Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 254 del 24 febbraio 2003, rappresentata e difesa come da procura rogata dal notaio Federico Stame del collegio di Bologna n. 46998 di rep. del 27 febbraio 2003, dagli avv. prof. Giandomenico Falcon, prof. Franco Mastragostino e Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Manzi, via Confalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31 dicembre 2002, suppl. ordinario n. 240, con riferimento alle seguenti disposizioni: art. 2; art. 3, primo comma, lett. a); artt. 5, 6, 7, 3, 9, ad eccezione del comma 17; artt. 13, terzo comma, 15 e 16, art. 24, art. 25; art. 26, commi primo, secondo periodo, secondo e terzo; art. 27; art. 28, commi quinto e sesto; artt. 30, primo, secondo, quinto e quindicesimo comma art. 31, decimo comma; art. 33, quarto comma; art. 34, commi primo, secondo, terzo, quarta, undicesimo; art. 35; art. 46, commi secondo, terzo, quarto, quinto e sesto; art. 47; art. 48; art. 52, commi quarto, diciannovesimo e ventunesimo; art. 56; art. 67; art. 69, comma ottavo; art. 72, commi primo, secondo, terzo e quarto; art. 80, comma sesto, art. 90, commi 18, 20, 21, 22, 24, 25 e 26; art. 91, commi 1, 2, 3 e 4; per violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalita', nei modi e per i profili di seguito indicati. F a t t o Nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31 dicembre 2002 e' stata pubblicata la legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003). In essa sono contenuto disposizioni che incidono inequivocabilmente su materie di competenza regionale suscettibili, quindi, di rilevare sul piano dell'illegittimita' costituzionale, anche e soprattutto a fronte delle innovazioni introdotte dalla legge costituzionale n. 3/2001. In estrema sintesi, e come verra' illustrato nei motivi di diritta, la legge risulta lesiva in primo luogo sotto il profilo strettamente finanziario, comportando - anziche' l'aumento delle entrate in attuazione dell'art. 119 Cost.; anche in relazione alle nuove funzioni del sistema locale, ed in contrasto palese con tale articolo - una drastica restrizione dell'autonomia di entrata, pur a fronte di livelli delle prestazioni essenziali espressamente confermati al livello dagli anni precedenti. Inoltre, a fronte della restrizione delle entrate regionali, la stessa legge mantiene e incrementa una pluralita' di spese ed interventi statali in materie nelle quali secondo la Costituzione lo Stato non ha potesta' legislativa, o ha potesta' legislativa solo in relazione ai principi fondamentali. L'esistenza di fondi settoriali in materie regionali appare di per se' incompatibile con l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa di cui all'art. 119 Cost., ed e' dunque accettabile soltanto come soluzione transitoria, per assicurare il finanziamento del settore in attesa della attuazione del nuovo sistema di finanziamento. Di certo, pero', come si vedra', la gestione dei fondi non puo' avvenire a livello centrale. Infine, la legge 289 del 2002 reca disciplina di materie - quali l'istruzione, a la finanza locale - semplicemente ignorando la potesta' legislativa concorrente o residuale spettante alle regioni, e per di piu' ispirando tale disciplina di settore a criteri puramente finanziari, senza adeguata considerazione delle esigenze proprie di tali materie. Il fatto che tali disposizioni siano inserite nello strumento principale della manovra finanziaria dello Stato non puo', peraltro, sotto alcun profilo rappresentare l'occasione per apportare profonde ed illegittime incisioni alla sfera di autonomia regionale. Da qui la necessita' della proposizione del presente ricorso attraverso cui si contesta l'illegittimita' costituzionale di specifiche disposizioni, in relazione alle quali l'intervento del giudice costituzionale puo' valere ad impedire che si consolidino situazioni non corrispondenti al nuovo assetto conseguente alla riforma del titolo V e che si pregiudichino prerogative e competenze di sicura spettanza regionale. Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed invasive per le seguenti ragioni di D i r i t t o 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2 per violazione dell'art. 119, comma 4 Cost. L'art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nell'avviare il programma di riforma fiscale con specifico riferimento alla disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, introduce il principio secondo cui e' consentita una quota di deduzione dal reddito imponibile, suscettibile di produrre un risparmio di imposta. In particolare l'art. 2, comma 4, determina i possibili effetti del nuovo sistema sulle addizionali I.R.P.E.F., stabilendo che «la deduzione di cui all'art. 10-bis del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, introdotto dal comma 1 del presente articolo, non rileva ai fini della determinazione della base imponibile delle addizionali all'imposta sul reddito delle persone fisiche, fermo restando, comunque, quanto previsto dall'art. 50, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 15 dicembre 1997 n. 446, e dall'art. 1, comma 4 del decreto legislativo 28 settembre 1998, n 360». Orbene, gli artt. 50, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e 1, comma 4, del d.lgs. 28 settembre 1998, n. 360, comportano che l'addizionale, regionale e comunale, non sia dovuta qualora per la stesso anno l'I.R.P.E.F., al netto delle detrazioni e dei crediti riconosciuti rilevanti dal testo unica della disposizione sul reddito delle persone fisiche, non sia a sua volta dovuta. Il che produce una diminuzione delle risorse a disposizione delle regioni, senza nel contempo prevedere alcuna misura compensativa, in contrasto con l'art. 119, comma 4, Cost., la' dove viene stabilito che «le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ... alle regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». 2. - Illegittimita' costituzionale degli art. 3 primo comma. lett. a); artt. 5, 6, 7, 8, 9, ad eccezione del comma 17; 13, terzo comma, 15 e l6 per violazione degli artt. 117, 118 e 119, Cost. Vengono innanzi tutto in rilevo le disposizioni di ordine tributario-finanziario, in relazione alle quali le misure a tale titolo previste si traducono in una chiara violazione dell'autonomia impositiva delle regioni, costituzionalmente garantita. In particolare: l'art. 3, primo comma, lett. a), prevede una sospensione degli aumenti delle addizionali all'I.R.P.E.F. per i comuni e le regioni e della maggiorazione dell'aliquota I.R.A.P. sino a quando non si raggiunga un accordo in sede di conferenza unificata tra Stato, regioni ed enti locali sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale. L'art. 5 introduce una serie di modifiche al decreto legislativo statale istitutivo dell'I.R.A.P. (n. 446/1997), destinate a ridurne il gettito. L'art. 6 istituisce il concordato triennale preventivo, cui possono accedere anche i contribuenti soggetti all'I.R.A.P., definendo per tre anni la base imponibile anche di tale imposta, con la conseguenza che gli eventuali maggiori imponibili, rispetto a quello oggetto del concordato, non sono soggetti all'imposta suddetta. L'art. 7 prevede la definizione automatica dei redditi di impresa e di lavoro autonomo per gli anni pregressi mediante autoliquidazione. Tale definizione automatica ha effetto, per quanto qui interessa, anche ai fini delle addizionali I.R.P.E.F. per le Regioni e dell'I.R.A.P. e si perferziona con il versamento, mediante autoliquidazione, dei tributi derivanti dai maggiori ricavi o compensi determinati sulla base dei criteri e delle metodologie stabiliti con decreto, ai sensi del comma 14 della medesima norma. L'art. 8 prevede la integrazione degli imponibili per gli anni pregressi che puo' avere effetto, per quanto qui rileva, anche ai fini delle addizionali I.R.P.E.F., e dell'I.R.A.P. L'art. 9 disciplina la definizione automatica per gli anni progressi, che riguarda tutte le imposte e tutti i periodi di imposta per i quali i termini per la presentazione delle relative dichiarazioni siano scaduti entro il 31 ottobre 2002. Le modalita' di perfezionamento di tale forma di condono sono differenziate in funzione delle imposte interessate. Per quanto riguarda l'I.R.A.P., si prevede il pagamento del 18% dell'imposta lorda, se l'imposta lorda e' risultata di ammontare superiore a Euro 10.000,00 = la percentuale applicabile all'eccedenza e' del 16%, mentre per importi superiori a Euro 20.000,00 = si paghera', sull'ulteriore eccedenza, il 13%. L'art. 13 prevede la possibilita' per le regioni e gli enti locali di stabilire la riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, nonche' l'esclusione o la riduzione dei relativi interessi e sanzioni, qualora i contribuenti adempiano ad obblighi tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti. Il terzo comma specifica, poi, che, ai fini del presente articolo, si intendono tributi propri della regione i tributi la cui titolarita' giuridica ed il cui gettito siano alla stessa integralmente attribuiti, con esclusione delle compartecipazioni ed addizionali a tributi erariali, nonche' delle mere attribuzioni ad enti territoriali del gettito, totale e parziale, di tributi erariali. L'art. 15 prevede che possano formare oggetto di definizione agevolata gli avvisi di accertamento, gli inviti al contraddittorio e i processi verbali di constatazione non ancora definiti, relativamente a tutte le imposte, ivi compresa l'I.R.A.P., e stabilisce le percentuali da corrispondere per la definizione stessa. L'art. 16 disciplina la chiusura delle liti fiscali pendenti che possono essere definite, anche ove relative all'I.R.A.P., con il pagamento delle somme determinate dalla norma stessa. Le forme di condono sopra indicate determinano rilevanti effetti sostanziali, tra cui l'estinzione delle sanzioni amministrative tributarie, comprese quelle accessorie, relative alle dichiarazioni condonate. Le suddette disposizioni si pongono in contrasto con gli artt. 117 e 119 Cost., in quanto applicabili anche All'I.R.A.P. per le seguenti considerazioni. 1.1. - Codesta ecc.ma Corte costituzionale con la sentenza n. 138/1999 ha gia' avuto occasione, in riferimento alla originaria formulazione dell'art. 119 Cost., di qualificare l"I.R.A.P. come tributo proprio delle regioni contrapponendola alle quote di tributi erariali. Tale qualificazione, a maggior ragione, vale oggi, in rapporto alla nuova formulazione della norma costituzionale. Infatti, era semmai la contrapposizione dei tributi propri alle quote di tributi erariali che poteva consentire di ricomprendere l'I.R.A.P. tra le seconde (ma la Corte lo ha escluso), giacche' si potevano, al limite, qualificare in tal modo quelle imposte che, anche se integralmente percepite dalle regioni (quota del 100%), dovessero essere disciplinate soltanto dallo Stato. Una soluzione del genere e' peraltro esclusa oggi, poiche' nella nuova versione dell'art. 119 Cost. le uniche entrate tributarie, oltre ai tributi propri di cui regioni ed enti locali possono disporre, sono le compartecipazioni ai tributi erariali; il diverso termine impiegato dalla norma - non piu' quote di tributi erariali ma, appunto, compartecipazioni a tali tributi - e', al riguardo, significativo perche' la compartecipazione presuppone una ripartizione del relativo gettito con l'ente competente ad istituire e disciplinare il tributo. In definitiva, l'I.R.A.P. e' annoverabile tra i tributi propri delle regioni perche' e' a queste che spetta integralmente il relativo gettito, cosi' come sono qualificabili nello stesso modo tutti i tributi attualmente esistenti che presentino analoga caratteristica: cio' che conta e' la spettanza del gettito, perche' la competenza a disciplinare il tributo e' questione che dipende dal modo in cui la Costituzione ripartisce, rispettivamente tra, lo Stato e le regioni, i poteri in ordine ai tributi propri delle regioni. Quanto ai poteri spettanti alle regioni sui tributi propri, bisogna, altresi', considerare che codesta Corte costituzionale, con la sentenza n. 111/1999, pur qualificando l'I.R.A.P. come tributo proprio dello regioni, ha poi escluso che la legge statale istitutiva (che, come e' noto, disciplina compiutamente