' preordinata a definire
le  forme  e  di  limiti  dell'autonomia  finanziaria  ed in quanto i
tributi  propri  non  sono  piu'  attribuiti da tale legge. Per altro
verso,  per  l'esercizio  di questa potesta' l'art. 117 riconosce una
competenza   legislativa   di  tipo  esclusivo:  infatti  il  sistema
tributario  statale  e'  stato  eretto a distinta e specifica materia
dall'art. 117, comma secondo, che attribuisce alla potesta' esclusiva
dello Stato la disciplina del suo sistema contabile e tributario, con
la  conseguenza  che,  poiche'  manca,  invece,  nella elencazione di
materie  dell'art.  117  qualsiasi  riferimento al sistema tributario
delle  regioni e degli enti locali, bisogna concludere che queste due
materie,   in  quanto  non  altrimenti  attribuite,  rientrano  nella
potesta'  residuale,  di  tipo  esclusivo,  delle  regioni,  ai sensi
dell'art. 117, comma quarto.
    In  tale diverso contesto, gli unici limiti che possono frapporsi
all'esercizio, da parte delle regioni, della loro potesta' impositiva
sono  ravvisabili  nella competenza concorrente dello Stata in ordine
al  coordinamento  del  sistema  tributario e della finanza pubblica,
materia  in  ordine  alla  quale  lo  Stato puo', quindi, intervenire
esclusivamente   in   relazione   alla  «fissazione  di  principi  di
coordinamento  della  finanza  pubblica e del sistema tributario»; il
che  significa  che  lo  Stato  deve limitarsi a definire gli ambiti,
individuando  ad esempio tetti massimi e limiti non valicabili, entro
cui puo' essere esercitata la potesta' impositiva dei vari livelli di
governo,  ma  non  certa  a definire disposizioni di dettaglio atte a
costringere   in   maniere  vincolante  l'espressione  dell'attivita'
legislativa e amministrativa degli altri autonomi livelli di governo.
    Da  tutto  cio'  bisogna,  quindi,  trarre  la conclusione che, a
seguito dell'entrata in vigore del nuovo titolo V della Costituzione,
lo  Stato  ha perso il potere di emanare, in ordine ai tributi propri
delle   regioni,   disposizioni   del   tipo   di   quelle  istintive
dell'I.R.A.P. e che disposizioni statali del genere restano in vigore
fino  a  quando  le  regioni  non  provvedano  e modificarle mediante
resercizio  della loro potesta' legislativa. Ulteriore conclusione e'
che  lo  Stato ha perso il potere di emanare disposizioni del tipo di
quelle  impugnate con il presente motivo di ricorso, tenuto conto che
queste,  invece  di definire l'ambito della potesta' impositiva delle
regioni   (ambito   gia'   definito   dalla   attribuzione   ad  esse
dell'I.R.A.P.  e  non  modificato  dalle  disposizioni in questione),
disciplinano  questa  forma  di  prelievo  e lo fanno addirittura con
norme di dettaglio, riducendone per di piu' il gettito.
    1.2.  -  Cio'  premesso,  piu'  specificamente  in relazione alle
singole norme censurate, si evidenzia;
    1.2.1.   -   L'art. 3,   come  rilevato,  sospende  la  potesta',
riconosciuta  alle  regioni  ed  agli  enti  locali  dalla previgente
disciplina   statale,  di  aumentare  l'addizionale  I.R.P.E.F.  loro
spettante e quella riconosciuta alle regioni di maggiorare l'aliquota
I.R.A.P. rispetto a quella stabilita dalla legge istitutiva. La norma
appare,  per  entrambi  i  profili,  in  contrasto  con la piu' ampia
autonomia   impositiva   riconosciuta   dal   nuovo  titolo  V  della
Costituzione.
    Quanto  alla  aliquota  I.RA.P. valgono i rilievi precedentemente
svolti,  nel  senso  che,  trattandosi  di  un  tributo proprio delle
regioni,  la legge statale di coordinamento puo' semmai stabilire una
aliquota  massima  e  puo'  semmai  successivamente modificare questo
limite, ma certamente non puo' paralizzare l'esercizio dell'autonomia
regionale,  con l'esito di impedire un aumento dell'aliquota a quelle
regioni che non abbiano a cio' provveduto entro una certa data.
    Cosi' facendo, infatti, si determina il blocco di un fondamentale
canale  di  finanziamento  delle  competenze regionali, senza neppure
stabilire  un  termine  certo  di  durata della sospensione disposta.
Poiche',  come  e'  noto,  il bilancio regionale deve necessariamente
chiudere  in  pareggio,  la  carenza  di  risorse  finanziari  che la
disposta  sospensione  che  si realizzano tramite l'allocazione delle
risorse   libere.  Percio',  la  disposizione  viola  sicuramente  il
principio  di  «autosufficienza  finanziaria»  sancito dall'art. 119,
comma  terzo,  Cost.  e  non  consente  l'ordinario  esercizio  delle
competenze proprie della Regione di cui agli artt. 117, 118, Cost.
    Cio'  risulta  particolarmente  evidente e grave se solo si legge
l'art.  3 insieme all'art. 30, comma 15, che colpisce con la sanzione
radicale  della  nullita'  gli  atti  e  i contratti con cui gli enti
territoriali ricorrono all'indebitamento per finanziare spese diverse
da quelle di investimento.
    Quanto  all'addizionale  I.R.P.E.F., l'ambito di intervento della
legge   statale   di  coordinamento  e'  certamente  piu'  ampio:  le
addizionali  influiscono,  infatti,  sulla base imponibile e, quindi,
sul  gettito  di  tributi  erariali per cui, nonostante si tratti pur
sempre  di  tributi  propri,  e'  possibile ritenere che sia la legge
statale  di  coordinamento  ad  attribuire la potesta' di istituirle,
proprio  per la funzione, svolta da tale legge, di definire l'area di
prelievo  spettante  a  ciascun livello di governo e di evitare cosi'
che  ciascuno  di  essi  sia  disturbato  dal  modo  in cui gli altri
esercitano  le  loro  potesta'. Tutto cio' non e' pero' sufficiente a
rendere  plausibili misure sospensive da parte della legge statale di
coordinamento,  perche'  delle  due  l'una:  o la podesta' degli enti
autonomi, per il modo in cui era stata precedentemente definita dalla
legge  statale,  compromette la politica di prelievo dello Stato, nel
caso essa va ridefinita in termini generali e con effetto anche sulle
decisioni  adottate da tali enti prima di una certa data; oppure tale
potesta'  non  compromette  la  politica di prelievo dello Stato, nel
caso non vi e' motivo di limitarne l'esercizio.
    Per  entrambi  i  profili,  sia  quello relativo all'I.R.A.P. che
quello  concernente  l'addizionale  I.R.P.E.F.,  la norma appare, poi
incostituzionale perche' a sospensione del potere degli enti autonomi
di  determinare  le aliquote e' disposta sine die, «fino a quando non
si   raggiunga   un   accordo  ...  sui  meccanismi  strutturali  del
federalismo fiscale».
    Insomma,  il  legislatore  addiviene  ad una simile decisione con
percorso a dir poco incongruo ed irrazionale: siccome la modifica del
titolo  V  della  Costituzione  ha ampliato le potesta' impositive di
regioni  ed  enti  locali,  e'  necessario  sospendere  i poteri gia'
riconosciuti   a   tali  enti,  in  attesa  di  definire  il  sistema
complessivo  entro  cui  questa  maggiore autonomia va esercitata, al
fine  di avviare l'attuazione del federalismo fiscale la disposizione
a  impugnata  finisce  per  eliminare spazi di esercizio di autonomia
impositiva che le regioni avevano gia' in precedenza.
    L'incongruenza   e   l'irrazionalita'   di   tale   iter   logico
argomentativo  sono  rese  evidenti  dal  fatto che l'esigenza di una
preventiva  definizione  dei  «meccanismi strutturali del federalismo
fiscale», se mai potesse giustificare la sospensione dei nuovi poteri
riconosciuti  dalla  modifica  del  titolo  V della Costituzione, non
potrebbe  certo  legittimare la sospensione di quelli di cui gli enti
gia' dispongono sulla base delle previgenti norme costituzionali.
    1.2.2.  - Con riferimento all'art. 5 e alle disposizioni relative
ai  vari  tipi  di condono introdotti, applicabili anche all'I.R.A.P.
(6, 7, 8, 9, 15 e 16), valgono i rilievi svolti al precedente punto l
nel senso che, essendo I.R.A.P. un tributo proprio della regione, la
legge  statale non puo' dettare disposizioni di dettaglio per ridurne
il   gettito,   per   disciplinare   le   modalita'  di  applicazione
dell'imposta e per determinare misure di condono fiscale in ordine ad
imposte  che  non sono proprie, ma deve limitarsi a dettare norme per
il  coordinamento  finanziario  dei  diversi  livelli  di  governo e,
percio',  solo a definire gli ambiti entro cui puo' essere esercitata
la  potesta'  impositiva  dei  soggetti cui la stessa e' direttamente
attribuita dall'art. 119 Cost.
    1.2.3.  -  L'art.  13  della  legge finanziaria 2003 autorizza le
regioni  e  gli  enti  locali  ad introdurre e disciplinare misure di
condono  fiscale relative ai loro tributi propri e, a questo fine, al
terzo comma stabilisce che «si intendono tributi propri ... i tributi
la  cui  titolarita'  giuridica ed il cui gettito siano integralmente
attribuiti  ai  predetti enti, con esclusione delle compartecipazioni
ed addizionali a tributi erariali, nonche' delle mere attribuzioni ad
enti   territoriali  del  gettito,  totale  o  parziale,  di  tributi
erariali».
    Tale  disposizione  contiene  una  definizione  che esclude dalla
categoria   dei   tributi   propri  «le  mere  attribuzioni  ad  enti
territoriali del gettito totale ... di tributi erariali», volendo con
cio'  affermare  che un tributo e' erariale per il solo fatto che sia
disciplinato dallo Stato.
    Ma   questa   definizione   contrasta   con   la   giurisprudenza
costituzionale  che, come si e' visto, ha ritenuto, gia' in relazione
alla  originaria  formulazione  dell'art.  119,  che  per  delimitare
l'ambito  dei  tributi  propri e' rilevante esclusivamente il profilo
della spettanza del relativo gettito e che debbono essere qualificati
in  tal modo tutti i tributi il cui gettito spetti integralmente alle
regioni.  Del  resto,  anche  ad  ignorare  tutto  cio',  non sarebbe
comunque  possibile  qualificare l'I.R.A.P. come tributo erariale per
il  solo  fatto che la relativa disciplina e' stabilita integralmente
dalla  legge  dello Stato. infatti, a seguito della entrata in vigore
del nuovo art. 119 Cost., tale disciplina continua a regolamentare la
predetta  imposta soltanto in via transitoria e, cioe', fino a quando
le  regioni  non  esercitino la loro potesta' legislativa, per cui lo
Stato  ha  perso  il  potere  di  modificarla,  cosi'  come quello di
neutralizzarne  gli  effetti  mediante  la  introduzione di misure di
condono  e  sono,  semmai,  le  regioni  a  poter adottare misure del
genere.
    Per  tutti i suddetti motivi, pertanto, le impugnate disposizioni
sono illegittime per violazione degli artt. 117 118 e 119 Cost.
    3.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 24 per violazione
dell'art. 117 Cost.
    L'art. 24    dispone    l'obbligo    per    le    amministrazioni
aggiudicatrici, come individuate nell'art. 1 del d.lgs. n. 358/1992 e
nell'art. 2  del  d.lgs.  n. 157/1995,  di  ricorrere  alle procedure
comunitarie per l'acquisizione di beni e servizi di importo superiore
a  Euro  50.000,  in  relazione  alle  procedure «aperte o ristrette»
(senza alcun riferimento, quindi, alle procedure negoziate: in primis
la  trattativa  privata o gara informale, cui si fa ricorso anche per
l'effettuazione  delle  spese  in  economia),  in  sostanza essendosi
determinato  l'abbassamento  della  soglia  per  l'applicazione della
normativa comunitaria, da 200.000 DSP (249,000 euro) a 50.000 euro.