ogni aspetto della predetta imposta) violasse l'autonomia speciale della Regione Sicilia. A questa conclusione la Corte e' pervenuta, pero', muovendo dal rilievo che il disegno abbozzato dallo statuto di tale regione non ha trovato poi seguito nell'ordinamento e le disposizioni di attuazione hanno in realta' delineato un assetto completamente differente, in cui la Regione Sicilia viene a disporre, sui tributi propri, dei medesimi spazi di autonomia riconosciuti alle regioni ordinarie (sentenza n. 138/1999). Questi spazi di autonomia sono stati peraltro ricostruiti muovendo da una lettura dell'art. 119 Cost. incentrata su due elementi tra loro strettamente connessi: la potesta' impositiva e' conferita alle regioni dalle leggi di coordinamento, preposte, secondo l'originaria formulazione dell'art. 119, a stabilire le forme ed i limiti dell'autonomia finanziaria delle regioni e ad attribuire loro i tributi propri (sentenza n. 156/1990); inoltre, questa potesta' e' cosa distinta e separata dalla potesta' legislativa di cui all'art. 117, comma primo, Cost., con la conseguenza che non si configura come potesta' di tipo concorrente ma, semmai, come potesta' attuativa, alla stregua di quella prevista dall'art. 117 u.c. (sentenza n. 355/1998 e sentenza n. 295/1993). Sono questi i presupposti che hanno consentito alla Corte costituzionale di dichiarare infondata la questione di costituzionalita' relativa all'insufficiente spazio lasciato all'autonomia normativa regionale dalla disciplina statale istitutiva dell'I.R.A.P.; senonche' essi non valgono a far ritenere per la stesso motivo legittime le disposizioni della legge finanziaria 2003, qui impugnate. Entrambi i suddetti presupposti sono, infatti, venuti meno a seguito della modifica del titolo V della Costituzione. Per un verso, la potesta' l'impositiva e' riconosciuta direttamente dall'art. 119 Cost., in quanto la legge statale non e' piu' preordinata a definire le forme e di limiti dell'autonomia finanziaria ed in quanto i tributi propri non sono piu' attribuiti da tale legge. Per altro verso, per l'esercizio di questa potesta' l'art. 117 riconosce una competenza legislativa di tipo esclusivo: infatti il sistema tributario statale e' stato eretto a distinta e specifica materia dall'art. 117, comma secondo, che attribuisce alla potesta' esclusiva dello Stato la disciplina del suo sistema contabile e tributario, con la conseguenza che, poiche' manca, invece, nella elencazione di materie dell'art. 117 qualsiasi riferimento al sistema tributario delle regioni e degli enti locali, bisogna concludere che queste due materie, in quanto non altrimenti attribuite, rientrano nella potesta' residuale, di tipo esclusivo, delle regioni, ai sensi dell'art. 117, comma quarto. In tale diverso contesto, gli unici limiti che possono frapporsi all'esercizio, da parte delle regioni, della loro potesta' impositiva sono ravvisabili nella competenza concorrente dello Stata in ordine al coordinamento del sistema tributario e della finanza pubblica, materia in ordine alla quale lo Stato puo', quindi, intervenire esclusivamente in relazione alla «fissazione di principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; il che significa che lo Stato deve limitarsi a definire gli ambiti, individuando ad esempio tetti massimi e limiti non valicabili, entro cui puo' essere esercitata la potesta' impositiva dei vari livelli di governo, ma non certa a definire disposizioni di dettaglio atte a costringere in maniere vincolante l'espressione dell'attivita' legislativa e amministrativa degli altri autonomi livelli di governo. Da tutto cio' bisogna, quindi, trarre la conclusione che, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo titolo V della Costituzione, lo Stato ha perso il potere di emanare, in ordine ai tributi propri delle regioni, disposizioni del tipo di quelle istintive dell'I.R.A.P. e che disposizioni statali del genere restano in vigore fino a quando le regioni non provvedano e modificarle mediante resercizio della loro potesta' legislativa. Ulteriore conclusione e' che lo Stato ha perso il potere di emanare disposizioni del tipo di quelle impugnate con il presente motivo di ricorso, tenuto conto che queste, invece di definire l'ambito della potesta' impositiva delle regioni (ambito gia' definito dalla attribuzione ad esse dell'I.R.A.P. e non modificato dalle disposizioni in questione), disciplinano questa forma di prelievo e lo fanno addirittura con norme di dettaglio, riducendone per di piu' il gettito. 1.2. - Cio' premesso, piu' specificamente in relazione alle singole norme censurate, si evidenzia; 1.2.1. - L'art. 3, come rilevato, sospende la potesta', riconosciuta alle regioni ed agli enti locali dalla previgente disciplina statale, di aumentare l'addizionale I.R.P.E.F. loro spettante e quella riconosciuta alle regioni di maggiorare l'aliquota I.R.A.P. rispetto a quella stabilita dalla legge istitutiva. La norma appare, per entrambi i profili, in contrasto con la piu' ampia autonomia impositiva riconosciuta dal nuovo titolo V della Costituzione. Quanto alla aliquota I.RA.P. valgono i rilievi precedentemente svolti, nel senso che, trattandosi di un tributo proprio delle regioni, la legge statale di coordinamento puo' semmai stabilire una aliquota massima e puo' semmai successivamente modificare questo limite, ma certamente non puo' paralizzare l'esercizio dell'autonomia regionale, con l'esito di impedire un aumento dell'aliquota a quelle regioni che non abbiano a cio' provveduto entro una certa data. Cosi' facendo, infatti, si determina il blocco di un fondamentale canale di finanziamento delle competenze regionali, senza neppure stabilire un termine certo di durata della sospensione disposta. Poiche', come e' noto, il bilancio regionale deve necessariamente chiudere in pareggio, la carenza di risorse finanziari che la disposta sospensione che si realizzano tramite l'allocazione delle risorse libere. Percio', la disposizione viola sicuramente il principio di «autosufficienza finanziaria» sancito dall'art. 119, comma terzo, Cost. e non consente l'ordinario esercizio delle competenze proprie della Regione di cui agli artt. 117, 118, Cost. Cio' risulta particolarmente evidente e grave se solo si legge l'art. 3 insieme all'art. 30, comma 15, che colpisce con la sanzione radicale della nullita' gli atti e i contratti con cui gli enti territoriali ricorrono all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento. Quanto all'addizionale I.R.P.E.F., l'ambito di intervento della legge statale di coordinamento e' certamente piu' ampio: le addizionali influiscono, infatti, sulla base imponibile e, quindi, sul gettito di tributi erariali per cui, nonostante si tratti pur sempre di tributi propri, e' possibile ritenere che sia la legge statale di coordinamento ad attribuire la potesta' di istituirle, proprio per la funzione, svolta da tale legge, di definire l'area di prelievo spettante a ciascun livello di governo e di evitare cosi' che ciascuno di essi sia disturbato dal modo in cui gli altri esercitano le loro potesta'. Tutto cio' non e' pero' sufficiente a rendere plausibili misure sospensive da parte della legge statale di coordinamento, perche' delle due l'una: o la podesta' degli enti autonomi, per il modo in cui era stata precedentemente definita dalla legge statale, compromette la politica di prelievo dello Stato, nel caso essa va ridefinita in termini generali e con effetto anche sulle decisioni adottate da tali enti prima di una certa data; oppure tale potesta' non compromette la politica di prelievo dello Stato, nel caso non vi e' motivo di limitarne l'esercizio. Per entrambi i profili, sia quello relativo all'I.R.A.P. che quello concernente l'addizionale I.R.P.E.F., la norma appare, poi incostituzionale perche' a sospensione del potere degli enti autonomi di determinare le aliquote e' disposta sine die, «fino a quando non si raggiunga un accordo ... sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale». Insomma, il legislatore addiviene ad una simile decisione con percorso a dir poco incongruo ed irrazionale: siccome la modifica del titolo V della Costituzione ha ampliato le potesta' impositive di regioni ed enti locali, e' necessario sospendere i poteri gia' riconosciuti a tali enti, in attesa di definire il sistema complessivo entro cui questa maggiore autonomia va esercitata, al fine di avviare l'attuazione del federalismo fiscale la disposizione a impugnata finisce per eliminare spazi di esercizio di autonomia impositiva che le regioni avevano gia' in precedenza. L'incongruenza e l'irrazionalita' di tale iter logico argomentativo sono rese evidenti dal fatto che l'esigenza di una preventiva definizione dei «meccanismi strutturali del federalismo fiscale», se mai potesse giustificare la sospensione dei nuovi poteri riconosciuti dalla modifica del titolo V della Costituzione, non potrebbe certo legittimare la sospensione di quelli di cui gli enti gia' dispongono sulla base delle previgenti norme costituzionali. 1.2.2. - Con riferimento all'art. 5 e alle disposizioni relative ai vari tipi di condono introdotti, applicabili anche all'I.R.A.P. (6, 7, 8, 9, 15 e 16), valgono i rilievi svolti al precedente punto l nel senso che, essendo I.R.A.P. un tributo proprio della regione, la legge statale non puo' dettare disposizioni di dettaglio per ridurne il gettito, per disciplinare le modalita' di applicazione dell'imposta e per determinare misure di condono fiscale in ordine ad imposte che non sono proprie, ma deve limitarsi a dettare norme per il coordinamento finanziario dei diversi livelli di governo e, percio', solo a definire gli ambiti entro cui puo' essere esercitata la potesta' impositiva dei soggetti cui la stessa e' direttamente attribuita dall'art. 119 Cost. 1.2.3. - L'art. 13 della legge finanziaria 2003 autorizza le regioni e gli enti locali ad introdurre e disciplinare misure di condono fiscale relative ai loro tributi propri e, a questo fine, al terzo comma stabilisce che «si intendono tributi propri ... i tributi la cui titolarita' giuridica ed il cui gettito siano integralmente attribuiti ai predetti enti, con esclusione delle compartecipazioni ed addizionali a tributi erariali, nonche' delle mere attribuzioni ad enti territoriali del gettito, totale o parziale, di tributi erariali». Tale disposizione contiene una definizione che esclude dalla categoria dei tributi propri «le mere attribuzioni ad enti territoriali del gettito totale ... di tributi erariali», volendo con cio' affermare che un tributo e' erariale per il solo fatto che sia disciplinato dallo Stato. Ma questa definizione contrasta con la giurisprudenza costituzionale che, come si e' visto, ha ritenuto, gia' in relazione alla originaria formulazione dell'art. 119, che per delimitare l'ambito dei tributi propri e' rilevante esclusivamente il profilo della spettanza del relativo gettito e che debbono essere qualificati in tal modo tutti i tributi il cui gettito spetti integralmente alle regioni. Del resto, anche ad ignorare tutto cio', non sarebbe comunque possibile qualificare l'I.R.A.P. come tributo erariale per il solo fatto che la relativa disciplina e' stabilita integralmente dalla legge dello Stato. infatti, a seguito della entrata in vigore del nuovo art. 119 Cost., tale disciplina continua a regolamentare la predetta imposta soltanto in via transitoria e, cioe', fino a quando le regioni non esercitino la loro potesta' legislativa, per cui lo Stato ha perso il potere di modificarla, cosi' come quello di neutralizzarne gli effetti mediante la introduzione di misure di condono e sono, semmai, le regioni a poter adottare misure del genere. Per tutti i suddetti motivi, pertanto, le impugnate disposizioni sono illegittime per violazione degli artt. 117 118 e 119 Cost. 