    Il secondo comma prevede, poi, l'esclusione dal suddetto obbligo:
per  i  comuni  con  popolazione  inferiore  a  5000 abitanti; per le
amministrazioni  pubbliche  che  facciano  ricorso  alle  convenzioni
quadro  definite  dalla CONSIP S.p.a., o al mercato elettronico della
P.A.; per le cooperative sociali. E' inoltre previsto che i contratti
stipulati  in violazione del comma 1 siano nulli, con responsabilita'
personale del dipendente che ha sottoscritto il contratto; ed ancora,
che  anche  nelle  ipotesi  in  cui  la  vigente normativa ammette la
trattativa  privata  e'  fatto  obbligo  per  le  amministrazioni  di
ricorrervi solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di
una  documentata  indagine di mercato, con comunicazione alla sezione
regionale della Corte dei conti.
    Il  nono comma stabilisce, poi, che le disposizioni contenute nei
commi  1,  2 e 5 costituiscono per le regioni norme di principio e di
coordinamento.
    Senonche', la disciplina delle acquisizioni di appalti, servizi e
forniture,  per  la  parte che non concerne le acquisizioni di beni e
servizi  da parte delle amministrazioni statali, e' da ascrivere alla
potesta' normativa generale, residuale ed esclusiva delle regioni, ai
sensi  dell'art. 117,  quarto comma, Cost., fermo restando ovviamente
il rispetto dei vincoli comunitari.
    Con la norma in esame lo Stato ha individuato, invece, un sistema
per  legiferare  con effetti vincolanti in un campo non assegnato ne'
alla sua potesta' normativa esclusiva, ne' alla potesta' concorrente;
mentre  la  dichiarata  riconduzione della materia degli appalti alla
tutela  della  concorrenza e della trasparenza del mercato non appare
affatto convincente, come si dira'.
    Sotto  tale profilo, l'art. 24 mira ad autolegittimarsi sul piano
costituzionale,  allorche'  esordisce  con  il  richiamo a ragioni di
«trasparenza  e di tutela della concorrenza». Ma e' evidente che, pur
qualificandosi come disposizione mirata a tutelare la concorrenza, la
norma  in  questione non ha, in realta', un chiaro contenuto relativo
alla predetta materia.
    Infatti,  tale  norma  agisce sulle procedure di gara, prevedendo
che  si applichino le procedure comunitarie anche per le acquisizioni
di beni e servizi di valore superiore a 50.000 Euro, ma non introduce
alcuna  nuova  regola  di  tutela  o  di  sviluppo della concorrenza;
obiettivo  che,  al  contrario,  viene addirittura contraddetto dalle
stesse disposizioni contenute nell'art. 24, che prevedono consistenti
eccezioni  derogatorie  alla  regola  di «tutela» affermata nel primo
comma.
    La  prima  di  queste eccezioni e' l'esenzione, dall'applicazione
del  sistema  comunitario  richiamato  al  comma 1, nei confronti dei
comuni  con  popolazione  inferiore  a  5000  ab.,  il cui effetto e'
permettere  a  ben 7000 e piu' stazioni appaltanti di porre in essere
un regime differenziato, che non puo' non incidere sulla composizione
dello  stesso  mercato,  determinando la differenziazione fra imprese
specializzate  nel  partecipare  alle gare per enti locali di piccole
dimensioni e imprese in grado di concorrere in un mercato piu' ampio.
II  che  appare  contrario  all'obiettivo  della  concorrenza e della
tutela  del  mercato,  che  non  e'  certo  quello di creare nicchie,
peraltro  di  economia  debole,  ma  di  favorire  l'allargamento del
mercato.
    La  seconda  e  piu'  problematica  esenzione  dalla applicazione
dell'art. 24   e'   prevista   nei  confronti  delle  amministrazioni
pubbliche  che  facciano  ricorso  alle  convenzioni  con  il CONSIP,
soggetto legittimato a fungere da stazione appaltante. Ma di certo il
sistema  dell'acquisizione  di  beni  e  servizi  con  le convenzioni
CONSIP, in luogo delle gare, non facilita la concorrenza nel mercato,
visto  che  riduce  sensibilmente la possibilita' di partecipazione a
gare  pubbliche,  da  un  lato,  ed impone forzosamente un prezziario
(frutto  di  ribassi  in  gare pubbliche) che deve costituire base di
gara  nei  casi in cui le amministrazioni procedano al di fiori delle
convezioni  medesime,  dall'altro.  Senza  considerare,  altresi', la
ancora  limitata  capacita'  di  tale organismo di corrispondere alle
variegate  tipologie  di  beni e servizi necessari per l'attivita' di
una  pluralita'  di  amministrazioni  appaltanti (comuni, regione, ma
anche aziende sanitarie).
    E'   evidente   che  tale  disposizione  non  tutela  affatto  la
concorrenza   e  non  ha  come  fine  l'estensione  del  mercato,  ma
all'opposto,  produce  una  forte  limitazione, ovvero un consistente
orientamento   del   mercato  medesimo.  Non  sussistono,  quindi,  i
presupposti   legittimanti  l'esercizio  della  potesta'  legislativa
esclusiva  dello Stato, ammantata delle dichiarate esigenze di tutela
della trasparenza e della concorrenza: le invocate esigenze di tutela
della  concorrenza (che farebbero scattare la competenza esclusiva ai
sensi  dell'art. 117,  secondo  comma,  lett.  e)) non paiono infatti
ricorrere  ove  si  abbia riguardo alla accezione in cui e' intesa la
tutela  della concorrenza, che attiene alla disciplina dei mercati in
senso  proprio,  a regole antitrust e a interventi volti a correggere
effetti  distorsivi e di abuso di posizione dominante, condizioni che
non  sono  perseguite  dalla  norma  in  esame e che non legittimano,
pertanto,  un  intervento  dello Stato penetrante e di dettaglio come
quello  in  esame.  Non  basta,  infatti, l'autoqualificazione di una
norma  per  legittimarla come limite costituzionale (come dimostra la
costante   giurisprudenza   di   codesta   stessa   Corte,   che   ha
sistematicamente negato ai legislatore statale il potere di definire,
con  effetti  per  cosi'  dire  «vincolanti»,  cio' che e' «principio
fondamentale»,  «norma  fondamentale  di  riforma economico-sociale»,
ecc.),  dovendo  la  autoqualificazione  della norma essere accertata
secondo  criteri  di  ragionevolezza  e proporzionalita'. Il che, nel
caso presente, pone il problema di se e in che termini possa tutelare
la  concorrenza  un'applicazione  sottosoglia,  rispetto  al  dato di
riferimento precedente, di procedure europee (ma con esclusione delle
procedure CONSIP e dei 7000 comuni minori) il cui costo in termini di
appesantimento  amministrativo  non  pare giustificato dai risultati,
meramente  ipotetici, che si potrebbero raggiungere per il solo fatto
di imporre, ma solo ad una parte delle amministrazioni pubbliche, una
forte   limitazione   del   ricorso   alla   trattativa  privata  per
l'acquisizione  di  beni e servizi essenziali. Ne', d'altra parte, le
ragioni  di  trasparenza  possono costituire, ai sensi dell'art. 117,
secondo  comma,  un  titolo  legittimante l'intervento della potesta'
esclusiva  dello  Stato,  attraverso una disciplina cosi' analitica e
non   graduabile   secondo   le   circostanze,   la   qualita'  delle
amministrazioni, la tipologia dei beni e dei servizi.
    Ma un altro rilievo si impone.
    La  norma in esame, al nono comma, stabilisce che le disposizioni
contenute  nei  commi 1, 2 e 5, costituiscono norme di principio e di
coordinamento:  il  che desta disorientamento ancora maggiore. Emerge
qui un'insanabile contraddizione.
    Da   un   lato,   infatti,   la   norma   si  autolegittima  come
regolamentazione  di una materia appartenente alla potesta' normativa
esclusiva  dello  Stato,  «la tutela della concorrenza»; dall'altro e
contemporaneamente,  nel  suo  ultimo  comma  la  medesima  norma  si
qualifica  come  «principio»,  sottintendendo  una collocazione della
«materia»  acquisizione  di  beni  e  di  servizi  nell'ambito  della
competenza  concorrente. Delle due l'una: o l'intervento normativo di
cui   all'art. 24   e'  fondato  sulla  materia  della  tutela  della
concorrenza,   e   allora   non   esprime   un   principio,   ma  una
regolamentazione  che trova fonte nella competenza esclusiva e che e'
immediatamente  vincolante  per  le Regioni; ovvero, al contrario, si
tratta  di  un  «principio»,  e  allora  e' necessario in primo luogo
dichiarare  quale  sia  la  competenza  concorrente  cui si riferisce
(poiche'  non  si puo' prescindere «dalla indagine sulla esistenza di
riserve,  esclusive  o  parziali,  di  competenza  statale»,  come ha
affermato  codesta  Corte  nella sent. 282/2002) e, in secondo luogo,
verificare   se   il   tenore  della  disposizione  stessa  abbia  le
caratteristiche   proprie   di  un  «principio  fondamentale».  Sotto
quest'ultimo   profilo,   va   osservato   che  non  potrebbe  essere
accreditata  come  «principio  fondamentale»  la  norma che introduce
contestualmente  deroghe vistose al principio stesso (escludendo, nel
caso,  la  maggior  parte  dei  comuni  dal  suo rispetto, nonche' le
amministrazioni  che  ricorrano  a procedure di acquisizione di assai
dubbia  compatibilita'  con  l'affermata  esigenza  di  espandere  il
«mercato»  e  la  concorrenza),  cosi' come e' tradizionale affermare
della giurisprudenza di codesta Corte.
    4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 25.
    L'art.  25  si  occupa  del  pagamento  e  riscossine di somme di
modesto   ammontare,   e   prevede,  fra  l'altro,  che  il  Ministro
dell'economia   detti,   ai   sensi  dell'art.  17,  comma  2,  legge
n. 400/1988,  «disposizioni  relative alla disciplina del pagamento e
della  riscossione  di  crediti  di  modesto ammontare e di qualsiasi
natura, anche tributaria», applicabili anche alle regioni.
    In  relazione  ai  crediti  delle  regioni, l'art. 25 non risulta
riconducibile  ad  alcuna delle competenze statali, ne' esclusive ne'
concorrenti.  Se, guardando al fine della norma, che sembra quello di
razionalizzare  le  spese connesse al pagamento e alla riscossione di
somme  modeste, si ritenesse che l'art. 25 sia norma di coordinamento
della finanza pubblica, esso sarebbe comunque lesivo delle competenze
in  quanto l'unico principio fondamentale in materia potrebbe essere,
appunto, quello di limitare o eliminare le spese di cui sopra, mentre
la  disciplina  attuativa  dovrebbe  essere  dettata  dalle  regioni.
Invece,  l'art.  25 non si limita a tale principio fondamentale, come
risulta chiaramente dai commi 2, 3 e 4, recante norme di dettaglio.
    Inoltre, ancora piu' evidente e' la lesivita' della previsione di
un  regolamento ministeriale di delegificazione in materia regionale.
Poiche'  l'art.  117,  comma 6, attribuisce alle regioni la potersta'
regolamentare, salvo che nelle materie di potesta' statale esclusiva,
l'art.  25,  comma  1,  prevedendo  un  regolamento  applicabile alle
regioni  in  materia  non  rientrante nell'art. 117, comma 2, lede la
sfera di competenza costituzionale regionale.
    5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, commi 1, secondo
periodo, 2 e 3.
    L'art. 26 istituisce il fondo per il finanziamento di progetti di
innovazione  tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese,
e  prevede che con decreti ministeriali «di natura non regolamentare»
siano   stabilite   le   modalita'  di  funzionamento  del  fondo  ed
individuati  «i progetti da finanziare e, ove necessario, la relativa
ripartizione  tra le amministrazioni interessate» (comma 1). Al comma
2  si  attribuiscono  al  Ministro  per  l'innovazione,  al  fine  di
razionalizzare  la  spesa  informatica  nonche'  «di  indirizzare gli
investimenti   nelle   tecnologie   informatiche»,   svariati  poteri
paranormativi    ed    amministrativi   (di   direttiva,   controllo,
coordinamento,  valutazione,  approvazione  di  piani  e  progetti ed
altri),  con norme di dettaglio. Al comma 3 si prevede che, «nei casi
in cui i progetti di cui ai commi 1 e 2 riguardino l'organizzazione e
la  dotazione  tecnologica delle regioni e degli enti territoriali, i
provvedimenti sono adottati sentita la Conferenza unificata».
    Tale  disciplina;  la'  dove  si  applica alle Regioni, agli enti
pararegionali e agli enti locali, riguarda l'organizzazione regionale
e  degli enti locali materie di competenza regionale piena, salvi gli
organi  di  governo degli enti locali), e la gestione ministeriale di
un   fondo   settoriale  in  una  materia  regionale  risulta  lesiva
dell'autonomia finanziaria regionale, dato che le Regioni dovrebbero,
in  base ai principi di cui all'art. 119, poter gestire autonomamente
le risorse nelle materie di propria competenza. Risultano lese poi le
potesta'  legislativa ed amministrativa, in quanto si conferiscono al
Ministro  (con norme dettagliate) poteri sostanzialmente normativi ed
amministrativi  in  materia  regionale. Ne' si puo' invocare il fatto
che   l'art.   26,   comma   1,  parli  di  decreti  «di  natura  non
regolamentare»: se per le fonti primarie i criteri di identificazione
sono  prettamente  formali,  per  le  fonti secondarie, come noto, si
ricorre soprattutto a criteri sostanziali, e la legge non puo' mutare
la natura dell'atto attribuendogli una certa «etichetta», perche', se
un   atto   contiene   precetti   generali   e  astratti,  innovativi
dell'ordinamento,  esso  non  puo'  che essere sovraordinato (e cioe'
normativo)  agli  atti  amministrativi  esecutivi. Del resto, sarebbe
troppo  facile  «aggirare»  l'art. 117,  comma 6, se la legge statale
potesse  attribuire  poteri sostanzialmente normativi al Governo solo
evitando  il  nomem,  di  regolamento.  Dunque, il comma 1 prevede un
potere  sostanzialmente regolamentare e, in violazione dell'art. 117,
commi 4 e 6.
    Neppure  le  suddette lesioni vengono meno per il previsto parere
della  Conferenza  unificata  di cui al comma 3, essendo il parere un
mero strumento di partecipazione e per di piu' assai debole.
    A  conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 26 fosse
ricondotto  alla  materia del «sostegno all'innovazione per i settori
produttivi»,  che,  a  dire  il  vero,  sembra  fare riferimento alle
imprese  e non alle pubbliche amministrazioni. Comunque, tale materia
e'  di  potesta' concorrente, per cui in essa «spetta alle Regioni la
potesta'  legislativa,  salvo  che per la determinazione dei principi
fondamentali,  riservata  alla legislazione dello Stato». Anche nelle
materie concorrenti sono preclusi regolamenti statali (vedi art. 117,
comma 6) e spetta alle Regioni allocare le funzioni amministrative:
    infatti  l'art.  118,  comma  2,  fa  riferimento alle competenze
legislative  e,  come  visto,  l'art. 117,  comma 3, attribuisce alle
Regioni  la  potesta'  legislativa nelle materie concorrenti (salvi i
principi).  Del  resto,  che  nelle  materie  concorrenti le funzioni
amministrative  debbano  essere  regolate dalle Regioni e' confermato
con   chiarezza   dall'art. 117,   comma  6,  dato  che  la  potesta'
regolamentare si accompagna naturaliter alle funzioni amministrative.
Cio'  non  toglie, ovviamente, che lo Stato possa trattenere funzioni
amministrative  fondate  sui  compiti  ad esso spettanti ex art. 117,
comma  2,  anche  se  interferenti  con  materie regionali: ma non e'
questo il caso. Dunque, se anche l'art. 26 riguardasse una materia di
potesta'   concorrente,   le   lesioni   sopra  viste  dell'autonomia
finanziaria, legislativa ed amministrativa non verrebbero meno.
    In  definitiva,  l'art. 26,  commi  1, 2 e 3, risulta illegittimo
nella  parte  in  cui  attribuisce  al  Ministro  poteri normativi ed
amministrativi relativi alla gestione del fondo in questione anche in
relazione  alle  Regioni, agli enti pararegionali e agli enti locali,
anziche'  prevedere la mera ripartizione del fondo tra le Regioni. In
subordine,  esso  risulta  illegittimo nella parte in cui non prevede
che i poteri statali siano esercitati previa intesa con la Conferenza
unificata,  dato  che  nelle  materie regionali il principio di leale
collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati.
    6. - Illegittimita' dell'art. 27.
    L'art. 27  istituisce  un  «Fondo  speciale,  denominato  "PC  ai
giovani"»,  destinato  a  coprire  le  spese  del  relativo  progetto
promosso  dal  Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie e volto
ad   incentivare   l'acquisizione   e   l'utilizzo   degli  strumenti
informatici  e  digitali  tra  i giovani che compiono sedici anni nel
2003».  La  disposizione  prevede  che  con  decreto ministeriale «di
natura non regolamentare», adottato dal Ministro dell'economia, siano
«stabilite   le   modalita'  di  presentazione  delle  istanze  degli
interessati,  nonche' di erogazione degli incentivi stessi prevedendo
anche  la  possibilita' di avvalersi a, tal fine della collaborazione
di organismi esterni alla pubblica amministrazione».
    Non  e'  facile collocare tale disciplina in una materia precisa,
ma di certo essa non rientra in nessuna delle materie di cui all'art.
117,  commi  2  e  3, dato che il «sostegno all'innovazione» riguarda
specificamente  i  «settori  produttivi»  e  «l'istruzione»  potrebbe
essere  invocata  solo  se  il  progetto  venisse  attuato  in ambito
scolastico,  mentre  i  destinatari  sono  i  giovani in generale. La
disposizione  in  questione,  dunque,  ricade  nella competenza piena
delle Regioni. Ora, per le ragioni gia' esposte nel punto precedente,
la  gestione  ministeriale  di  un  fondo  settoriale  in una materia
regionale   risulta   lesiva  dell'autonomia  finanziaria  regionale.
Risultano  lese  poi  le  potesta'  legislativa ed amministrativa, in
quanto  si  conferiscono  al  Ministro (con norme dettagliate) poteri
sostanzialmente   normativi  (vedi  sempre  il  motivo  n. 5)  ed  al
Dipartimento  per  l'innovazione  poteri  amministrativi  in  materia
regionale. A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 27
fosse ricondotto ad una materia di potesta' concorrente.
    In  definitiva  l'art. 27  risulta illegittimo nella parte in cui
attribuisce  al  Ministro  e al Dipartimento per l'innovazione poteri
normativi  ed  amministrativi  relativi  alla  gestione  del fondo in
questione,  anziche'  prevedere la mera ripartizione del fondo tra le
Regioni.  In  subordine,  esso risulta illegittimo nella parte in cui
non prevede che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa
intesa  con  la  Conferenza  Stato-Regioni,  dato  che  nelle materie
regionali   il   principio   di   leale   collaborazione   impone  un
Coordinamento fra i soggetti interessati.
    7. - Illegittimita' dell'art. 28, commi 5 e 6.
    L'art.  28,  comma  3,  della  legge qui impugnata stabilisce che
«tutti  gli  incassi  e  i pagamenti e i dati di competenza economica
rilevati dalle amministrazioni pubbliche ... devono essere codificati
con  criteri  uniformi  su tutto il territorio nazionale», al fine di
garantire la rispondenza dei conti pubblici all'art. 104 Trattato CE.
Il  comma  5  dispone che «il Ministro dell'economia e delle finanze,
sentita la Conferenza unificata ..., stabilisce ... la codificazione,
le  modalita' e i tempi per l'attuazione delle disposizioni di cui ai
commi 3 e 4».
    Queste disposizioni possono ascriversi alla competenza statale in
materia  di  «coordinamento informativo», ma risulta in contrasto con
il  principio di leale collaborazione la previsione di un mero parere
anziche'   di   un'intesa   con  la  Conferenza  unificata.  Infatti,
trattandosi   di  definire  le  modalita'  di  rilevazione  dei  dati
economici  da  parte  di  tutte  le  amministrazioni  pubbliche, pare
necessario  che  tali  modalita'  siano  concordate da tutti gli enti
territoriali.  Infatti,  le  competenze  statali devono esercitate in
modo  da  tener  conto  delle competenze regionali interferenti: ora,
poiche'  la  codificazione  di  cui  sopra  incide  in modo rilevante
sull'organizzazione    regionale    e    degli    enti   locali,   e'
costituzionalmente  necessario  che essa sia definita d'intesa con la
Conferenza    unificata,   in   virtu'   del   principio   di   leale
collaborazione.
    Il  comma 6 dell'art. 28 sostituisce il comma 6 dell'art. 227 del
d.lgs.   n. 267/2000,   stabilendo   che   gli  enti  locali  inviano
telematicamente il rendiconto della gestione alla Sezione enti locali
della  Corte  dei  conti  e  che  «tempi,  modalita'  e protocollo di
comunicazione  per la trasmissione telematica dei dati sono stabiliti
con  decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e
delle finanze, sentita la Conferenza Stato, citta' e autonomie locali
e la Corte dei conti».
    Ammesso   che  anche  tale  disposizione  possa  ricondursi  alla
competenza  statale  in materia di «coordinamento informativo», e non
riguardi  invece  solo  l'organizzazione degli enti locali (avendo ad
oggetto  le  modalita' della trasmissione telematica del rendiconto),
e'  comunque  certo  che  essa  incide  su  tale organizzazione. Ora,
poiche'  l'organizzazione  degli  enti  locali rientra nella potesta'
regionale  piena  (salvi  gli  organi  di  governo)  e nell'autonomia
regolamentare  degli  stessi  enti  locali, non e' sufficiente che il
decreto  sostanzialmente  regolamentare  previsto  dal  comma  6  sia
emanato  con  il  solo  parere  della  Conferenza Stato-citta', ma e'
costituzionalmeute  necessario,  in  virtu'  del  principio  di leale
collaborazione,  che esso sia emanato previa intesa con la Conferenza
unificata.
    8. - Illeggittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1, 2, 5 e
15, per violazione degli articoli 117 e 119 Cost.
      L'art. 30,  al  primo comma, stabilisce che, al fine di avviare
l'attuazione dell'art. 119 Cost. e in attesa di definire le modalita'
per   il   passaggio   al  sistema  di  finanziamento  attraverso  la
fiscalita',  entro  sei  mesi  dall'entrata in vigore della legge, il
Ministro  dell'economia  e delle finanze, di concerto con il Ministro
per   gli   affari  regionali  e  con  il  Ministro  per  le  riforme
istituzionali  e  la  devoluzione  e  con  le Amministrazioni statali
interessate,  di  intesa  con  la  Conferenza unificata, procede alla
ricognizione  di tutti i trasferimenti erariali di parte corrente non
localizzati, attualmente attribuiti alle Regioni, per farli confluire
in  un  fondo  unico da istituire presso il Ministero dell'economia e
delle  finanze e da ripartire secondo criteri fissati d'intesa con la
Conferenza unificata.