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 24 per violazione dell'art. 117 Cost. L'art. 24 dispone l'obbligo per le amministrazioni aggiudicatrici, come individuate nell'art. 1 del d.lgs. n. 358/1992 e nell'art. 2 del d.lgs. n. 157/1995, di ricorrere alle procedure comunitarie per l'acquisizione di beni e servizi di importo superiore a Euro 50.000, in relazione alle procedure «aperte o ristrette» (senza alcun riferimento, quindi, alle procedure negoziate: in primis la trattativa privata o gara informale, cui si fa ricorso anche per l'effettuazione delle spese in economia), in sostanza essendosi determinato l'abbassamento della soglia per l'applicazione della normativa comunitaria, da 200.000 DSP (249,000 euro) a 50.000 euro. Il secondo comma prevede, poi, l'esclusione dal suddetto obbligo: per i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti; per le amministrazioni pubbliche che facciano ricorso alle convenzioni quadro definite dalla CONSIP S.p.a., o al mercato elettronico della P.A.; per le cooperative sociali. E' inoltre previsto che i contratti stipulati in violazione del comma 1 siano nulli, con responsabilita' personale del dipendente che ha sottoscritto il contratto; ed ancora, che anche nelle ipotesi in cui la vigente normativa ammette la trattativa privata e' fatto obbligo per le amministrazioni di ricorrervi solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di una documentata indagine di mercato, con comunicazione alla sezione regionale della Corte dei conti. Il nono comma stabilisce, poi, che le disposizioni contenute nei commi 1, 2 e 5 costituiscono per le regioni norme di principio e di coordinamento. Senonche', la disciplina delle acquisizioni di appalti, servizi e forniture, per la parte che non concerne le acquisizioni di beni e servizi da parte delle amministrazioni statali, e' da ascrivere alla potesta' normativa generale, residuale ed esclusiva delle regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., fermo restando ovviamente il rispetto dei vincoli comunitari. Con la norma in esame lo Stato ha individuato, invece, un sistema per legiferare con effetti vincolanti in un campo non assegnato ne' alla sua potesta' normativa esclusiva, ne' alla potesta' concorrente; mentre la dichiarata riconduzione della materia degli appalti alla tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato non appare affatto convincente, come si dira'. Sotto tale profilo, l'art. 24 mira ad autolegittimarsi sul piano costituzionale, allorche' esordisce con il richiamo a ragioni di «trasparenza e di tutela della concorrenza». Ma e' evidente che, pur qualificandosi come disposizione mirata a tutelare la concorrenza, la norma in questione non ha, in realta', un chiaro contenuto relativo alla predetta materia. Infatti, tale norma agisce sulle procedure di gara, prevedendo che si applichino le procedure comunitarie anche per le acquisizioni di beni e servizi di valore superiore a 50.000 Euro, ma non introduce alcuna nuova regola di tutela o di sviluppo della concorrenza; obiettivo che, al contrario, viene addirittura contraddetto dalle stesse disposizioni contenute nell'art. 24, che prevedono consistenti eccezioni derogatorie alla regola di «tutela» affermata nel primo comma. La prima di queste eccezioni e' l'esenzione, dall'applicazione del sistema comunitario richiamato al comma 1, nei confronti dei comuni con popolazione inferiore a 5000 ab., il cui effetto e' permettere a ben 7000 e piu' stazioni appaltanti di porre in essere un regime differenziato, che non puo' non incidere sulla composizione dello stesso mercato, determinando la differenziazione fra imprese specializzate nel partecipare alle gare per enti locali di piccole dimensioni e imprese in grado di concorrere in un mercato piu' ampio. II che appare contrario all'obiettivo della concorrenza e della tutela del mercato, che non e' certo quello di creare nicchie, peraltro di economia debole, ma di favorire l'allargamento del mercato. La seconda e piu' problematica esenzione dalla applicazione dell'art. 24 e' prevista nei confronti delle amministrazioni pubbliche che facciano ricorso alle convenzioni con il CONSIP, soggetto legittimato a fungere da stazione appaltante. Ma di certo il sistema dell'acquisizione di beni e servizi con le convenzioni CONSIP, in luogo delle gare, non facilita la concorrenza nel mercato, visto che riduce sensibilmente la possibilita' di partecipazione a gare pubbliche, da un lato, ed impone forzosamente un prezziario (frutto di ribassi in gare pubbliche) che deve costituire base di gara nei casi in cui le amministrazioni procedano al di fiori delle convezioni medesime, dall'altro. Senza considerare, altresi', la ancora limitata capacita' di tale organismo di corrispondere alle variegate tipologie di beni e servizi necessari per l'attivita' di una pluralita' di amministrazioni appaltanti (comuni, regione, ma anche aziende sanitarie). E' evidente che tale disposizione non tutela affatto la concorrenza e non ha come fine l'estensione del mercato, ma all'opposto, produce una forte limitazione, ovvero un consistente orientamento del mercato medesimo. Non sussistono, quindi, i presupposti legittimanti l'esercizio della potesta' legislativa esclusiva dello Stato, ammantata delle dichiarate esigenze di tutela della trasparenza e della concorrenza: le invocate esigenze di tutela della concorrenza (che farebbero scattare la competenza esclusiva ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. e)) non paiono infatti ricorrere ove si abbia riguardo alla accezione in cui e' intesa la tutela della concorrenza, che attiene alla disciplina dei mercati in senso proprio, a regole antitrust e a interventi volti a correggere effetti distorsivi e di abuso di posizione dominante, condizioni che non sono perseguite dalla norma in esame e che non legittimano, pertanto, un intervento dello Stato penetrante e di dettaglio come quello in esame. Non basta, infatti, l'autoqualificazione di una norma per legittimarla come limite costituzionale (come dimostra la costante giurisprudenza di codesta stessa Corte, che ha sistematicamente negato ai legislatore statale il potere di definire, con effetti per cosi' dire «vincolanti», cio' che e' «principio fondamentale», «norma fondamentale di riforma economico-sociale», ecc.), dovendo la autoqualificazione della norma essere accertata secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalita'. Il che, nel caso presente, pone il problema di se e in che termini possa tutelare la concorrenza un'applicazione sottosoglia, rispetto al dato di riferimento precedente, di procedure europee (ma con esclusione delle procedure CONSIP e dei 7000 comuni minori) il cui costo in termini di appesantimento amministrativo non pare giustificato dai risultati, meramente ipotetici, che si potrebbero raggiungere per il solo fatto di imporre, ma solo ad una parte delle amministrazioni pubbliche, una forte limitazione del ricorso alla trattativa privata per l'acquisizione di beni e servizi essenziali. Ne', d'altra parte, le ragioni di trasparenza possono costituire, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, un titolo legittimante l'intervento della potesta' esclusiva dello Stato, attraverso una disciplina cosi' analitica e non graduabile secondo le circostanze, la qualita' delle amministrazioni, la tipologia dei beni e dei servizi. Ma un altro rilievo si impone. La norma in esame, al nono comma, stabilisce che le disposizioni contenute nei commi 1, 2 e 5, costituiscono norme di principio e di coordinamento: il che desta disorientamento ancora maggiore. Emerge qui un'insanabile contraddizione. Da un lato, infatti, la norma si autolegittima come regolamentazione di una materia appartenente alla potesta' normativa esclusiva dello Stato, «la tutela della concorrenza»; dall'altro e contemporaneamente, nel suo ultimo comma la medesima norma si qualifica come «principio», sottintendendo una collocazione della «materia» acquisizione di beni e di servizi nell'ambito della competenza concorrente. Delle due l'una: o l'intervento normativo di cui all'art. 24 e' fondato sulla materia della tutela della concorrenza, e allora non esprime un principio, ma una regolamentazione che trova fonte nella competenza esclusiva e che e' immediatamente vincolante per le Regioni; ovvero, al contrario, si tratta di un «principio», e allora e' necessario in primo luogo dichiarare quale sia la competenza concorrente cui si riferisce (poiche' non si puo' prescindere «dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale», come ha affermato codesta Corte nella sent. 282/2002) e, in secondo luogo, verificare se il tenore della disposizione stessa abbia le caratteristiche proprie di un «principio fondamentale». Sotto quest'ultimo profilo, va osservato che non potrebbe essere accreditata come «principio fondamentale» la norma che introduce contestualmente deroghe vistose al principio stesso (escludendo, nel caso, la maggior parte dei comuni dal suo rispetto, nonche' le amministrazioni che ricorrano a procedure di acquisizione di assai dubbia compatibilita' con l'affermata esigenza di espandere il «mercato» e la concorrenza), cosi' come e' tradizionale affermare della giurisprudenza di codesta Corte. 4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 25. L'art. 25 si occupa del pagamento e riscossine di somme di modesto ammontare, e prevede, fra l'altro, che il Ministro dell'economia detti, ai sensi dell'art. 17, comma 2, legge n. 400/1988, «disposizioni relative alla disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria», applicabili anche alle regioni. In relazione ai crediti delle regioni, l'art. 25 non risulta riconducibile ad alcuna delle competenze statali, ne' esclusive ne' concorrenti. Se, guardando al fine della norma, che sembra quello di razionalizzare le spese connesse al pagamento e alla riscossione di somme modeste, si ritenesse che l'art. 25 sia norma di coordinamento della finanza pubblica, esso sarebbe comunque lesivo delle competenze in quanto l'unico principio fondamentale in materia potrebbe essere, appunto, quello di limitare o eliminare le spese di cui sopra, mentre la disciplina attuativa dovrebbe essere dettata dalle regioni. Invece, l'art. 25 non si limita a tale principio fondamentale, come risulta chiaramente dai commi 2, 3 e 4, recante norme di dettaglio. Inoltre, ancora piu' evidente e' la lesivita' della previsione di un regolamento ministeriale di delegificazione in materia regionale. Poiche' l'art. 117, comma 6, attribuisce alle regioni la potersta' regolamentare, salvo che nelle materie di potesta' statale esclusiva, l'art. 25, comma 1, prevedendo un regolamento applicabile alle regioni in materia non rientrante nell'art. 117, comma 2, lede la sfera di competenza costituzionale regionale. 5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, commi 1, secondo periodo, 2 e 3. L'art. 26 istituisce il fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese, e prevede che con decreti ministeriali «di natura non regolamentare» siano stabilite le modalita' di funzionamento del fondo ed individuati «i progetti da finanziare e, ove necessario, la relativa ripartizione tra le amministrazioni interessate» (comma 1). Al comma 2 si attribuiscono al Ministro per l'innovazione, al fine di razionalizzare la spesa informatica nonche' «di indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche», svariati poteri paranormativi ed amministrativi (di direttiva, controllo, coordinamento, valutazione, approvazione di piani e progetti ed altri), con norme di dettaglio. Al comma 3 si prevede che, «nei casi in cui i progetti di cui ai commi 1 e 2 riguardino l'organizzazione e la dotazione tecnologica delle regioni e degli enti territoriali, i provvedimenti sono adottati sentita la Conferenza unificata». Tale disciplina; la' dove si applica alle Regioni, agli enti pararegionali e agli enti locali, riguarda l'organizzazione regionale e degli enti locali materie di competenza regionale piena, salvi gli organi di governo degli enti locali), e la gestione ministeriale di un fondo settoriale in una materia regionale risulta lesiva dell'autonomia finanziaria regionale, dato che le Regioni dovrebbero, in base ai principi di cui all'art. 119, poter gestire autonomamente le risorse nelle materie di propria competenza. Risultano lese poi le potesta' legislativa ed amministrativa, in quanto si conferiscono al Ministro (con norme dettagliate) poteri sostanzialmente normativi ed amministrativi in materia regionale. Ne' si puo' invocare il fatto che l'art. 26, comma 1, parli di decreti «di natura non regolamentare»: se per le fonti primarie i criteri di identificazione sono prettamente formali, per le fonti secondarie, come noto, si ricorre soprattutto a criteri sostanziali, e la legge non puo' mutare la natura dell'atto attribuendogli una certa «etichetta», perche', se un atto contiene precetti generali e astratti, innovativi dell'ordinamento, esso non puo' che essere sovraordinato (e cioe' normativo) agli atti amministrativi esecutivi. Del resto, sarebbe troppo facile «aggirare» l'art. 117, comma 6, se la legge statale potesse attribuire poteri sostanzialmente normativi al Governo solo evitando il nomem, di regolamento. Dunque, il comma 1 prevede un potere sostanzialmente regolamentare e, in violazione dell'art. 117, commi 4 e 6. Neppure le suddette lesioni vengono meno per il previsto parere della Conferenza unificata di cui al comma 3, essendo il parere un mero strumento di partecipazione e per di piu' assai debole. A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 26 fosse ricondotto alla materia del «sostegno all'innovazione per i settori produttivi», che, a dire il vero, sembra fare riferimento alle imprese e non alle pubbliche amministrazioni. Comunque, tale materia e' di potesta' concorrente, per cui in essa «spetta alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Anche nelle materie concorrenti sono preclusi regolamenti statali (vedi art. 117, comma 6) e spetta alle Regioni allocare le funzioni amministrative: infatti l'art. 118, comma 2, fa riferimento alle competenze legislative e, come visto, l'art. 117, comma 3, attribuisce alle Regioni la potesta' legislativa nelle materie concorrenti (salvi i principi). Del resto, che nelle materie concorrenti le funzioni amministrative debbano essere regolate dalle Regioni e' confermato con chiarezza dall'art. 117, comma 6, dato che la potesta' regolamentare si accompagna naturaliter alle funzioni amministrative. Cio' non toglie, ovviamente, che lo Stato possa trattenere funzioni amministrative fondate sui compiti ad esso spettanti ex art. 117, comma 2, anche se interferenti con materie regionali: ma non e' questo il caso. Dunque, se anche l'art. 26 riguardasse una materia di potesta' concorrente, le lesioni sopra viste dell'autonomia finanziaria, legislativa ed amministrativa non verrebbero meno. In definitiva, l'art. 26, commi 1, 2 e 3, risulta illegittimo nella parte in cui attribuisce al Ministro poteri normativi ed amministrativi relativi alla gestione del fondo in questione anche in relazione alle Regioni, agli enti pararegionali e agli enti locali, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri statali siano esercitati previa intesa con la Conferenza unificata, dato che nelle materie regionali il principio di leale collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati. 6. - Illegittimita' dell'art. 27. L'art. 27 istituisce un «Fondo speciale, denominato "PC ai giovani"», destinato a coprire le spese del relativo progetto promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie e volto ad incentivare l'acquisizione e l'utilizzo degli strumenti informatici e digitali tra i giovani che compiono sedici anni nel 2003». La disposizione prevede che con decreto ministeriale «di natura non regolamentare», adottato dal Ministro dell'economia, siano «stabilite le modalita' di presentazione delle istanze degli interessati, nonche' di erogazione degli incentivi stessi prevedendo anche la possibilita' di avvalersi a, tal fine della collaborazione di organismi esterni alla pubblica amministrazione». Non e' facile collocare tale disciplina in una materia precisa, ma di certo essa non rientra in nessuna delle materie di cui all'art. 117, commi 2 e 3, dato che il «sostegno all'innovazione» riguarda specificamente i «settori produttivi» e «l'istruzione» potrebbe essere invocata solo se il progetto venisse attuato in ambito scolastico, mentre i destinatari sono i giovani in generale. La disposizione in questione, dunque, ricade nella competenza piena delle Regioni. Ora, per le ragioni gia' esposte nel punto precedente, la gestione ministeriale di un fondo settoriale in una materia regionale risulta lesiva dell'autonomia finanziaria regionale. Risultano lese poi le potesta' legislativa ed amministrativa, in quanto si conferiscono al Ministro (con norme dettagliate) poteri sostanzialmente normativi (vedi sempre il motivo n. 5) ed al Dipartimento per l'innovazione poteri amministrativi in materia regionale. A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 27 fosse ricondotto ad una materia di potesta' concorrente. In definitiva l'art. 27 risulta illegittimo nella parte in cui attribuisce al Ministro e al Dipartimento per l'innovazione poteri normativi ed amministrativi relativi alla gestione del fondo in questione, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie regionali il principio di leale collaborazione impone un Coordinamento fra i soggetti interessati. 7. - Illegittimita' dell'art. 28, commi 5 e 6. L'art. 28, comma 3, della legge qui impugnata stabilisce che «tutti gli incassi e i pagamenti e i dati di competenza economica rilevati dalle amministrazioni pubbliche ... devono essere codificati con criteri uniformi su tutto il territorio nazionale», al fine di garantire la rispondenza dei conti pubblici all'art. 104 Trattato CE. Il comma 5 dispone che «il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata ..., stabilisce ... la codificazione, le modalita' e i tempi per l'attuazione delle disposizioni di cui ai commi 3 e 4». Queste disposizioni possono ascriversi alla competenza statale in materia di «coordinamento informativo», ma risulta in contrasto con il principio di leale collaborazione la previsione di un mero parere anziche' di un'intesa con la Conferenza unificata. Infatti, trattandosi di definire le modalita' di rilevazione dei dati economici da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, pare necessario che tali modalita' siano concordate da tutti gli enti territoriali. Infatti, le competenze statali devono esercitate in modo da tener conto delle competenze regionali interferenti: ora, poiche' la codificazione di cui sopra incide in modo rilevante sull'organizzazione regionale e degli enti locali, e' costituzionalmente necessario che essa sia definita d'intesa con la Conferenza unificata, in virtu' del principio di leale collaborazione. Il comma 6 dell'art. 28 sostituisce il comma 6 dell'art. 227 del d.lgs. n. 267/2000, stabilendo che gli enti locali inviano telematicamente il rendiconto della gestione alla Sezione enti locali della Corte dei conti e che «tempi, modalita' e protocollo di comunicazione per la trasmissione telematica dei dati sono stabiliti con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato, citta' e autonomie locali e la Corte dei conti». Ammesso che anche tale disposizione possa ricondursi alla competenza statale in materia di «coordinamento informativo», e non riguardi invece solo l'organizzazione degli enti locali (avendo ad oggetto le modalita' della trasmissione telematica del rendiconto), e' comunque certo che essa incide su tale organizzazione. Ora, poiche' l'organizzazione degli enti locali rientra nella potesta' regionale piena (salvi gli organi di governo) e nell'autonomia regolamentare degli stessi enti locali, non e' sufficiente che il decreto sostanzialmente regolamentare previsto dal comma 6 sia emanato con il solo parere della Conferenza Stato-citta', ma e' costituzionalmeute necessario, in virtu' del principio di leale collaborazione, che esso sia emanato previa intesa con la Conferenza unificata. 8. - Illeggittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1, 2, 5 e 15, per violazione degli articoli 117 e 119 Cost. L'art. 30, al primo comma, stabilisce che, al fine di avviare l'attuazione dell'art. 119 Cost. e in attesa di definire le modalita' per il passaggio al sistema di finanziamento attraverso la fiscalita', entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, il Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e con il Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione e con le Amministrazioni statali interessate, di intesa con la Conferenza unificata, procede alla ricognizione di tutti i trasferimenti erariali di parte corrente non localizzati, attualmente attribuiti alle Regioni, per farli confluire in un fondo unico da istituire presso il Ministero dell'economia e delle finanze e da ripartire secondo criteri fissati d'intesa con la Conferenza unificata. Tale disposizione, pur giustificata dalla finalita' di avviare l'attuazione dell'art. 119, si pone in realta' in contrasto con il sistema di finanziamento delineato dalla suddetta norma costituzionale e con le competenze legislative regionali in tema di finanza e sistema tributario regionale, derivanti dall'art. 117. Come gia' si e' evidenziato in relazione al primo motivo del ricorso con riguardo alle disposizioni di cui all'art. 3, in base alla nuova formulazione dell'art. 119 la Regione consegue l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa direttamente dalla norma costituzionale, con la conseguenza che in subiecta materia la Regione non e' piu' dipendente e limitata dalla legislazione statale, dovendo rispettare soltanto i principi di coordinamento della finanza pubblica, atteso che, inoltre, l'art. 117 include nelle materie a legislazione concorrente l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Ora, la disposizione impugnata non esprime affatto un principio di coordinamento, ma si limita a rinviare l'attuazione dell'art. 119 (e, in forza delle disposizioni introdotte con l'art. 3, a sospendere gli aumenti delle addizionali lrpef e di maggiorazione dell'aliquota dell'Irap, successive al 29 settembre 2002, fino alla definizione di un futuro accordo in sede di Conferenza unificata), finendo con l'eliminare, in tal modo, gli spazi di esercizio dell'autonomia impositiva delle Regioni ed impedendo, di fatto, ogni possibilita' di assumere, da parte di tali Enti qualsiasi decisione di spesa. Il che si traduce nel mancato rispetto delle competenze regionali in materia. Ma anche il secondo comma dell'art. 30 presenta un evidente profilo di incostituzionalita', in quanto, nel regolamentare il fondo di cofinanziamento dell'offerta turistica e i criteri di riparto, la disposizione statale incide in una materia di competenza esclusiva regionale, senza che sia ravvisabile alcun principio giustificativo. Il quinto comma dello stesso art. 30 risulta illegittimo perche', di fronte alla delicata decisione circa la ripartizione tra le Regioni dell'importo con cui si deve far fronte alla perdita di gettito conseguente alla riduzione dell'accisa sulla benzina, prevede che la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni, sia coinvolta solo a livello consultivo anziche' con intesa. Infine, il comma 15 dell'art. 30 risulta gravemente lesivo delle attribuzioni regionali in quanto prevede, come conseguenza della «violazione» del divieto di ricorrere all'indebitamento per finanziare spese diverse sia quelle di investimento, la sanzione della radicale nullita' degli atti e dei contratti, nonche' la condanna ad una sanzione pecuniaria di importo particolarmente elevato da irrogarsi da parte della Corte dei conti. La lesione delle attribuzioni regionali deriva dal fatto che la disciplina dettata non rientra nell'ordinamento processuale, ma attiene ad un profilo sanzionatorio che necessariamente inerisce, come costantemente ripetuto dalla giurisprudenza di codesta Corte, alla competenza sostanziale: per cui la disciplina dell'ordinamento e dell'organizzazione amministrativa, comprensiva degli aspetti di responsabilita' amministrativa e contabile, puo' essere dettata dalio Stato solo per cio' che riguarda l'amministrazione statale e degli enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2, lett. g), e non certo anche per l'amministrazione regionale. 