    Tale  disposizione,  pur  giustificata dalla finalita' di avviare
l'attuazione  dell'art. 119,  si  pone in realta' in contrasto con il
sistema    di    finanziamento   delineato   dalla   suddetta   norma
costituzionale  e  con le competenze legislative regionali in tema di
finanza e sistema tributario regionale, derivanti dall'art. 117. Come
gia'  si  e' evidenziato in relazione al primo motivo del ricorso con
riguardo  alle  disposizioni  di  cui  all'art. 3, in base alla nuova
formulazione    dell'art. 119   la   Regione   consegue   l'autonomia
finanziaria   di   entrata   e  di  spesa  direttamente  dalla  norma
costituzionale, con la conseguenza che in subiecta materia la Regione
non e' piu' dipendente e limitata dalla legislazione statale, dovendo
rispettare   soltanto  i  principi  di  coordinamento  della  finanza
pubblica,  atteso  che,  inoltre,  l'art. 117 include nelle materie a
legislazione  concorrente  l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
    Ora,  la  disposizione impugnata non esprime affatto un principio
di  coordinamento, ma si limita a rinviare l'attuazione dell'art. 119
(e, in forza delle disposizioni introdotte con l'art. 3, a sospendere
gli  aumenti delle addizionali lrpef e di maggiorazione dell'aliquota
dell'Irap,  successive al 29 settembre 2002, fino alla definizione di
un  futuro  accordo  in  sede  di  Conferenza unificata), finendo con
l'eliminare,  in  tal  modo,  gli  spazi  di esercizio dell'autonomia
impositiva delle Regioni ed impedendo, di fatto, ogni possibilita' di
assumere, da parte di tali Enti qualsiasi decisione di spesa.
    Il che si traduce nel mancato rispetto delle competenze regionali
in materia.
    Ma  anche  il  secondo  comma  dell'art. 30  presenta un evidente
profilo di incostituzionalita', in quanto, nel regolamentare il fondo
di  cofinanziamento dell'offerta turistica e i criteri di riparto, la
disposizione  statale  incide  in una materia di competenza esclusiva
regionale, senza che sia ravvisabile alcun principio giustificativo.
    Il quinto comma dello stesso art. 30 risulta illegittimo perche',
di  fronte  alla  delicata  decisione  circa  la  ripartizione tra le
Regioni  dell'importo  con  cui  si  deve  far fronte alla perdita di
gettito conseguente alla riduzione dell'accisa sulla benzina, prevede
che  la  Conferenza  permanente  per  i  rapporti  tra  lo Stato e le
Regioni, sia coinvolta solo a livello consultivo anziche' con intesa.
    Infine,  il comma 15 dell'art. 30 risulta gravemente lesivo delle
attribuzioni  regionali  in  quanto  prevede,  come conseguenza della
«violazione»   del   divieto   di   ricorrere  all'indebitamento  per
finanziare  spese  diverse  sia  quelle  di investimento, la sanzione
della  radicale  nullita'  degli  atti  e  dei  contratti, nonche' la
condanna  ad  una  sanzione  pecuniaria  di  importo  particolarmente
elevato da irrogarsi da parte della Corte dei conti. La lesione delle
attribuzioni regionali deriva dal fatto che la disciplina dettata non
rientra  nell'ordinamento  processuale,  ma  attiene  ad  un  profilo
sanzionatorio   che   necessariamente  inerisce,  come  costantemente
ripetuto  dalla  giurisprudenza  di  codesta  Corte,  alla competenza
sostanziale:    per    cui    la    disciplina   dell'ordinamento   e
dell'organizzazione  amministrativa,  comprensiva  degli  aspetti  di
responsabilita' amministrativa e contabile, puo' essere dettata dalio
Stato  solo  per  cio' che riguarda l'amministrazione statale e degli
enti  pubblici  nazionali  (art.  117, comma 2, lett. g), e non certo
anche per l'amministrazione regionale.
    9. - Illegittimita' dell'art. 31, comma 10.
    In  base all'art. 31, comma 10, «a decorrere dal 1° gennaio 2003,
le  basi  di  calcolo  dei sovracanoni» di cui all'art. 27, comma 10,
legge  n. 448/01  «sono  fissate  rispettivamente  in  18 euro e 4,50
euro».  Tale  disposizione  si  occupa  dei  sovracanoni  dovuti  dai
concessionari  di  derivazione  d'acqua  per  produzione  di  energia
idroelettrica. Si tratta di una norma di estremo dettaglio in materia
rientrante  nell'art. 117,  comma  4,  o,  al massimo, nell'art. 117,
comma   3   (produzione   dell'energia):   di   piu'  la  sua  chiara
illegittimita'.  Si  tenga  presente,  ad  abundiantiam, che, gia' ai
sensi  dell'art. 86,  comma 1, d.lgs. n. 112/1998, «alla gestione dei
beni  del  demanio  idrico  provvedono  le  regioni e gli enti locali
competenti per territorio».
    10. - Illegittimita' dell'art. 33, comma 4, secondo periodo.
      L'art. 33, comma 4, secondo periodo, prevede che «i comitati di
settore,  in  sede  di deliberazione degli atti di indirizzo previsti
dall'articolo  47,  comma  1»,  del d.lgs. n. 165/01, «si attengono i
criteri  previsti  per  il  personale delle amministrazioni di cui al
comma  1  del  presente  articolo [cioe', per il personale statale] e
provvedono   alla   quantificazione   delle  risorse  necessarie  per
l'attribuzione  dei medesimi benefici economici individuando le quote
da destinare all'incentivazione della produttivita».
    In  relazione al comparto Regioni - Autonomie locali, il comitato
di  settore  (che ha il compito di esercitare «il potere di indirizzo
nei confronti dell'ARAN e le altre competenze relative alle procedure
di  contrattazione  collettiva  nazionale»  (art. 41, comma 1, d.lgs.
n. 165/2001)   e'   costituito   «nell'ambito  della  Conferenza  dei
presidenti  delle  regioni, per le amministrazioni regionali e per le
amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione
nazionale  dei  comuni  d'Italia  - ANCI e dell'unione delle province
d'Italia   -   UPI   e   dell'Unioncamere,   per   gli   enti  locali
rispettivamente  rappresentati»  (art. 41, comma 3, lett. a). In base
all'art. 47, comma 1, «gli indirizzi per la contrattazione collettiva
nazionale  sono  deliberati  dai  comitati  di  settore prima di ogni
rinnovo  contrattuale  e  negli  altri  casi  in cui e' richiesta una
attivita'  negoziale  dell'ARAN»;  si  prevede  poi  che «gli atti di
indirizzo  delle  amministrazioni diverse dallo Stato sono sottoposti
al  Governo  che,  non  oltre  dieci  giorni,  puo'  esprimere le sue
valutazioni   per   quanto   attiene   agli  aspetti  riguardanti  la
compatibilita'  con  le  linee  di  politica  economica e finanziaria
nazionale».
    Dunque,  in  base  al  t.u. pubblico impiego, precedente la legge
costituzionale  n. 3  del  2001, il potere di indirizzo nei confronti
dell'ARAN,  per  la  contrattazione relativa al personale regionale e
degli  enti  locali,  spetta  in  sostanza  alle Regioni ed agli enti
locali,  senza  interferenze  da  parte statale (salva la valutazione
governativa sulla compatibilita' finanziaria). La materia rientra ora
nella potesta' regionale piena, per tutto cio' che va oltre i livelli
essenziali  dei diritti dei lavoratori: eppure la norma qui impugnata
assoggetta  gli atti di indirizzo del comitato di settore «regionale»
ai  «criteri»  previsti  per il personale statale: pare di capire, ai
criteri  relativi  all'entita'  degli  oneri  derivanti  dai  rinnovi
contrattuali,  cioe',  in pratica, all'entita' degli aumenti previsti
per  il  personale statale. Inoltre, il comitato di settore regionale
e'  vincolato  ad attribuire i «medesimi benefici economici», potendo
solo  individuare  «le  quote  da  destinare all'incentivazione della
produttivita».
    Pare,  dunque,  evidente  la  lesione  della potesta' legislativa
regionale  in  materia  di  personale  regionale e degli enti locali,
dell'autonomia    finanziaria    regionale   nonche'   dell'autonomia
amministrativa,  in  relazione  ai  vincoli  posti  all'attivita' del
comitato di settore regionale.
    Ne' pare possibile invocare, a sostegno della norma impugnata, la
competenza   statale  in  materia  di  «coordinamento  della  finanza
pubblica».  Lo  stesso  art. 33,  comma  4,  precisa  che  gli  oneri
derivanti  dai  rinnovi  contrattuali relativi al personale regionale
ricadono  sulle stesse Regioni, «nell'ambito delle disponibilita' dei
rispettivi  bilanci»:  dunque, destinare maggiori o minori alla spesa
del  personale o ad altri scopi e' questione di «politica regionale»;
che  non  incide  sulle  finanze statali. La competenza in materia di
coordinamento  della  finanza non puo' legittimare lo Stato a dettare
qualsiasi  norma  animata  dal  fine  di  porre  un  freno alla spesa
pubblica,  a  pena  di  voler  vanificare  l'autonomia  legislativa e
finanziaria che la Costituzione attribuisce alle Regioni.
    11.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 34, commi primo,
secondo,  terzo,  quarto,  undicesimo,  per  violazione dell'art. 117
Cost.
    La  norma  si  apre  imponendo  alle  Amministrazioni di cui agli
articoli 1, comma 2, e 70, comma 4 del d.lgs. n. 165/2001 (e, quindi,
anche  alle  Regioni)  la rideterminazione delle dotazioni organiche,
tenendo conto del processo di riforma delle amministrazioni in atto a
dei processi di trasferimento delle funzioni alle Regioni e agli enti
locali,    il   secondo   comma   stabilisce,   poi,   il   principio
dell'invarianza  della  spesa,  prevedendo che le dotazioni organiche
rideterminate  non  possono  superare il numero dei posti di organico
complessivi  vigenti  alla data del 29 settembre 2002; il terzo comma
aggiunge  che  sino  alla  rideterminazione di cui al primo comma, le
datazioni  organiche sono provvisoriamente individuate in misura pari
ai  posti  coperti al 31 dicembre 2002. Segue il divieto di procedere
ad  assunzioni  di  personale  a  tempo indeterminato (quarto comma),
mentre  l'undicesimo  comma  rinvia a futuri d.P.C.m., previo accordo
fra  Governo, Regioni ed Enti locali in sede di Conferenza Unificata,
la  fissazione  anche  per  le  Regioni  di  criteri  e limiti per le
assunzioni  a  tempo  indeterminato per l'anno 2003, le quali debbono
comunque  essere  contenute  entro  percentuali  non superiori al 50%
delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso del 2002.
    Trattasi  di  disposizioni chiaramente di carattere ordinamentale
ed organizzatorio, come tali estranee al contenuto tipico della legge
finanziaria  (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato
dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della
legge  finanziaria) che non possono certo costituire per lo Stato una
legittima  via  di  sostituzione del necessario «titolo di competenza
della sua legislazione» (S. Bartole, «Dopo il Referendum di ottobre»,
in  Le  Regioni 2001, 5, 798). Si deve sottolineare, infatti, che una
competenza  normativa  generale  in  materia  di organizzazione delle
Amministrazioni  pubbliche  non  sussiste  piu'  in capo allo Stato a
seguito  della  riforma  del  Titolo  V.  E'  peraltro  pacifico  che
l'art. 117,  secondo  comma  Cost.  riserva  alla  potesta' esclusiva
statale unicamente la materia della organizzazione o dell'ordinamento
amministrativo  dello  Stato  e  degli  enti pubblici nazionali ed e'
quindi  ad esso consentito di dettare norme vincolanti unicamente per
le  amministrazioni  ed  enti  statali. Conseguentemente e' riservata
alla   potesta'   legislativa   residuale  delle  Regioni,  ai  sensi
dell'art. 117,   quarto   comma,  l'organizzazione  amministrativa  e
l'ordinamento  del  personale  regionale,  sicche' in tale materia la
competenza  regionale e' esclusiva ed esercitabile nel rispetto della
Costituzione  e  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
    Peraltro,  l'ampia  autonomia regionale in materia di ordinamento
degli  uffici  e dello stato giuridico del proprio personale e' stata
riconosciuta  dalla  stessa  Corte  cost. anche nella sussistenza del
regime  previgente  (sent. nn. 10/1980, 277/1983, 278/1983, 772/1988,
ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale potesta' deve essere,
dunque, affermata oggi.
    Ne consegne la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e
dei  limiti  in  ordine  alla assunzione e reclutamento del personale
introdotti dalla disposizione in esame (commi secondo, terzo, quarto.
undicesimo),  che  esulano completamente dal necessario idoneo titolo
di  competenza legislativa statale e la cui illegittimita' non appare
mitigata  neppure  dalla  prevista  emanazione  dei futuri decreti di
recepimento  di  accordi,  stabiliti in sede di conferenza unificata,
atteso  che essi non valgono a sostituire e a compensare una potesta'
legislativa costituzionalmente attribuita alle Regioni.
    Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza,
posto  che  dal  punto  di  vista  delle regioni, chiamate a svolgere
ulteriori  funzioni  ed a gestire tutte quelle trasferite, non appare
logico  vincolare  la  dotazione  organica  a  quella in essere al 31
dicembre  2002,  cosi'  come  non  sembra ragionevole in un'ottica di
necessario  completamento  del  processo  di  decentramento  che  sia
autoritativamente   ed   unilateralmente   sancito  il  blocco  delle
assunzioni,   in   attesa   dei   previsti  decreti.  Cio'  anche  in
considerazione  della  circostanza  che  la Regione-Emilia Romagna e'
gia' autonomamente intervenuta sul piano del contenimento della spesa
per  il  personale, avendo approvato un progetto di legge (pubblicato
sul  BURER  del  24  dicembre  2002, suppl. sp. n. 219) finalizzato a
misure  di razionalizzazione della spesa inerente al personale e alla
salvaguardia  delle  politiche  di  copertura  dei  posti  vacanti in
riferimento    alle   risorse   professionali   necessarie   per   il
raggiungimento delle finalita' dell'Ente.
    Ne  consegue  un'evidente  lesione  di  prerogative  ed  esigenze
costituzionalmente   riservate   alla   competenza  regionale  e  non
giustificabili  neppure  sul  piano della riserva statale connessa al
«sistema  tributario  e  contabile  dello  Stato»  (art. 117, secondo
comma,  lett.  e)  o  alla  «armonizzazione  dei  bilanci  pubblici e
coordinamento  della  finanza  pubblica  e  del  sistema  tributario»
(art. 117,  terzo  comma),  se  e'  vero  che le disposizioni dinanzi
citate  non rappresentano «norme tesa a realizzare effetti finanziari
con  decorrenza  dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale»
come  dispone  la  legge  che  disciplina i contenuti dello strumento
finanziario   dello  Stato,  ma  si  risolvono  piuttosto  in  misure
tipicamente  organizzatorie,  impropriamente  assurte  a  livello  di
disposizioni  di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle
regole  costituzionalmente  fissate in relazione ai rispettivi ambiti
di autonomia e competenza.
    12. - lllegittimita' costituzionale dell'art. 35.
    L'art. 35  dispone  «Misure  di  razionalizzazione  in materia di
organizzazione scolastica».
    Esso  e'  costituzionalmente  illegittimo  nel  suo complesso, in
quanto completamente ignora la disposizione costituzionale secondo la
quale la materia istruzione e' disciplinata dalla legge regionale, in
conformita'  ai  principi  fondamentali  dettati dalla legge statale.
Compito  del  legislatore  ordinario  statale,  dunque,  e' dettare i
principi  in  base ai quali il sistema possa operare, regionalizzato,
sulla base della disciplina delle singole regioni.
    Specifica  illegittimita' costituzionale colpisce in ogni modo il
comma  2, secondo il quale «con decreto del Ministro dell'istruzione,
dell'universita'  e  della  ricerca,  di  concerto  con  il  Ministro
dell'economia  e  delle finanze, sono fissati i criteri e i parametri
per  la  definizione  delle  dotazioni  organiche  dei  collaboratori
scolastici in modo da conseguire nel triennio 2003-2005 una riduzione
complessiva   del  6  per  cento  della  consistenza  numerica  della
dotazione  organica  determinata  per  1  anno scolastico 2002-2003»,
precisandosi  poi  che,  «per  ciascuno degli anni considerati, detta
riduzione non deve essere inferiore al 2 per cento».
    Tale  disposizione  e'  in primo luogo incostituzionale in quanto
determina  una riduzione dell'organico dei collaboratori scolastici a
prescindere  da  qualunque criterio di correlazione con la necessita'
della  formazione  scolastica, in relazione ai numero degli studenti:
il   quale,   secondo  rilevazioni  che  la  Regione  si  riserva  di
documentare,  e'  aumentato  nel  corso  dell'ultimo  anno  di alcune
migliaia.  Di  qui la necessita', al contrario di quanto disposto, di
un  aumento  dell'organico.  Ma  cio' che qui si vuole dire e' che le
decisioni  in  tale  materia non possono essere assunte in astratto e
quali  pure  misure  di  risparmio,  senza  un  collegamento  con  le
necessita'  razionalmente accertate. In definitiva, la «riduzione del
personale»  non  puo'  essere  in  quanto  tale  un  principio  della
legislazione scolastica.
    Inoltre,  lo  stesso  comma  2  dispone  che  a tale riduzione si
pervenga  secondo  i  criteri  e  i parametri fissati con decreto del
Ministro   dell'istruzione,  dell'universita'  e  della  ricerca,  di
concerto  con  il  Ministro  dell'economia  e  delle  finanze: sembra
evidente  che,  anche supposta la legittimita' costituzionale di tale
misura  di  riduzione, e' del tutto illegittimo che alla attuazione e
alla   fissazione   di  criteri  e  parametri  provveda  il  Ministro
dell'istruzione, senza neppure una concertazione con le Regioni.
    Allo  stesso  risultato  di  riduzione  del  servizio  scolastico
pervengono anche le disposizioni del comma 1, relative alle modalita'
di  riconduzione  dell'orario degli insegnanti a quello obbligatorio.
Anche  tale  disposizione  soffre  dunque  della  stessa  complessiva
irrazionalita'.  Essa  inoltre non lascia alcuno spazio alla potesta'
concorrente  della  Regione  nel  determinare il livello del servizio
scolastico, ne' all'autonomia stessa delle istituzioni scolastiche.
    L'intero  articolo  ed  in  particolare le disposizioni di cui al
comma 1 e al comma 2 sono dunque illegittimi per violazione dell'art.
117, comma 3, e degli articoli 3 e 97 Cost.
    13.  - Illegittimita' costituzionale dell'art. 46, commi 2, 3, 4,
5,  e  6,  relativi al fondo nazionale per le politiche sociali ed al
finaziamento della federazione maestri del lavoro.
    L'art.  46  disciplina  la  gestione  del  Fondo nazionale per le
politiche sociali.
    Puo'   dirsi   sostanzialmente   pacifico   che,  dopo  la  legge
costituzionale  n. 3  del  2001,  la  materia attiene alla competenza
legislativa residuale delle Regioni, tranne che per quanto riguarda i
livelli  essenziali  delle prestazioni. Non puo' dunque spettare allo
Stato  altro compito che quello di ripartire il fondo tra le Regioni,
competenti   ad   assicurarne   l'utilizzo  secondo  le  disposizioni
legislative   vigenti,  sia  statali  che  regionali,  e  secondo  le
ulteriori  disposizioni  che  esse  emaneranno.  Tocca  pertanto alle
Regioni,  e non al «Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di
concerto  con  il  Ministro  dell'economia  e delle finanze» (secondo
quanto  dispone  il  comma  2 dell'art. 46) di assicurare l'integrale
finanziamento  degli  interventi che costituiscono diritti soggettivi
mentre risulta privo di base costituzionale l'ulteriore vincolo, dato
al  10  per cento di tali risorse, della destinazione - tra i diversi
obbiettivi  di  politica  sociale  possibili  -  al  «sostegno  delle
politiche   in  favore  delle  famiglie  di  nuova  costituzione,  in
particolare  per  l'acquisto  della prima casa di abitazione e per il
sostegno  alla  natalita».  Si  tratta  infatti di concrete scelte di
politica  sociale,  la  cui  priorita'  puo'  variare  nelle  diverse
Regioni, secondo criteri di decisione ormai regionali.
    Si  noti  che l'invasivita' della disposizione non viene meno per
il  fatto  che la ripartizione del fondo tra i diversi usi avverrebbe
«d'intesa  con  la  Conferenza  unificata  di  cui all'articolo 8 del
decreto  legislativo  28  agosto  1997, n. 281». Da un lato, infatti,
secondo  la  regola  generale  il  Governo ha il potere di provvedere
unilateralmente  qualora  l'intesa  non  sia  raggiunta, sia pure con
onere  di motivazione; d'altro lato - e piu' in profondita' - secondo
l'attuale assetto costituzionale le scelte di politica sociale di cui
e'  oggetto  spettano a ciascuna singola Regione, e non devono essere
assunte attraverso un meccanismo centralizzato, sia pure comprendente
la partecipazione delle Regioni.
    Il comma 3 della disposizione riguarda i livelli essenziali delle
prestazioni,  per la quale e' prevista la fissazione «con decreto del
Presidente  del  Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del
lavoro  e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il Ministro
dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata».
La  Regione  Emilia-Romagna non contesta tale meccanismo, che ritiene
di  per  se' conforme alla competenza legislativa dello Stato su tale
profilo, in coordinamento con la competenza regionale residuale per i
rimanenti aspetti della materia.
    La  contestazione  riguarda invece la parte in cui si prevede che
la  determinazione  di tali livelli avvenga «nei limiti delle risorse
ripartibili  del  fondo  nazionale  per le politiche sociali, tenendo
conto  delle  risorse  ordinarie  destinate  alla spesa sociale dalle
regioni  e  dagli  enti  locali  e  nel rispetto delle compatibilita'
finanziarie  definite  per  l'intera  sistema di finanza pubblica dal
documento  di  programmazione  economico-finanziaria»: non perche' si
ritenga  che  possa  non  tenersi  conto  dei  vincoli  derivanti dal
carattere  limitato delle risorse, ma perche' tale carattere limitato
sembra  venire  assunto  - come paiono confermare, per quanto noto le
prime  stime  di  previsione  sulla  consistenza del Fondo per l'anno
2003,  che  risulterebbe dimezzato rispetto al precedente anno - come
un indiscutibile dato di partenza, senza alcun rapporto con il previo
accertamento delle esigenze del settore.
    In  altri  termini, e' la stessa misura complessiva del fondo che
dovrebbe   in  primo  luogo  essere  oggetto  di  una  determinazione
concordata tra Stato e Regioni, al fine di assicurarne una dimensione
che  permetta  un  livello  delle  prestazioni adeguato, anche se non
ottimale.
    In  questo  quadro  di  ristrettezza  risalta  a maggiore ragione
l'arbitrarieta'  e la lesivita' della sottrazione al fondo - e dunque
al riparto in vista del sistema generale delle prestazioni - di quote
di  risorse  comunque  destinate  alla attivita' assistenziale, quale
operata  dal  comma  6 della disposizione qui impugnata: ai sensi del
quale,   «per   far  fronte  alle  spese  derivanti  dalle  attivita'
statutarie   della  federazione  dei  maestri  del  lavoro  d'Italia,
consistenti   nell'assistenza  ai  giovani  al  fine  di  facilitarne
l'inserimento   nel   mondo   del   lavoro   e  nella  collaborazione
volontaristica  con  gli  enti  proposti  alla  difesa  civile,  alla
protezione  delle  opere d'arte, all'azione ecologica, all'assistenza
ai  portatori  di  handicap  ed  agli anziani non autosufficienti, e'
conferito  alla  federazione  medesima, per il triennio 2003-2005, un
contributo annuo di 260.000 euro».
    Si   tratta   di   una  destinazione  legislativa  arbitraria  ed
irrazionale,   compiuta   al  di  fuori  di  una  competenza  statale
all'intervento. L'illegittimita' di tale decisione di spesa non viene
meno  per  il  fatto  che all'onere elativo si provveda «a carico del
fondo per l'occupazione di cui all'art. 1, comma 7, del decreto-legge
20  marzo 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19
luglio  1993, n. 236». Infatti, da un lato anche la tutela del lavoro
e'  ugualmente materia assegnata alle regioni dall'art. 117, comma 3,
nei  limiti  dei  principi  della legislazione statale (mentre non si
puo'   ovviamente   definire   principio   una  singola  largizione),
dall'altro cio' che conta e' che, se il legislatore intende destinare
i  fondi  ai  fini  assistenziali,  come sono quelli in questione, la
relativa gestione non puo' che seguire le regole proprie del settore.
    Illegittimo costituzionalmente risulta infine il comma 5, secondo
cui,  «in  caso di mancato utilizzo delle risorse da parte degli enti
destinatari  entro  il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui
sono  state  assegnate,  il  Ministro  del  lavoro  e delle politiche
sociali  provvede alla revoca dei finanziamenti, i quali sono versati
all'entrata  del  bilancio dello Stato per la successiva assegnazione
al Fondo di cui al comma 1».
    Infatti,  il  vincolo  di  destinazione  puo' essere accettato in
quanto inevitabile, nel presente stato di inattuazione dell'art. 119:
ma  esso non comporta e non richiede che si fissi un gravoso termine,
in  grado  di  frustrare  la programmazione e la gestione di fondi da
parte   della   singola   regione.   Il  termine  decadenziale  della
disponibilita'   dei   fondi   rappresenta   dunque   una  violazione
dell'autonomia finanziaria, non necessaria nel meccanismo del fondo.
    14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 47.
    L'art.  47,  comma  1, attribuisce al Ministro del lavoro e delle
politiche  sociali,  di  concerto  con  il Ministro dell'economia, il
potere  di  determinare «i criteri e le modalita' per la destinazione
dell'importo  aggiuntivo  di  1 milione di euro, per il finanziamento
degli   interventi   di  cui  all'art.  80,  comma  4»,  della  legge
n. 448/1998.  Questa  disposizione  stabilisce  che, «nell'ambito del
fondo  per  l'occupazione  di  cui  all'art.  1, comma 7, del d.l. 20
maggio  1993,  n. 148,  convertito, con modificazioni, dalla legge 19
luglio  1993,  n. 236,  la  somma di lire 18 miliardi e' destinata al
finanziamento  degli  interventi  di cui alla legge 14 febbraio 1987,
n. 40,  in  materia di formazione professionale». La legge n. 40/1987
prevede  contributi statali «per la copertura delle spese generali di
amministazione degli enti privati gestori di attivita' formative».
    Al  comma  2,  l'art.  47  modifica  l'art.  118, comma 16, legge
n. 388/2000,   prevedendo   che  il  Ministero  del  lavoro  e  della
precedenza sociale, con proprio decreto, destini 100 milioni di euro,
per   il   2003,  «per  le  attivita'  di  formazione  nell'esercizio
dell'apprendistato   anche   se   svolte   oltre  il  compimento  del
diciottesimo  anno  di  eta', secondo le modalita' di cui all'art. 16
della legge 24 giugno 1997, n. 196».
    Dunque,  l'art. 47 prevede finanziamenti in materia di formazione
professionale  (spettante  alla  competenza  piena  delle  regioni) e
attribuisce   al   Ministro  il  potere  di  definire  i  criteri  di
destinazione.  Anche  questa  disposizione, dunque, viola la potesta'
finanziaria, legislativa e amministrativa regionale, perche' lo Stato
non    puo',   attribuendo   fra   l'altro   poteri   sostanzialmente
regolamentari  ad  un  ministro  (al  comma  1),  trattenere  a se la
disciplina  e  la  gestione di un finanziamento che ricade in materia
regionale.  L'art.  47  e',  pertanto, illegittimo nella parte in cui
prevede  che  la  disciplina e la gestione dei finanziamenti relativi
alla  formazione  professionale  siano  mantenuti allo Stato anziche'
essere   attribuiti   alle   regioni.   In  subordine,  esso  risulta
illegittimo  nella  parte in cui non prevede che i poteri statali ivi
previsti   siano   esercitati   previa   intesa   con  la  Conferenza
Stati-Regioni, dato che nelle materie regionali il principio di leale
collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati.
    15.  -  Illegittimita'  costituzionale  dell'art. 48, relativo ai
fondi interprofessionali per la formazione continua.
    L'art.  48  desciplina  fondi  destinati dalla parti sociali alla
formazione  continua.  Come ricordato al punto precedente, la materia
della  formazione  professionale  e' affidata alla potesta' residuale
delle regioni per l'espressa disposizione dell'art. 117, comma 3, che
esplicitamente la eccettua dalla materia concorrente istruzione.
    Ne risulta che il sistema della formazione professionale non puo'
avere  un  livello  nazionale di organizzazione e gestione. Dunque e'
illegittima  la previsione che tali fondi siano costituiti al livello
nazionale,  come  disposto  dall'art. 48, comma 1, attraverso i nuovi
commi  1  e  6  dell'art.  118  della  legge n. 388 del 2000 (essendo
previsto  soltanto  che  i  fondi,  (previo  accordo tra le parti, si
possono  articolare  regionalmente  o  territorialmente»). Tali fondi
devono  potere  invece  essere per coerenza con il sistema generale a
livello regionale.
    Inoltre,  una  volta  che  tali  soggetti privati di gestione dei
fondi siano stati costituiti, ogni potere amministrativo in relazione
a  tali  fondi  non  puo' che spettare alla disciplina regionale, che
provvedera'  ad  assegnare  alla  stessa  regione o ad altri enti, in
attuazione delle regole dell'art. 118 Cost., la relativa titolarita'.
Cosi'  non  puo'  che  spettare  alla  regione  la  disciplina  della
attivazione,  ed  ove  occorra la relativa autorizzazione. Ugualmente
devono  competere  alla  regioni  la  disciplina  e l'esercizio della
vigilanza  e  del monitoraggio sulla gestione dei fondi, come pure le
relative  funzioni  sanzionatorie (sospensione dell'operativita' o il
commissariamento).
    Ugualmente  spetta  alle  regioni  la  nomina  di  membri  o  del
presidente   del   collegio   sindacale.   Risultano   percio'  tutte
illegittime  le  diverse  previsioni  del comma 2 dell'art. 118 della
legge  n. 388 del 2000, quali introdotte dall'art. 48 della legge qui
impugnata.
    16.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 4, 19 e
21.
    L'art.   52   e'  dedicato  alla  razionalizzazione  della  spesa
sanitaria.
    Occorre  ricordare  che  in base all'art. 54 i livelli essenziali
delle  prestazioni  sono  rimasti  immutati.  Le  risorse  regionali,
invece,  si  sono  ridotte in misura rilevante, proprio per le misure
contenute  nella presente legge, e in parte sopra impugnate: le quali
hanno da un lato - come sopra esposto - determinato diminuzioni nette
del  gettito,  dell'altro  paralizzato  -  pur  se,  come si ritiene,
illegittimamente - la capacita' regionale di incrementare con proprie
decisioni le proprie entrate fiscali.
    Ne  risulta uno squilibrio strutturale tra risorse e obbligazioni
di  spesa  -  per  assicurare le prestazioni stabilite con atto dello
Stato  -  la  cui  sola  esistenza  e' in contrasto con i principi di
autonomia  finanziaria,  ed  in  particolare  con  l'art. 119, quarto
comma,  che  prescrive  che le entrate proprie e le compartecipazioni
debbono  consentire  alle  regioni  «di  finanziare  integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite».
    Di  tale  squilibrio  strutturale  -  come  detto gia' di per se'
costituzionalmente  inammissibile  -  sembra prendere atto il comma 4
dell'art.  52,  il quale prevede, anche richiamando precedenti leggi,
un  futuro  «adeguamento del finanziamento del Servizio sanitario per
gli anni 2003, 2004 e 2005», al quale le regioni potranno accedere.
    Si  sottolinea  qui che anche questo meccanismo di «finanziamento
futuro» si colloca al di fuori dell'art. 119 Cost.
    Ma  l'illegittimita'  della  disposizione  impugnata non si ferma
alla  logica  generale  della manovra, con la relativa sottrazione di
risorse,  che  costringe  le  regioni  ad  operare  in  condizioni di
insufficienza    strutturale,    salvo    futuro    adeguamento   del
finanziamento,  ma  si estende, ed assume una connotazione specifica,
in  relazione  alle  particolare  condizioni  cui tale adeguamento e'
subordinato.  Si  vuol  dire cioe' che il principio della sufficienza
delle  risorse in relazione alle funzioni non puo' essere subordinato
a  condizioni  e  «adempimenti»:  se  le  risorse sono oggettivamente
carenti  in  relazione  alle funzioni obbligatorie, l'adeguamento del
finanziamento  e'  costituzionalmente dovuto, pur non potendo neppure
con  cio'  dirsi  conforme al sistema costituzionale, che richiede la
preventiva sufficienza delle risorse.
    Spicca  in  particolare,  tra  gli  adempimenti  cui  il  comma 4
dell'art. 52 subordina l'accesso all'adeguamento, l'illegittimita' di
quello  previsto  alla  lett.  d),  secondo  cui  le  regioni debbono
adottare  «provvedimenti  diretti  a prevedere, ai sensi dell'art. 3,
comma  2,  lettera  c),  del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347,
convertito,  con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405,
la  decadenza  automatica  dei  direttori  generali  nell'ipotesi  di
mancato   raggiungimento   dell'equilibrio  economico  delle  aziende
sanitarie e ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome».
    Tale  disposizione e' in prima luogo incostituzionale perche', in
violazione  dell'art. 97  Cost. (per non dire della stessa soggettiva
privazione del lavoro nell'amministrazione, in violazione dell'art. 4
e  dell'art. 51), prevede la rimozione sanzionatoria dalla carica per
il  puro  verificarsi  di circostanze oggettive, in assenza di alcuna
prova  o  riscontro  che  il  mancato  raggiungimento dell'equilibrio
economico  fosse  in  qualche  modo  evitabile  da parte dello stesso
direttore  generale.  Sembra  evidente  che non puo' che toccare alla
regione,  quale  responsabile generale del servizio sanitario e quale
amministrazione  nominante,  la  valutazione  del  comportamento  del
direttore  generale  e del grado di responsabilita' che ad esso possa
imputarsi  nel  mancato  conseguimento dell'equilibrio economico: che
puo'  bene  essere  dovuto  -  in  condizione  di carenza finanziaria
strutturale - all'obbligo di assicurare le prestazioni.
    Analoga  specifica  illegittimita'  colpisce l'adempimento di cui
alla  lett.  c),  nella  parte  in cui si prevede lo svolgimento, per
giunta  «senza  maggiori  oneri  a  carico del bilancio dello Stato»,
degli   accertamenti   diagnostici   «in  maniera  continuativa,  con
l'obiettivo  finale  della  copertura  del  servizio nei sette giorni
della   settimana».   Si   tratta   infatti   di   misure   puramente
organizzative,   che   limitano  la  relativa  autonomia  legislativa
regionale  anziche'  limitarsi  a  fissare un principio in termini di
risultato,  che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le
proprie scelte organizzative.
    Una specifica ulteriore illegittimita' costituzionale, diversa da
quella  di  cui  al comma 4, sin qui lamentata, colpisce il comma 19,
che da un lato limita alla «misura massima del 50 per cento di quelli
notificati  al  Ministro della salute nell'anno 2003 o autorizzati ai
sensi  del  comma  7  del  citato  articolo»,  la possibilita' per le
imprese  farmaceutiche titolari dell'autorizzazione all'immissione in
commercio  di  medicinali  «di organizzare e contribuire a realizzare
mediante finanziamenti anche indiretti in Italia o all'estero per gli
anni  2004,  2005  e  2006  congressi,  convegni  o riunioni ai sensi
dell'art.  12  del  decreto  legislativo  30 dicembre 1992, n. 541, e
successive  modificazioni», dall'altro stabilisce che «non concorrono
al  raggiungimento della percentuale di cui al periodo precedente gli
eventi  espressamente  autorizzati dalla Commissione nazionale per la
formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».
    Da  una  parte,  infatti,  risulta  illegittima  la pregiudiziale
limitazione  ad  un astratto 50% della possibilita' per le imprese di
contribuire  alla  realizzazione  di convegni, seminari, etc., lesiva
non solo dell'autonomia organizzativa del servizio sanitario ma della
stessa  autonomia  privata  e  di  iniziativa  economica; dall'altra,
risulta  altresi' illegittimo che da tale limitazione siano esonerati
«gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per
la formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo
30  dicembre  1992,  n. 502»:  sembra  evidente,  infatti,  che,  ove
risultasse  costituzionalmente  legittima la predetta limitazione, la
valutazione  e la autorizzazione di eventi che non sottostiano a tale
limitazione  non  puo'  che  spettare  alle regioni interessate dallo
svolgimento  dell'evento,  e  non  ad un organismo nazionale privo di
qualunque  titolo  costituzionale  per  lo  svolgimento di una simile
funzione.
    Ulteriore  illegittimita'  costituzionale  colpisce  il  comma 21
dell'art. 52, nella parte in cui non prevede alcuna codecisione delle
Regioni  nella  realizzazione  del  Centro  nazionale  di adroterapia
oncologica   per  il  quale  e'  assegnato  al  Centro  nazionale  di
adroterapia oncologica l'importo di 5 milioni di euro per l'anno 2003
e  di  10  milioni  di  euro  per ciascuno degli anni 2004 e 2005. E'
evidente  infatti  che  tale  centro  dovra'  necessariamente  essere
collegato   al  sistema  dell'assistenza  sanitaria,  di  cui  potra'
costituire  una  risorsa  essenziale:  di  qui  la  necessita' che le
regioni,   titolari   del   compito   costituzionale  dell'assistenza
sanitaria,  siano  chiamate  a  dare  la  propria  intesa alle scelte
relative  al  Centro,  sia  in  relazione  alla localizzazione che in
relazione alla attivita' che esso e' chiamato a svolgere.
    17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 56.
    L'art. 56  istituisce  «un  fondo finalizzato al finanziamento di
progetti  di  ricerca,  di  rilevante  valore  scientifico, anche con
riguardo  alla  tutela  della  salute e all'innovazione tecnologica»,
stabilendo che «alla ripartizione del fondo, istituito nello stato di
previsione  del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze,  tra le
diverse  finalita' provvede il Presidente del Consiglio dei ministri,
con  proprio  decreto,  su  proposta  del  Ministro  dell'istruzione,
dell'universita'' e della ricerca, sentiti i Ministri dell'economia e
delle  finanze, della salute e per l'innovazione tecnologica». Con lo
stesso  decreto  «sono stabiliti procedure, modalita» e strumenti per
l'utilizzo delle risorse».
    Tale disciplina interessa una materia di potesta' concorrente (la
ricerca   scientifica)   e,   come   gia'   visto  per  altre  norme,
illegittimamente  istituisce un fondo settoriale a gestione centrale,
attribuendo (con norme di dettaglio) poteri sostanzialmente normativi
ed  amministrativi  al  Presidente del Consiglio dei ministri. L'art.
56, dunque, viola gli artt. 117, comma 3 e 6, 118, comma 2, e 119 per
le  ragioni  gia'  illustrate  a  proposito  dell'art. 27 della legge
n. 289/2002.  Esso, in definitiva, risulta illegittimo nella parte in
cui  attribuisce  al  Presidente  del  Consiglio  dei ministri poteri
normativi  ed  amministrativi  relativi  alla  gestione  del fondo in
questione,  anziche'  prevedere la mera ripartizione del fondo tra le
Regioni.
    In  subordine,  esso  risulta  illegittimo nella parte in cui non
prevede  che  i  poteri  attribuiti  al  Presidente del Consiglio dei
ministri   siano   esercitati   previa   intesa   con  la  Conferenza
Stato-Regioni,  dato  che  nelle  materie concorrenti il principio di
leale   collaborazione   impone   un  coordinamento  fra  i  soggetti
interessati.
    18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 67.
    L'art. 67  estende ai comuni montani con meno di 5000 abitanti la
normativa  sulle misure straordinarie per la promozione e lo sviluppo
dell'imprenditorialita'  giovanile nel Mezzogiorno, stabilendo che «i
criteri e le procedure applicative per l'estensione ..., ivi compresa
la  definizione  della  quota  dei  fondi  in  essere ... a tale fine
riservata,  sono  determinati  dal  CIPE,  su  proposta  del Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i
rapporti  tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano».
    Gli  incentivi  alle  imprese  giovanili costituiscono materia di
potesta'  regionale  piena.  Lo  Stato e' legittimato, dall'art. 119,
comma 5, a destinare «risorse aggiuntive ... in favore di determinati
comuni»,  per  promuovere  lo  sviluppo economico, ma cio' lo abilita
appunto   a   destinare   le  risorse,  non  a  mantenere  il  potere
(sostanzialmente  normativo secondario) di definizione dei criteri di
gestione  delle  risorse  stesse,  con  la  sola  consultazione della
Conferenza Stato-Regioni.
    Dunque,  l'art. 67  viola  l'art. 117,  comma 4 e 6, e l'art. 119
Cost.,  risultando illegittimo nella parte in cui attribuisce al CIPE
un  potere  normativo  relativo alla gestione del fondo in questione,
anziche' prevedere la mera attribuzione delle risorse aggiuntive alle
Regioni.  In  subordine,  esso risulta illegittimo nella parte in cui
non  prevede  che  il potere attribuito al CIPE sia esercitato previa
intesa  con la Conferenza Stato-Regioni, anziche' previo parere, dato
che  in una materia di potesta' regionale piena il principio di leale
collaborazione  impone  un  coordinamento  piu'  forte fra i soggetti
interessati.
    19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 8.
    Le  disposizioni dell'art. 69, in materia di agricoltura, formano
oggetto di impugnazione limitatamente al comma 8, sotto il profilo di
seguito esposto.
    Dispone  tale comma 8 che, «nell'ambito delle risorse finanziarie
di  cui  ai  decreti  legislativi  18 maggio 2001, n. 227 e n. 228 un
importo  pari  a  30  milioni  di  euro  per l'anno 2003 e' destinato
all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura per le esigenze connesse
agli   adempimenti  di  cui  al  regolamento  (CEE)  n. 729/1970  del
Consiglio,  del  21  aprile 1970, ed al regolamento (CE) n. 1663/1995
della Commissione, del 7 luglio 1995».
    Si  tratta  dunque  di un finanziamento destinato all'AGEA, per i
pagamenti   connessi   all'attuazione   di   normativa   comunitaria.
Sennonche'  l'AGEA,  che opera nella maggior parte delle regioni, non
opera  nella  Regione Emilia-Romagna, per la ragione che in questa e'
stata    sostituita    da    una    agenzia    regionale   denominata
corrispondentemente  AGREA, istituita dalla legge regionale n. 21 del
2001   (Istituzione  dell'Agenzia  regionale  per  le  erogazioni  in
agricoltura - AGREA), secondo una facolta' espressamente riconosciuta
dall'art.  3  del  d.lgs.  n. 165  del 1999. E' dunque l'AGREA, e non
l'AGEA,  che nella Regione Emilia-Romagna cura gli adempimenti di cui
ai   regolamenti   della   Comunita'   europea   citati  al  comma  8
dell'art. 69.
    In  questo  modo  il  finanziamento in favore soltanto della AGEA
risulta  discriminatorio nei riguardi della Regione, che non verrebbe
a  goderne  esclusivamente  per  il  fatto  di  avere provveduto alla
costituzione  di  una  propria  organizzazione  per l'esercizio degli
stessi  compiti. Sembra dunque chiara l'illegittimita' costituzionale
consistente  nel  non  avere  considerato  che  in  alcune regioni, e
segnatamente  nella  Regione  Emilia-Romagna,  le  attivita'  cui  il
finanziamento  si riferisce vengono svolte da un organismo regionale,
e nell'avere conseguentemente escluso, senza alcuna ragione obiettiva
di  differenziazione, tale organismo dal finanziamento, in violazione
degli  articoli  119 e 3 della Costituzione, nonche' del principio di
ragionevolezza.
    Naturalmente,   la   discriminazione   non   vi   sarebbe  se  la
disposizione  fosse  da  intendere  nel  senso  che l'AGEA, una volta
ricevuto  il  finanziamento,  ha  a sua volta l'obbligo di trasferire
all'ente  regionale la quota ad esso spettante e l'impugnazione sopra
esposta  e'  prospettata  in  via  cautelativa,  ove non fosse questa
l'interpretazione esatta.
    20. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 72, e commi 1, 2, 3
e 4.
    L'art. 72  (Fondi  rotativi  per  le  imprese) stabilisce che «le
somme iscritte nei capitoli del bilancio dello Stato aventi natura di
trasferimenti  alle  imprese  per  contributi  alla produzione e agli
investimenti affluiscono ad appositi fondi rotativi in ciascuno stato
di  previsione  della  spesa» (comma 1). Al comma 2 si prevede che «i
contributi  a  carico dei fondi di cui al comma 1 ... sono attribuiti
secondo  criteri  e  modalita' stabiliti dal Ministro dell'economia e
delle  finanze,  d'intesa  con il Ministro competente, sulla base dei
seguenti  principi: a) l'ammontare della quota di contributo soggetta
a  rimborso  non  puo'  essere inferiore al 50 per cento dell'importo
contributivo   b)   la  decorrenza  del  rimborso  inizia  dal  primo
quinquennio   dalla   concessione   contributiva,  secondo  un  piano
pluriennale  di rientro da ultimare comunque nel secondo quinquennio;
c)  il  tasso  d'interesse  da  applicare alle somme rimborsate viene
determinato  in  misura  non  inferiore allo 0,50 per cento annuo». A
tali  decreti  interministeriali  il  comma 3 attribuisce «natura non
regolamentare».  Il comma 4, poi, dichiara che, «ai fini deI concorso
delle  autonomie  territoriali  al rispetto degli obblighi comunitari
per   la  realizzazione  degli  obiettivi  di  finanza  pubblica,  le
disposizioni  di  cui  al  presente  articolo  costituiscono norme di
principio   e   di  coordinamento»,  e'  «conseguentemente  gli  enti
interessati   provvedono   ad   adeguare  i  propri  interventi  alle
disposizioni di cui al presente articolo».
    Tale  disciplina  riguarda  i  contributi  alle imprese e ricade,
dunque,  nell'art. 117,  comma 4, Cost. Anche in questo caso, dunque,
si  prevedono  illegittimamente  fondi  gestiti  a livello di ciascun
ministero,    sulla   base   di   criteri   stabiliti   con   decreti
interministeriali di natura sostanzialmente regolamentare, nonostante
l'elusiva  «etichetta»  apposta dal legislatore (su cio' v. il motivo
relativo  all'art. 26).  Dunque,  i commi 1, 2 e 3 sono illegittimi e
lesivi delle competenze regionali nella parte in cui prevedono poteri
regolamentari  e  poteri  di sovvenzione statali in materia regionale
anziche'  prevedere  che  le  somme  relative  siano ripartite tra le
Regioni.
    Quanto al comma 4, esso vorrebbe vincolare i contributi regionali
al   rispetto   delle   disposizioni  di  cui  ai  commi  precedenti,
qualificate  come  «norme  di  principio  e  di coordinamento» (della
finanza  pubblica, si suppone). Il comma 4 pare riferirsi ai principi
di  cui  alle  lettere  a),  b)  e c) del comma 2, dato che i criteri
ministeriali  valgono  per  i  contributi  statali.  Anche  in questa
misura,  pero',  il comma 4 risulta illegittimo e lesivo. L'art. 117,
comma 3, non attribuisce allo Stato competenza in materia di «finanza
pubblica» ma in materia di «coordinamento della finanza pubblica».
    Dunque,  i  principi  fondamentali  di  tale  materia non possono
tradursi  in  regole  specifiche  relative ad un singolo settore, che
vincolano  le  scelte  politiche delle Regioni, ma devono limitarsi a
garantire l'equilibrio complessivo della finanza. In altre parole, lo
Stato  puo'  porre  principi  relativi alla spesa globale in un certo
settore,  ma  non decidere anche come la spesa deve essere effettuata
in  quel  settore  dalle  Regioni.  Anche  il  comma  4, dunque, lede
l'autonomia  legislativa  e  finanziaria  regionale,  e  la lederebbe
ancora  di  piu'  se «norme di principio» fossero considerati anche i
criteri ministeriali di cui al comma 2.
    Nella  disposizione  del  comma  4  si  accenna a disposizioni di
origine  comunitaria, ma esse non sono minimamente indicate. Siffatta
indicazione    generica   non   puo'   dunque   costituire   autonoma
giustificazione del vincolo fermo restando l'obbligo delle regioni di
rispettare le disposizioni comunitarie effettivamente esistenti.
    21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 80, comma 6.
    Secondo  l'art. 80,  comma  6,  «al  fine  di favorire l'autonoma
iniziativa per lo svolgimento di attivita', di interesse generale, in
attuazione   dell'art.  118,  quarto  comma,  della  Costituzione  le
istituzioni  di  assistenza  e  beneficenza  e gli enti religiosi che
perseguono   rilevanti   finalita'  umanitarie  o  culturali  possono
ottenere  la  concessione  o  locazione  di beni immobili demaniali o
patrimoniali dello Stato, non trasferiti alla «Patrimonio dello Stato
S.p.a.»,  costituita ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 15 aprile
2002,  n. 63,  convertito,  con  modificazioni, dalla legge 15 giugno
2002,  n. 112, ne' suscettibili di utilizzazione per usi governativi,
a  un  canone  ricognitorio determinato ai sensi degli articoli l e 4
della legge 11 luglio 1986, n. 390, e successive modificazioni».
    La disposizione suppone dunque che vi siano immobili appartenenti
al demanio o al patrimonio dello Stato che non siano «suscettibili di
utilizzazione  per  usi  governativi»,  e  dispone  che tali immobili
possano essere affidati ad enti di assistenza o ad enti religiosi con
finalita' umanitarie o assistenziali.
    Tale disposizione e' affetta, ad avviso della ricorrente regione,
da  plurime  illegittimita'  costituzionali. In primo luogo, infatti,
essa  interviene  al di fuori delle materie di competenza esclusiva o
concorrente  statale,  con  violazione dell'art. 117, commi 2, 3 e 4.
Ne' puo' valere l'obiezione che lo Stato puo' disporre come crede dei
propri  beni,  dato  che  si  tratta  qui non di atti di disposizione
privatistici  o per fini patrimoniali, ma di previsioni di legge e di
provvedimenti amministrativi nel campo della politica sociale.
    Inoltre,  ed in secondo luogo, il legislatore statale ha in primo
luogo  l'obbligazione  costituzionale di dare attuazione all'art. 119
Cost.,  il  quale  al  comma 6 dispone che «i comuni, le province, le
Citta'  metropolitane,  e  le  Regioni  hanno  un  proprio patrimonio
attribuito  secondo i principi generali determinati dalla legge dello
Stato».  Sembra  dunque evidente che il legislatore statale non puo',
prima di avere dato attuazione a tale disposizione, disporre dei beni
attualmente  statali - ma in prospettiva da assegnare agli altri enti
territoriali  secondo  un  criterio  di  coerenza  con  le rispettive
finzioni - in modo tale da vincolarli e in definitiva depauperarne il
valore  e  ridurne la possibilita' di impiego, per giunta nell'ambito
di una scelta di politica sociale che spetta ormai alle Regioni.
    22.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 90, commi 18, 20,
21 e 22, 24, 25 e 26.
    L'art. 90,  comma  18,  prevede  che,  con uno o piu' regolamenti
governativi  di  delegificazione  emanati  nel rispetto di non meglio
identificate     «disposizioni     dell'ordinamento     generale    e
dell'ordinamento sportivo, secondo i seguenti principi generali, sono
individuati:  a)  i  contenuti  dello statuto e dell'atto costitutivo
delle  societa'  e  delle associazioni sportive dilettantistiche, con
particolare  riferimento  a: 1) assenza di fini di lucro; 2) rispetto
del  principio  di democrazia interna; 3) organizzazione di attivita'
sportive   dilettantistiche,   compresa   l'attivita'  didattica  per
l'avvio,   l'aggiornamento   e  il  perfezionamento  nelle  attivita'
sportive;  4)  disciplina  del  divieto  per  gli  amministratori  di
ricoprire  cariche  sociali in altre societa' e associazioni sportive
nell'ambito  della  medesima  disciplina; 5) gratuita degli incarichi
degli  amministratori; 6) devoluzione ai fini sportivi del patrimonio
in  caso  di  scioglimento  delle  societa'' e delle associazioni; 7)
obbligo  di  conformarsi alle norme e alle direttive del CONI nonche'
agli  statuti e ai regolamenti delle Federazioni sportive nazionali o
dell'ente  di  promozione  sportiva  cui la societa' o l'associazione
intende affiliarsi; b) le modalita' di approvazione dello statuto, di
riconoscimento  ai  fini  sportivi  e  di  affiliazione ad una o piu'
Federazioni  sportive  nazionali  del CONI o alle discipline sportive
associate  o a uno degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal
CONI, anche su base regionale; c) i provvedimenti da adottare in caso
di irregolare funzionamento o di gravi irregolarita' di gestione o di
gravi infrazioni all'ordinamento sportivo».
    La   materia   e',   pacificamente,   di  competenza  concorrente
(«ordinamento sportivo») e in tali materie, altrettanto pacificamente
(art. 117,  comma  6),  non  sono  ammessi  regolamenti  statali. Non
possono  esserci  dubbi,  dunque,  sulla  lesivita' del comma 18, che
doveva   limitarsi   a  dettare  principi  fondamentali  in  materia,
lasciando  alle  Regioni  la  disciplina degli oggetti che sono stati
illegittimamente rimossi al regolamento di delegificazione.
    I  commi  20  e  21 dell'art. 90 prevedono che presso il CONI sia
istituito  «il  registro delle societa» e delle associazioni sportive
dilettantistiche»,  distinto  in  tre  sezioni, e che le modalita' di
tenuta del registro ... nonche' le procedure di verifica, la notifica
delle   variazioni   dei   dati   e  l'eventuale  cancellazione  sono
disciplinate  da  apposita delibera del Consiglio nazionale del CONI,
che  e'  trasmessa al Ministero vigilante ai sensi dell'art. 1, comma
3, della legge 31 gennaio 1992, n. 138».
    Dunque,   sempre   in   materia   di  potesta'  concorrente  tali
disposizioni  attribuiscono  poteri  amministrativi e normativi ad un
ente  parastatale,  in  contrasto  con l'art. 117, comma 3 e 6, e con
l'art. 118,  comma 2, Cost. Fra l'altro, non c'e' nessuna ragione che
le  associazioni sportive dilettantistiche debbano essere iscritte in
un registro nazionale gestito dal CONI: anzi, l'orientamento generale
e'  che  gli albi ed elenchi siano tenuti a livello locale (v. l'albo
delle   organizzazioni   di   volontariato,   delle  associazioni  di
promozione  sociale, delle societa' cooperative). Dunque, se anche si
ritenesse  che, nelle materie di cui all'art. 117, comma 3, spettasse
allo  Stato  allocare  le funzioni amministrative (cosa che ad avviso
della  Regione  non corrisponde al diritto costituzionale vigente), i
commi   20   e  21  sarebbero  comunque  illegittimi  per  violazione
dell'art. 118, comma 1.
    Il  comma  22  dell'art. 90  stabilisce  che,  «per  accedere  ai
contributi   pubblici   di   qualsiasi   natura,  le  societa'  e  le
associazioni  sportive  dilettantistiche devono dimostrare l'avvenuta
iscrizione  nel registro di cui al comma 20». Tale disposizione e' di
dettaglio  e  dunque  lede la potesta' legislativa regionale; inoltre
essa condiziona illegittimamente la potesta' amministrativa regionale
di   sovvenzionare   le   associazioni   sportive,   ed  interferisce
illegittimamente  con  le  leggi  regionali  che  gia' prevedano tali
sovvenzioni.
    I  commi  24  e 25 dettano norme che non riguardano l'ordinamento
sportivo  ma  l'uso degli impianti sportivi degli enti territoriali e
l'affidamento della loro gestione nel caso in cui l'ente territoriale
non  intenda  gestirlo  direttamente. Il contenuto del comma 24 e' di
per  se'  condivisibile  (a  parte  la  limitazione ai «cittadini» se
all'espressione  dovesse darsi un significato preciso) ma non si vede
quale  sia  il  titolo  di competenza statale a dettare una norma del
genere.  Essa  viola  dunque l'art. 117, comma 4, cosi' come il comma
25,   che  detta  criteri  per  l'affidamento  della  gestione  degli
impianti,  lasciando alle Regioni la sola disciplina delle modalita'.
Entrambi i commi, inoltre, violano l'autonomia degli enti locali.
    L'art.  26,  poi, stabilisce che «le palestre, le aree di gioco e
gli  impianti  sportivi  scolastici,  compatibilmente con le esigenze
dell'attivita' didattica e delle attivita' sportive della scuola, ...
devono  essere  posti  a  disposizione  di  societa'  e  associazioni
sportive  dilettantistiche  aventi sede nel medesimo comune in cui ha
sede  l'istituto scolastico o in comuni confinanti». Anche tale norma
ricade  nell'art. 117,  comma  4,  ledendo  la  potesta'  legislativa
regionale e l'autonomia delle istituzioni scolastiche.
    23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 91, commi 1, 2, 3 e
4.
    L'art. 91  istituisce il «fondo di rotazione per il finanziamento
dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di
asilo  nido  e  micro-nidi»,  dettando  alcune  norme di dettaglio in
merito  (v.  commi  2,  3 e 4) e attribuendo al Ministro del lavoro e
delle  politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle  finanze  e con il Ministro per le pari opportunita', il potere
sostanzialmente   regolamentare   di   definire   i  criteri  per  la
concessione  dei  finanziamenti  (ed i prospetti da utilizzare) ed il
potere amministrativo di concedere e revocare il finanziamento.
    Poiche'  i  servizi  sociali  sono  materia di potesta' regionale
piena,  e' palese la lesivita' di tali norme, che violano l'art. 119,
l'art. 117,  commi  4 e 6, e l'art. 118, comma 2, per le ragioni gia'
illustrate nel punto relativo all'art. 27 della legge qui impugnata.
    Dunque,  i  commi  sopra  indicati  dell'art. 91 sono illegittimi
nella parte in cui attribuiscono al Ministro, con norme di dettaglio,
poteri  normativi  ed  amministrativi relativi al fondo in questione,
anziche'  prevedere la mera ripartizione del fondo tra le regioni. In
subordine,  esso  risulta  illegittimo nella parte in cui non prevede
che  i  poteri  normativi  previsti  dai commi 3 e 4 siano esercitati
previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie
regionali   il   principio   di   leale   collaborazione   impone  un
coordinamento fra i soggetti interessati.