9. - Illegittimita' dell'art. 31, comma 10. In base all'art. 31, comma 10, «a decorrere dal 1° gennaio 2003, le basi di calcolo dei sovracanoni» di cui all'art. 27, comma 10, legge n. 448/01 «sono fissate rispettivamente in 18 euro e 4,50 euro». Tale disposizione si occupa dei sovracanoni dovuti dai concessionari di derivazione d'acqua per produzione di energia idroelettrica. Si tratta di una norma di estremo dettaglio in materia rientrante nell'art. 117, comma 4, o, al massimo, nell'art. 117, comma 3 (produzione dell'energia): di piu' la sua chiara illegittimita'. Si tenga presente, ad abundiantiam, che, gia' ai sensi dell'art. 86, comma 1, d.lgs. n. 112/1998, «alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le regioni e gli enti locali competenti per territorio». 10. - Illegittimita' dell'art. 33, comma 4, secondo periodo. L'art. 33, comma 4, secondo periodo, prevede che «i comitati di settore, in sede di deliberazione degli atti di indirizzo previsti dall'articolo 47, comma 1», del d.lgs. n. 165/01, «si attengono i criteri previsti per il personale delle amministrazioni di cui al comma 1 del presente articolo [cioe', per il personale statale] e provvedono alla quantificazione delle risorse necessarie per l'attribuzione dei medesimi benefici economici individuando le quote da destinare all'incentivazione della produttivita». In relazione al comparto Regioni - Autonomie locali, il comitato di settore (che ha il compito di esercitare «il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN e le altre competenze relative alle procedure di contrattazione collettiva nazionale» (art. 41, comma 1, d.lgs. n. 165/2001) e' costituito «nell'ambito della Conferenza dei presidenti delle regioni, per le amministrazioni regionali e per le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione nazionale dei comuni d'Italia - ANCI e dell'unione delle province d'Italia - UPI e dell'Unioncamere, per gli enti locali rispettivamente rappresentati» (art. 41, comma 3, lett. a). In base all'art. 47, comma 1, «gli indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale sono deliberati dai comitati di settore prima di ogni rinnovo contrattuale e negli altri casi in cui e' richiesta una attivita' negoziale dell'ARAN»; si prevede poi che «gli atti di indirizzo delle amministrazioni diverse dallo Stato sono sottoposti al Governo che, non oltre dieci giorni, puo' esprimere le sue valutazioni per quanto attiene agli aspetti riguardanti la compatibilita' con le linee di politica economica e finanziaria nazionale». Dunque, in base al t.u. pubblico impiego, precedente la legge costituzionale n. 3 del 2001, il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN, per la contrattazione relativa al personale regionale e degli enti locali, spetta in sostanza alle Regioni ed agli enti locali, senza interferenze da parte statale (salva la valutazione governativa sulla compatibilita' finanziaria). La materia rientra ora nella potesta' regionale piena, per tutto cio' che va oltre i livelli essenziali dei diritti dei lavoratori: eppure la norma qui impugnata assoggetta gli atti di indirizzo del comitato di settore «regionale» ai «criteri» previsti per il personale statale: pare di capire, ai criteri relativi all'entita' degli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali, cioe', in pratica, all'entita' degli aumenti previsti per il personale statale. Inoltre, il comitato di settore regionale e' vincolato ad attribuire i «medesimi benefici economici», potendo solo individuare «le quote da destinare all'incentivazione della produttivita». Pare, dunque, evidente la lesione della potesta' legislativa regionale in materia di personale regionale e degli enti locali, dell'autonomia finanziaria regionale nonche' dell'autonomia amministrativa, in relazione ai vincoli posti all'attivita' del comitato di settore regionale. Ne' pare possibile invocare, a sostegno della norma impugnata, la competenza statale in materia di «coordinamento della finanza pubblica». Lo stesso art. 33, comma 4, precisa che gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali relativi al personale regionale ricadono sulle stesse Regioni, «nell'ambito delle disponibilita' dei rispettivi bilanci»: dunque, destinare maggiori o minori alla spesa del personale o ad altri scopi e' questione di «politica regionale»; che non incide sulle finanze statali. La competenza in materia di coordinamento della finanza non puo' legittimare lo Stato a dettare qualsiasi norma animata dal fine di porre un freno alla spesa pubblica, a pena di voler vanificare l'autonomia legislativa e finanziaria che la Costituzione attribuisce alle Regioni. 11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 34, commi primo, secondo, terzo, quarto, undicesimo, per violazione dell'art. 117 Cost. La norma si apre imponendo alle Amministrazioni di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4 del d.lgs. n. 165/2001 (e, quindi, anche alle Regioni) la rideterminazione delle dotazioni organiche, tenendo conto del processo di riforma delle amministrazioni in atto a dei processi di trasferimento delle funzioni alle Regioni e agli enti locali, il secondo comma stabilisce, poi, il principio dell'invarianza della spesa, prevedendo che le dotazioni organiche rideterminate non possono superare il numero dei posti di organico complessivi vigenti alla data del 29 settembre 2002; il terzo comma aggiunge che sino alla rideterminazione di cui al primo comma, le datazioni organiche sono provvisoriamente individuate in misura pari ai posti coperti al 31 dicembre 2002. Segue il divieto di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato (quarto comma), mentre l'undicesimo comma rinvia a futuri d.P.C.m., previo accordo fra Governo, Regioni ed Enti locali in sede di Conferenza Unificata, la fissazione anche per le Regioni di criteri e limiti per le assunzioni a tempo indeterminato per l'anno 2003, le quali debbono comunque essere contenute entro percentuali non superiori al 50% delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso del 2002. Trattasi di disposizioni chiaramente di carattere ordinamentale ed organizzatorio, come tali estranee al contenuto tipico della legge finanziaria (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della legge finanziaria) che non possono certo costituire per lo Stato una legittima via di sostituzione del necessario «titolo di competenza della sua legislazione» (S. Bartole, «Dopo il Referendum di ottobre», in Le Regioni 2001, 5, 798). Si deve sottolineare, infatti, che una competenza normativa generale in materia di organizzazione delle Amministrazioni pubbliche non sussiste piu' in capo allo Stato a seguito della riforma del Titolo V. E' peraltro pacifico che l'art. 117, secondo comma Cost. riserva alla potesta' esclusiva statale unicamente la materia della organizzazione o dell'ordinamento amministrativo dello Stato e degli enti pubblici nazionali ed e' quindi ad esso consentito di dettare norme vincolanti unicamente per le amministrazioni ed enti statali. Conseguentemente e' riservata alla potesta' legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, l'organizzazione amministrativa e l'ordinamento del personale regionale, sicche' in tale materia la competenza regionale e' esclusiva ed esercitabile nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Peraltro, l'ampia autonomia regionale in materia di ordinamento degli uffici e dello stato giuridico del proprio personale e' stata riconosciuta dalla stessa Corte cost. anche nella sussistenza del regime previgente (sent. nn. 10/1980, 277/1983, 278/1983, 772/1988, ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale potesta' deve essere, dunque, affermata oggi. Ne consegne la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e dei limiti in ordine alla assunzione e reclutamento del personale introdotti dalla disposizione in esame (commi secondo, terzo, quarto. undicesimo), che esulano completamente dal necessario idoneo titolo di competenza legislativa statale e la cui illegittimita' non appare mitigata neppure dalla prevista emanazione dei futuri decreti di recepimento di accordi, stabiliti in sede di conferenza unificata, atteso che essi non valgono a sostituire e a compensare una potesta' legislativa costituzionalmente attribuita alle Regioni. Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza, posto che dal punto di vista delle regioni, chiamate a svolgere ulteriori funzioni ed a gestire tutte quelle trasferite, non appare logico vincolare la dotazione organica a quella in essere al 31 dicembre 2002, cosi' come non sembra ragionevole in un'ottica di necessario completamento del processo di decentramento che sia autoritativamente ed unilateralmente sancito il blocco delle assunzioni, in attesa dei previsti decreti. Cio' anche in considerazione della circostanza che la Regione-Emilia Romagna e' gia' autonomamente intervenuta sul piano del contenimento della spesa per il personale, avendo approvato un progetto di legge (pubblicato sul BURER del 24 dicembre 2002, suppl. sp. n. 219) finalizzato a misure di razionalizzazione della spesa inerente al personale e alla salvaguardia delle politiche di copertura dei posti vacanti in riferimento alle risorse professionali necessarie per il raggiungimento delle finalita' dell'Ente. Ne consegue un'evidente lesione di prerogative ed esigenze costituzionalmente riservate alla competenza regionale e non giustificabili neppure sul piano della riserva statale connessa al «sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, secondo comma, lett. e) o alla «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (art. 117, terzo comma), se e' vero che le disposizioni dinanzi citate non rappresentano «norme tesa a realizzare effetti finanziari con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale» come dispone la legge che disciplina i contenuti dello strumento finanziario dello Stato, ma si risolvono piuttosto in misure tipicamente organizzatorie, impropriamente assurte a livello di disposizioni di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle regole costituzionalmente fissate in relazione ai rispettivi ambiti di autonomia e competenza. 12. - lllegittimita' costituzionale dell'art. 35. L'art. 35 dispone «Misure di razionalizzazione in materia di organizzazione scolastica». Esso e' costituzionalmente illegittimo nel suo complesso, in quanto completamente ignora la disposizione costituzionale secondo la quale la materia istruzione e' disciplinata dalla legge regionale, in conformita' ai principi fondamentali dettati dalla legge statale. Compito del legislatore ordinario statale, dunque, e' dettare i principi in base ai quali il sistema possa operare, regionalizzato, sulla base della disciplina delle singole regioni. Specifica illegittimita' costituzionale colpisce in ogni modo il comma 2, secondo il quale «con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono fissati i criteri e i parametri per la definizione delle dotazioni organiche dei collaboratori scolastici in modo da conseguire nel triennio 2003-2005 una riduzione complessiva del 6 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per 1 anno scolastico 2002-2003», precisandosi poi che, «per ciascuno degli anni considerati, detta riduzione non deve essere inferiore al 2 per cento». Tale disposizione e' in primo luogo incostituzionale in quanto determina una riduzione dell'organico dei collaboratori scolastici a prescindere da qualunque criterio di correlazione con la necessita' della formazione scolastica, in relazione ai numero degli studenti: il quale, secondo rilevazioni che la Regione si riserva di documentare, e' aumentato nel corso dell'ultimo anno di alcune migliaia. Di qui la necessita', al contrario di quanto disposto, di un aumento dell'organico. Ma cio' che qui si vuole dire e' che le decisioni in tale materia non possono essere assunte in astratto e quali pure misure di risparmio, senza un collegamento con le necessita' razionalmente accertate. In definitiva, la «riduzione del personale» non puo' essere in quanto tale un principio della legislazione scolastica. Inoltre, lo stesso comma 2 dispone che a tale riduzione si pervenga secondo i criteri e i parametri fissati con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze: sembra evidente che, anche supposta la legittimita' costituzionale di tale misura di riduzione, e' del tutto illegittimo che alla attuazione e alla fissazione di criteri e parametri provveda il Ministro dell'istruzione, senza neppure una concertazione con le Regioni. Allo stesso risultato di riduzione del servizio scolastico pervengono anche le disposizioni del comma 1, relative alle modalita' di riconduzione dell'orario degli insegnanti a quello obbligatorio. Anche tale disposizione soffre dunque della stessa complessiva irrazionalita'. Essa inoltre non lascia alcuno spazio alla potesta' concorrente della Regione nel determinare il livello del servizio scolastico, ne' all'autonomia stessa delle istituzioni scolastiche. L'intero articolo ed in particolare le disposizioni di cui al comma 1 e al comma 2 sono dunque illegittimi per violazione dell'art. 117, comma 3, e degli articoli 3 e 97 Cost. 13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 46, commi 2, 3, 4, 5, e 6, relativi al fondo nazionale per le politiche sociali ed al finaziamento della federazione maestri del lavoro. L'art. 46 disciplina la gestione del Fondo nazionale per le politiche sociali. Puo' dirsi sostanzialmente pacifico che, dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, la materia attiene alla competenza legislativa residuale delle Regioni, tranne che per quanto riguarda i livelli essenziali delle prestazioni. Non puo' dunque spettare allo Stato altro compito che quello di ripartire il fondo tra le Regioni, competenti ad assicurarne l'utilizzo secondo le disposizioni legislative vigenti, sia statali che regionali, e secondo le ulteriori disposizioni che esse emaneranno. Tocca pertanto alle Regioni, e non al «Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze» (secondo quanto dispone il comma 2 dell'art. 46) di assicurare l'integrale finanziamento degli interventi che costituiscono diritti soggettivi mentre risulta privo di base costituzionale l'ulteriore vincolo, dato al 10 per cento di tali risorse, della destinazione - tra i diversi obbiettivi di politica sociale possibili - al «sostegno delle politiche in favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l'acquisto della prima casa di abitazione e per il sostegno alla natalita». Si tratta infatti di concrete scelte di politica sociale, la cui priorita' puo' variare nelle diverse Regioni, secondo criteri di decisione ormai regionali. Si noti che l'invasivita' della disposizione non viene meno per il fatto che la ripartizione del fondo tra i diversi usi avverrebbe «d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Da un lato, infatti, secondo la regola generale il Governo ha il potere di provvedere unilateralmente qualora l'intesa non sia raggiunta, sia pure con onere di motivazione; d'altro lato - e piu' in profondita' - secondo l'attuale assetto costituzionale le scelte di politica sociale di cui e' oggetto spettano a ciascuna singola Regione, e non devono essere assunte attraverso un meccanismo centralizzato, sia pure comprendente la partecipazione delle Regioni. Il comma 3 della disposizione riguarda i livelli essenziali delle prestazioni, per la quale e' prevista la fissazione «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata». La Regione Emilia-Romagna non contesta tale meccanismo, che ritiene di per se' conforme alla competenza legislativa dello Stato su tale profilo, in coordinamento con la competenza regionale residuale per i rimanenti aspetti della materia. La contestazione riguarda invece la parte in cui si prevede che la determinazione di tali livelli avvenga «nei limiti delle risorse ripartibili del fondo nazionale per le politiche sociali, tenendo conto delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle regioni e dagli enti locali e nel rispetto delle compatibilita' finanziarie definite per l'intera sistema di finanza pubblica dal documento di programmazione economico-finanziaria»: non perche' si ritenga che possa non tenersi conto dei vincoli derivanti dal carattere limitato delle risorse, ma perche' tale carattere limitato sembra venire assunto - come paiono confermare, per quanto noto le prime stime di previsione sulla consistenza del Fondo per l'anno 2003, che risulterebbe dimezzato rispetto al precedente anno - come un indiscutibile dato di partenza, senza alcun rapporto con il previo accertamento delle esigenze del settore. In altri termini, e' la stessa misura complessiva del fondo che dovrebbe in primo luogo essere oggetto di una determinazione concordata tra Stato e Regioni, al fine di assicurarne una dimensione che permetta un livello delle prestazioni adeguato, anche se non ottimale. In questo quadro di ristrettezza risalta a maggiore ragione l'arbitrarieta' e la lesivita' della sottrazione al fondo - e dunque al riparto in vista del sistema generale delle prestazioni - di quote di risorse comunque destinate alla attivita' assistenziale, quale operata dal comma 6 della disposizione qui impugnata: ai sensi del quale, «per far fronte alle spese derivanti dalle attivita' statutarie della federazione dei maestri del lavoro d'Italia, consistenti nell'assistenza ai giovani al fine di facilitarne l'inserimento nel mondo del lavoro e nella collaborazione volontaristica con gli enti proposti alla difesa civile, alla protezione delle opere d'arte, all'azione ecologica, all'assistenza ai portatori di handicap ed agli anziani non autosufficienti, e' conferito alla federazione medesima, per il triennio 2003-2005, un contributo annuo di 260.000 euro». Si tratta di una destinazione legislativa arbitraria ed irrazionale, compiuta al di fuori di una competenza statale all'intervento. L'illegittimita' di tale decisione di spesa non viene meno per il fatto che all'onere elativo si provveda «a carico del fondo per l'occupazione di cui all'art. 1, comma 7, del decreto-legge 20 marzo 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236». Infatti, da un lato anche la tutela del lavoro e' ugualmente materia assegnata alle regioni dall'art. 117, comma 3, nei limiti dei principi della legislazione statale (mentre non si puo' ovviamente definire principio una singola largizione), dall'altro cio' che conta e' che, se il legislatore intende destinare i fondi ai fini assistenziali, come sono quelli in questione, la relativa gestione non puo' che seguire le regole proprie del settore. Illegittimo costituzionalmente risulta infine il comma 5, secondo cui, «in caso di mancato utilizzo delle risorse da parte degli enti destinatari entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui sono state assegnate, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali provvede alla revoca dei finanziamenti, i quali sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per la successiva assegnazione al Fondo di cui al comma 1». Infatti, il vincolo di destinazione puo' essere accettato in quanto inevitabile, nel presente stato di inattuazione dell'art. 119: ma esso non comporta e non richiede che si fissi un gravoso termine, in grado di frustrare la programmazione e la gestione di fondi da parte della singola regione. Il termine decadenziale della disponibilita' dei fondi rappresenta dunque una violazione dell'autonomia finanziaria, non necessaria nel meccanismo del fondo. 14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 47. L'art. 47, comma 1, attribuisce al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia, il potere di determinare «i criteri e le modalita' per la destinazione dell'importo aggiuntivo di 1 milione di euro, per il finanziamento degli interventi di cui all'art. 80, comma 4», della legge n. 448/1998. Questa disposizione stabilisce che, «nell'ambito del fondo per l'occupazione di cui all'art. 1, comma 7, del d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, la somma di lire 18 miliardi e' destinata al finanziamento degli interventi di cui alla legge 14 febbraio 1987, n. 40, in materia di formazione professionale». La legge n. 40/1987 prevede contributi statali «per la copertura delle spese generali di amministazione degli enti privati gestori di attivita' formative». Al comma 2, l'art. 47 modifica l'art. 118, comma 16, legge n. 388/2000, prevedendo che il Ministero del lavoro e della precedenza sociale, con proprio decreto, destini 100 milioni di euro, per il 2003, «per le attivita' di formazione nell'esercizio dell'apprendistato anche se svolte oltre il compimento del diciottesimo anno di eta', secondo le modalita' di cui all'art. 16 della legge 24 giugno 1997, n. 196». Dunque, l'art. 47 prevede finanziamenti in materia di formazione professionale (spettante alla competenza piena delle regioni) e attribuisce al Ministro il potere di definire i criteri di destinazione. Anche questa disposizione, dunque, viola la potesta' finanziaria, legislativa e amministrativa regionale, perche' lo Stato non puo', attribuendo fra l'altro poteri sostanzialmente regolamentari ad un ministro (al comma 1), trattenere a se la disciplina e la gestione di un finanziamento che ricade in materia regionale. L'art. 47 e', pertanto, illegittimo nella parte in cui prevede che la disciplina e la gestione dei finanziamenti relativi alla formazione professionale siano mantenuti allo Stato anziche' essere attribuiti alle regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa intesa con la Conferenza Stati-Regioni, dato che nelle materie regionali il principio di leale collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati. 15. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 48, relativo ai fondi interprofessionali per la formazione continua. L'art. 48 desciplina fondi destinati dalla parti sociali alla formazione continua. Come ricordato al punto precedente, la materia della formazione professionale e' affidata alla potesta' residuale delle regioni per l'espressa disposizione dell'art. 117, comma 3, che esplicitamente la eccettua dalla materia concorrente istruzione. Ne risulta che il sistema della formazione professionale non puo' avere un livello nazionale di organizzazione e gestione. Dunque e' illegittima la previsione che tali fondi siano costituiti al livello nazionale, come disposto dall'art. 48, comma 1, attraverso i nuovi commi 1 e 6 dell'art. 118 della legge n. 388 del 2000 (essendo previsto soltanto che i fondi, (previo accordo tra le parti, si possono articolare regionalmente o territorialmente»). Tali fondi devono potere invece essere per coerenza con il sistema generale a livello regionale. Inoltre, una volta che tali soggetti privati di gestione dei fondi siano stati costituiti, ogni potere amministrativo in relazione a tali fondi non puo' che spettare alla disciplina regionale, che provvedera' ad assegnare alla stessa regione o ad altri enti, in attuazione delle regole dell'art. 118 Cost., la relativa titolarita'. Cosi' non puo' che spettare alla regione la disciplina della attivazione, ed ove occorra la relativa autorizzazione. Ugualmente devono competere alla regioni la disciplina e l'esercizio della vigilanza e del monitoraggio sulla gestione dei fondi, come pure le relative funzioni sanzionatorie (sospensione dell'operativita' o il commissariamento). Ugualmente spetta alle regioni la nomina di membri o del presidente del collegio sindacale. Risultano percio' tutte illegittime le diverse previsioni del comma 2 dell'art. 118 della legge n. 388 del 2000, quali introdotte dall'art. 48 della legge qui impugnata. 16. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 4, 19 e 21. L'art. 52 e' dedicato alla razionalizzazione della spesa sanitaria. Occorre ricordare che in base all'art. 54 i livelli essenziali delle prestazioni sono rimasti immutati. Le risorse regionali, invece, si sono ridotte in misura rilevante, proprio per le misure contenute nella presente legge, e in parte sopra impugnate: le quali hanno da un lato - come sopra esposto - determinato diminuzioni nette del gettito, dell'altro paralizzato - pur se, come si ritiene, illegittimamente - la capacita' regionale di incrementare con proprie decisioni le proprie entrate fiscali. Ne risulta uno squilibrio strutturale tra risorse e obbligazioni di spesa - per assicurare le prestazioni stabilite con atto dello Stato - la cui sola esistenza e' in contrasto con i principi di autonomia finanziaria, ed in particolare con l'art. 119, quarto comma, che prescrive che le entrate proprie e le compartecipazioni debbono consentire alle regioni «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». Di tale squilibrio strutturale - come detto gia' di per se' costituzionalmente inammissibile - sembra prendere atto il comma 4 dell'art. 52, il quale prevede, anche richiamando precedenti leggi, un futuro «adeguamento del finanziamento del Servizio sanitario per gli anni 2003, 2004 e 2005», al quale le regioni potranno accedere. Si sottolinea qui che anche questo meccanismo di «finanziamento futuro» si colloca al di fuori dell'art. 119 Cost. Ma l'illegittimita' della disposizione impugnata non si ferma alla logica generale della manovra, con la relativa sottrazione di risorse, che costringe le regioni ad operare in condizioni di insufficienza strutturale, salvo futuro adeguamento del finanziamento, ma si estende, ed assume una connotazione specifica, in relazione alle particolare condizioni cui tale adeguamento e' subordinato. Si vuol dire cioe' che il principio della sufficienza delle risorse in relazione alle funzioni non puo' essere subordinato a condizioni e «adempimenti»: se le risorse sono oggettivamente carenti in relazione alle funzioni obbligatorie, l'adeguamento del finanziamento e' costituzionalmente dovuto, pur non potendo neppure con cio' dirsi conforme al sistema costituzionale, che richiede la preventiva sufficienza delle risorse. Spicca in particolare, tra gli adempimenti cui il comma 4 dell'art. 52 subordina l'accesso all'adeguamento, l'illegittimita' di quello previsto alla lett. d), secondo cui le regioni debbono adottare «provvedimenti diretti a prevedere, ai sensi dell'art. 3, comma 2, lettera c), del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, la decadenza automatica dei direttori generali nell'ipotesi di mancato raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende sanitarie e ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome». Tale disposizione e' in prima luogo incostituzionale perche', in violazione dell'art. 97 Cost. (per non dire della stessa soggettiva privazione del lavoro nell'amministrazione, in violazione dell'art. 4 e dell'art. 51), prevede la rimozione sanzionatoria dalla carica per il puro verificarsi di circostanze oggettive, in assenza di alcuna prova o riscontro che il mancato raggiungimento dell'equilibrio economico fosse in qualche modo evitabile da parte dello stesso direttore generale. Sembra evidente che non puo' che toccare alla regione, quale responsabile generale del servizio sanitario e quale amministrazione nominante, la valutazione del comportamento del direttore generale e del grado di responsabilita' che ad esso possa imputarsi nel mancato conseguimento dell'equilibrio economico: che puo' bene essere dovuto - in condizione di carenza finanziaria strutturale - all'obbligo di assicurare le prestazioni. Analoga specifica illegittimita' colpisce l'adempimento di cui alla lett. c), nella parte in cui si prevede lo svolgimento, per giunta «senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato», degli accertamenti diagnostici «in maniera continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni della settimana». Si tratta infatti di misure puramente organizzative, che limitano la relativa autonomia legislativa regionale anziche' limitarsi a fissare un principio in termini di risultato, che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le proprie scelte organizzative. Una specifica ulteriore illegittimita' costituzionale, diversa da quella di cui al comma 4, sin qui lamentata, colpisce il comma 19, che da un lato limita alla «misura massima del 50 per cento di quelli notificati al Ministro della salute nell'anno 2003 o autorizzati ai sensi del comma 7 del citato articolo», la possibilita' per le imprese farmaceutiche titolari dell'autorizzazione all'immissione in commercio di medicinali «di organizzare e contribuire a realizzare mediante finanziamenti anche indiretti in Italia o all'estero per gli anni 2004, 2005 e 2006 congressi, convegni o riunioni ai sensi dell'art. 12 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541, e successive modificazioni», dall'altro stabilisce che «non concorrono al raggiungimento della percentuale di cui al periodo precedente gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per la formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni». Da una parte, infatti, risulta illegittima la pregiudiziale limitazione ad un astratto 50% della possibilita' per le imprese di contribuire alla realizzazione di convegni, seminari, etc., lesiva non solo dell'autonomia organizzativa del servizio sanitario ma della stessa autonomia privata e di iniziativa economica; dall'altra, risulta altresi' illegittimo che da tale limitazione siano esonerati «gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per la formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502»: sembra evidente, infatti, che, ove risultasse costituzionalmente legittima la predetta limitazione, la valutazione e la autorizzazione di eventi che non sottostiano a tale limitazione non puo' che spettare alle regioni interessate dallo svolgimento dell'evento, e non ad un organismo nazionale privo di qualunque titolo costituzionale per lo svolgimento di una simile funzione. Ulteriore illegittimita' costituzionale colpisce il comma 21 dell'art. 52, nella parte in cui non prevede alcuna codecisione delle Regioni nella realizzazione del Centro nazionale di adroterapia oncologica per il quale e' assegnato al Centro nazionale di adroterapia oncologica l'importo di 5 milioni di euro per l'anno 2003 e di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004 e 2005. E' evidente infatti che tale centro dovra' necessariamente essere collegato al sistema dell'assistenza sanitaria, di cui potra' costituire una risorsa essenziale: di qui la necessita' che le regioni, titolari del compito costituzionale dell'assistenza sanitaria, siano chiamate a dare la propria intesa alle scelte relative al Centro, sia in relazione alla localizzazione che in relazione alla attivita' che esso e' chiamato a svolgere. 17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 56. L'art. 56 istituisce «un fondo finalizzato al finanziamento di progetti di ricerca, di rilevante valore scientifico, anche con riguardo alla tutela della salute e all'innovazione tecnologica», stabilendo che «alla ripartizione del fondo, istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, tra le diverse finalita' provvede il Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto, su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'universita'' e della ricerca, sentiti i Ministri dell'economia e delle finanze, della salute e per l'innovazione tecnologica». Con lo stesso decreto «sono stabiliti procedure, modalita» e strumenti per l'utilizzo delle risorse». Tale disciplina interessa una materia di potesta' concorrente (la ricerca scientifica) e, come gia' visto per altre norme, illegittimamente istituisce un fondo settoriale a gestione centrale, attribuendo (con norme di dettaglio) poteri sostanzialmente normativi ed amministrativi al Presidente del Consiglio dei ministri. L'art. 56, dunque, viola gli artt. 117, comma 3 e 6, 118, comma 2, e 119 per le ragioni gia' illustrate a proposito dell'art. 27 della legge n. 289/2002. Esso, in definitiva, risulta illegittimo nella parte in cui attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri poteri normativi ed amministrativi relativi alla gestione del fondo in questione, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri attribuiti al Presidente del Consiglio dei ministri siano esercitati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie concorrenti il principio di leale collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati. 18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 67. L'art. 67 estende ai comuni montani con meno di 5000 abitanti la normativa sulle misure straordinarie per la promozione e lo sviluppo dell'imprenditorialita' giovanile nel Mezzogiorno, stabilendo che «i criteri e le procedure applicative per l'estensione ..., ivi compresa la definizione della quota dei fondi in essere ... a tale fine riservata, sono determinati dal CIPE, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Gli incentivi alle imprese giovanili costituiscono materia di potesta' regionale piena. Lo Stato e' legittimato, dall'art. 119, comma 5, a destinare «risorse aggiuntive ... in favore di determinati comuni», per promuovere lo sviluppo economico, ma cio' lo abilita appunto a destinare le risorse, non a mantenere il potere (sostanzialmente normativo secondario) di definizione dei criteri di gestione delle risorse stesse, con la sola consultazione della Conferenza Stato-Regioni. Dunque, l'art. 67 viola l'art. 117, comma 4 e 6, e l'art. 119 Cost., risultando illegittimo nella parte in cui attribuisce al CIPE un potere normativo relativo alla gestione del fondo in questione, anziche' prevedere la mera attribuzione delle risorse aggiuntive alle Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che il potere attribuito al CIPE sia esercitato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, anziche' previo parere, dato che in una materia di potesta' regionale piena il principio di leale collaborazione impone un coordinamento piu' forte fra i soggetti interessati. 19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 8. Le disposizioni dell'art. 69, in materia di agricoltura, formano oggetto di impugnazione limitatamente al comma 8, sotto il profilo di seguito esposto. Dispone tale comma 8 che, «nell'ambito delle risorse finanziarie di cui ai decreti legislativi 18 maggio 2001, n. 227 e n. 228 un importo pari a 30 milioni di euro per l'anno 2003 e' destinato all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura per le esigenze connesse agli adempimenti di cui al regolamento (CEE) n. 729/1970 del Consiglio, del 21 aprile 1970, ed al regolamento (CE) n. 1663/1995 della Commissione, del 7 luglio 1995». Si tratta dunque di un finanziamento destinato all'AGEA, per i pagamenti connessi all'attuazione di normativa comunitaria. Sennonche' l'AGEA, che opera nella maggior parte delle regioni, non opera nella Regione Emilia-Romagna, per la ragione che in questa e' stata sostituita da una agenzia regionale denominata corrispondentemente AGREA, istituita dalla legge regionale n. 21 del 2001 (Istituzione dell'Agenzia regionale per le erogazioni in agricoltura - AGREA), secondo una facolta' espressamente riconosciuta dall'art. 3 del d.lgs. n. 165 del 1999. E' dunque l'AGREA, e non l'AGEA, che nella Regione Emilia-Romagna cura gli adempimenti di cui ai regolamenti della Comunita' europea citati al comma 8 dell'art. 69. In questo modo il finanziamento in favore soltanto della AGEA risulta discriminatorio nei riguardi della Regione, che non verrebbe a goderne esclusivamente per il fatto di avere provveduto alla costituzione di una propria organizzazione per l'esercizio degli stessi compiti. Sembra dunque chiara l'illegittimita' costituzionale consistente nel non avere considerato che in alcune regioni, e segnatamente nella Regione Emilia-Romagna, le attivita' cui il finanziamento si riferisce vengono svolte da un organismo regionale, e nell'avere conseguentemente escluso, senza alcuna ragione obiettiva di differenziazione, tale organismo dal finanziamento, in violazione degli articoli 119 e 3 della Costituzione, nonche' del principio di ragionevolezza. Naturalmente, la discriminazione non vi sarebbe se la disposizione fosse da intendere nel senso che l'AGEA, una volta ricevuto il finanziamento, ha a sua volta l'obbligo di trasferire all'ente regionale la quota ad esso spettante e l'impugnazione sopra esposta e' prospettata in via cautelativa, ove non fosse questa l'interpretazione esatta. 20. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 72, e commi 1, 2, 3 e 4. L'art. 72 (Fondi rotativi per le imprese) stabilisce che «le somme iscritte nei capitoli del bilancio dello Stato aventi natura di trasferimenti alle imprese per contributi alla produzione e agli investimenti affluiscono ad appositi fondi rotativi in ciascuno stato di previsione della spesa» (comma 1). Al comma 2 si prevede che «i contributi a carico dei fondi di cui al comma 1 ... sono attribuiti secondo criteri e modalita' stabiliti dal Ministro dell'economia e delle finanze, d'intesa con il Ministro competente, sulla base dei seguenti principi: a) l'ammontare della quota di contributo soggetta a rimborso non puo' essere inferiore al 50 per cento dell'importo contributivo b) la decorrenza del rimborso inizia dal primo quinquennio dalla concessione contributiva, secondo un piano pluriennale di rientro da ultimare comunque nel secondo quinquennio; c) il tasso d'interesse da applicare alle somme rimborsate viene determinato in misura non inferiore allo 0,50 per cento annuo». A tali decreti interministeriali il comma 3 attribuisce «natura non regolamentare». Il comma 4, poi, dichiara che, «ai fini deI concorso delle autonomie territoriali al rispetto degli obblighi comunitari per la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, le disposizioni di cui al presente articolo costituiscono norme di principio e di coordinamento», e' «conseguentemente gli enti interessati provvedono ad adeguare i propri interventi alle disposizioni di cui al presente articolo». Tale disciplina riguarda i contributi alle imprese e ricade, dunque, nell'art. 117, comma 4, Cost. Anche in questo caso, dunque, si prevedono illegittimamente fondi gestiti a livello di ciascun ministero, sulla base di criteri stabiliti con decreti interministeriali di natura sostanzialmente regolamentare, nonostante l'elusiva «etichetta» apposta dal legislatore (su cio' v. il motivo relativo all'art. 26). Dunque, i commi 1, 2 e 3 sono illegittimi e lesivi delle competenze regionali nella parte in cui prevedono poteri regolamentari e poteri di sovvenzione statali in materia regionale anziche' prevedere che le somme relative siano ripartite tra le Regioni. Quanto al comma 4, esso vorrebbe vincolare i contributi regionali al rispetto delle disposizioni di cui ai commi precedenti, qualificate come «norme di principio e di coordinamento» (della finanza pubblica, si suppone). Il comma 4 pare riferirsi ai principi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2, dato che i criteri ministeriali valgono per i contributi statali. Anche in questa misura, pero', il comma 4 risulta illegittimo e lesivo. L'art. 117, comma 3, non attribuisce allo Stato competenza in materia di «finanza pubblica» ma in materia di «coordinamento della finanza pubblica». Dunque, i principi fondamentali di tale materia non possono tradursi in regole specifiche relative ad un singolo settore, che vincolano le scelte politiche delle Regioni, ma devono limitarsi a garantire l'equilibrio complessivo della finanza. In altre parole, lo Stato puo' porre principi relativi alla spesa globale in un certo settore, ma non decidere anche come la spesa deve essere effettuata in quel settore dalle Regioni. Anche il comma 4, dunque, lede l'autonomia legislativa e finanziaria regionale, e la lederebbe ancora di piu' se «norme di principio» fossero considerati anche i criteri ministeriali di cui al comma 2. Nella disposizione del comma 4 si accenna a disposizioni di origine comunitaria, ma esse non sono minimamente indicate. Siffatta indicazione generica non puo' dunque costituire autonoma giustificazione del vincolo fermo restando l'obbligo delle regioni di rispettare le disposizioni comunitarie effettivamente esistenti. 21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 80, comma 6. Secondo l'art. 80, comma 6, «al fine di favorire l'autonoma iniziativa per lo svolgimento di attivita', di interesse generale, in attuazione dell'art. 118, quarto comma, della Costituzione le istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che perseguono rilevanti finalita' umanitarie o culturali possono ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o patrimoniali dello Stato, non trasferiti alla «Patrimonio dello Stato S.p.a.», costituita ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno 2002, n. 112, ne' suscettibili di utilizzazione per usi governativi, a un canone ricognitorio determinato ai sensi degli articoli l e 4 della legge 11 luglio 1986, n. 390, e successive modificazioni». La disposizione suppone dunque che vi siano immobili appartenenti al demanio o al patrimonio dello Stato che non siano «suscettibili di utilizzazione per usi governativi», e dispone che tali immobili possano essere affidati ad enti di assistenza o ad enti religiosi con finalita' umanitarie o assistenziali. Tale disposizione e' affetta, ad avviso della ricorrente regione, da plurime illegittimita' costituzionali. In primo luogo, infatti, essa interviene al di fuori delle materie di competenza esclusiva o concorrente statale, con violazione dell'art. 117, commi 2, 3 e 4. Ne' puo' valere l'obiezione che lo Stato puo' disporre come crede dei propri beni, dato che si tratta qui non di atti di disposizione privatistici o per fini patrimoniali, ma di previsioni di legge e di provvedimenti amministrativi nel campo della politica sociale. Inoltre, ed in secondo luogo, il legislatore statale ha in primo luogo l'obbligazione costituzionale di dare attuazione all'art. 119 Cost., il quale al comma 6 dispone che «i comuni, le province, le Citta' metropolitane, e le Regioni hanno un proprio patrimonio attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato». Sembra dunque evidente che il legislatore statale non puo', prima di avere dato attuazione a tale disposizione, disporre dei beni attualmente statali - ma in prospettiva da assegnare agli altri enti territoriali secondo un criterio di coerenza con le rispettive finzioni - in modo tale da vincolarli e in definitiva depauperarne il valore e ridurne la possibilita' di impiego, per giunta nell'ambito di una scelta di politica sociale che spetta ormai alle Regioni. 22. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 90, commi 18, 20, 21 e 22, 24, 25 e 26. L'art. 90, comma 18, prevede che, con uno o piu' regolamenti governativi di delegificazione emanati nel rispetto di non meglio identificate «disposizioni dell'ordinamento generale e dell'ordinamento sportivo, secondo i seguenti principi generali, sono individuati: a) i contenuti dello statuto e dell'atto costitutivo delle societa' e delle associazioni sportive dilettantistiche, con particolare riferimento a: 1) assenza di fini di lucro; 2) rispetto del principio di democrazia interna; 3) organizzazione di attivita' sportive dilettantistiche, compresa l'attivita' didattica per l'avvio, l'aggiornamento e il perfezionamento nelle attivita' sportive; 4) disciplina del divieto per gli amministratori di ricoprire cariche sociali in altre societa' e associazioni sportive nell'ambito della medesima disciplina; 5) gratuita degli incarichi degli amministratori; 6) devoluzione ai fini sportivi del patrimonio in caso di scioglimento delle societa'' e delle associazioni; 7) obbligo di conformarsi alle norme e alle direttive del CONI nonche' agli statuti e ai regolamenti delle Federazioni sportive nazionali o dell'ente di promozione sportiva cui la societa' o l'associazione intende affiliarsi; b) le modalita' di approvazione dello statuto, di riconoscimento ai fini sportivi e di affiliazione ad una o piu' Federazioni sportive nazionali del CONI o alle discipline sportive associate o a uno degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI, anche su base regionale; c) i provvedimenti da adottare in caso di irregolare funzionamento o di gravi irregolarita' di gestione o di gravi infrazioni all'ordinamento sportivo». La materia e', pacificamente, di competenza concorrente («ordinamento sportivo») e in tali materie, altrettanto pacificamente (art. 117, comma 6), non sono ammessi regolamenti statali. Non possono esserci dubbi, dunque, sulla lesivita' del comma 18, che doveva limitarsi a dettare principi fondamentali in materia, lasciando alle Regioni la disciplina degli oggetti che sono stati illegittimamente rimossi al regolamento di delegificazione. I commi 20 e 21 dell'art. 90 prevedono che presso il CONI sia istituito «il registro delle societa» e delle associazioni sportive dilettantistiche», distinto in tre sezioni, e che le modalita' di tenuta del registro ... nonche' le procedure di verifica, la notifica delle variazioni dei dati e l'eventuale cancellazione sono disciplinate da apposita delibera del Consiglio nazionale del CONI, che e' trasmessa al Ministero vigilante ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31 gennaio 1992, n. 138». Dunque, sempre in materia di potesta' concorrente tali disposizioni attribuiscono poteri amministrativi e normativi ad un ente parastatale, in contrasto con l'art. 117, comma 3 e 6, e con l'art. 118, comma 2, Cost. Fra l'altro, non c'e' nessuna ragione che le associazioni sportive dilettantistiche debbano essere iscritte in un registro nazionale gestito dal CONI: anzi, l'orientamento generale e' che gli albi ed elenchi siano tenuti a livello locale (v. l'albo delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni di promozione sociale, delle societa' cooperative). Dunque, se anche si ritenesse che, nelle materie di cui all'art. 117, comma 3, spettasse allo Stato allocare le funzioni amministrative (cosa che ad avviso della Regione non corrisponde al diritto costituzionale vigente), i commi 20 e 21 sarebbero comunque illegittimi per violazione dell'art. 118, comma 1. Il comma 22 dell'art. 90 stabilisce che, «per accedere ai contributi pubblici di qualsiasi natura, le societa' e le associazioni sportive dilettantistiche devono dimostrare l'avvenuta iscrizione nel registro di cui al comma 20». Tale disposizione e' di dettaglio e dunque lede la potesta' legislativa regionale; inoltre essa condiziona illegittimamente la potesta' amministrativa regionale di sovvenzionare le associazioni sportive, ed interferisce illegittimamente con le leggi regionali che gia' prevedano tali sovvenzioni. I commi 24 e 25 dettano norme che non riguardano l'ordinamento sportivo ma l'uso degli impianti sportivi degli enti territoriali e l'affidamento della loro gestione nel caso in cui l'ente territoriale non intenda gestirlo direttamente. Il contenuto del comma 24 e' di per se' condivisibile (a parte la limitazione ai «cittadini» se all'espressione dovesse darsi un significato preciso) ma non si vede quale sia il titolo di competenza statale a dettare una norma del genere. Essa viola dunque l'art. 117, comma 4, cosi' come il comma 25, che detta criteri per l'affidamento della gestione degli impianti, lasciando alle Regioni la sola disciplina delle modalita'. Entrambi i commi, inoltre, violano l'autonomia degli enti locali. L'art. 26, poi, stabilisce che «le palestre, le aree di gioco e gli impianti sportivi scolastici, compatibilmente con le esigenze dell'attivita' didattica e delle attivita' sportive della scuola, ... devono essere posti a disposizione di societa' e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nel medesimo comune in cui ha sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti». Anche tale norma ricade nell'art. 117, comma 4, ledendo la potesta' legislativa regionale e l'autonomia delle istituzioni scolastiche. 23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 91, commi 1, 2, 3 e 4. L'art. 91 istituisce il «fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi», dettando alcune norme di dettaglio in merito (v. commi 2, 3 e 4) e attribuendo al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per le pari opportunita', il potere sostanzialmente regolamentare di definire i criteri per la concessione dei finanziamenti (ed i prospetti da utilizzare) ed il potere amministrativo di concedere e revocare il finanziamento. Poiche' i servizi sociali sono materia di potesta' regionale piena, e' palese la lesivita' di tali norme, che violano l'art. 119, l'art. 117, commi 4 e 6, e l'art. 118, comma 2, per le ragioni gia' illustrate nel punto relativo all'art. 27 della legge qui impugnata. Dunque, i commi sopra indicati dell'art. 91 sono illegittimi nella parte in cui attribuiscono al Ministro, con norme di dettaglio, poteri normativi ed amministrativi relativi al fondo in questione, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri normativi previsti dai commi 3 e 4 siano esercitati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie regionali il principio di leale collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati.