Ricorso  della  Regione  Veneto,  in  persona  del Presidente pro
tempore  della  giunta  regionale, autorizzato mediante deliberazione
della giunta stessa 14 febbraio 2003, n. 331, rappresentata e difesa,
come  da  procura  speciale  a  margine del presente atto, dagli avv.
prof.  Mario  Bertolissi  di  Padova, Romano Morra di Venezia e Luigi
Manzi  di  Roma,  presso  quest'ultimo  domiciliata  in  Roma, via F.
Confalonieri n. 5;
    Contro  il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  presso  la quale e'
domiciliato  ex  lege,  in  Roma,  via  dei Portoghesi, n. 12, per la
declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale per violazione degli
artt. 2, 3, 5, 81, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost.; degli artt. 2,
3,  5  19,  23,  24, 25, 34, 91 della legge 27 dicembre 2002, n. 289,
recante  «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)».

                           Fatto e diritto

    1.  -  Prima  di  prospettare  nel  modo  piu'  semplice e chiaro
possibile,  senza  inutili complicazioni, i profili di illegittimita'
costituzionale  degli  artt. 2,  3,  5, 19, 23, 24, 25, 34 e 91 della
legge  27 dicembre 2002, n. 289, meglio nota come «Finanziaria 2003»,
la  difesa della Regione del Veneto ritiene opportuno svolgere alcune
brevi riflessioni introduttive.
    L'attuale  formulazione delle disposizioni contenute nel titolo V
della  nostra  Carta costituzionale e' il frutto di due interventi di
riforma  posti  in  essere  negli  ultimi  anni,  tra i quali il piu'
organico   e   significativo   e'   stato  realizzato  con  la  legge
costituzionale  18  ottobre  2001,  n. 3,  volti  -  non  lo  si puo'
seriamente  negare,  e  da  nessuno e' mai stato negato - ad ampliare
l'ambito   dell'autonomia   regionale   e   delle  comunita'  locali,
modificando  il  sistema  di  distribuzione  delle competenze e delle
funzioni legislative, amministrative e finanziarie tra i diversi enti
che compongono la Repubblica italiana.
    Tutto  questo  si  e' realizzato nel rispetto del procedimento di
revisione  costituzionale  di cui all'art. 138 Cost. e, quindi, e' il
frutto  della  volonta'  sovrana  del  Parlamento  e  degli  elettori
chiamati  a  pronunciarsi  attraverso  il  referendum  previsto dalla
disposizione ora richiamata.
    Il  Parlamento  nell'approvazione  del nuovo testo del titolo V -
come  e'  ovvio - ha dovuto valutare le implicazioni derivanti da una
nuova distribuzione dei poteri sul territorio e dal riconoscimento di
una  maggiore  autonomia,  anche  finanziaria,  delle regioni: il che
implica  l'adesione  a  nuovi  valori costituzionali o, comunque, una
diversa graduazione dei valori esistenti.
    Del  resto, va sempre ricordato come, in uno Stato democratico di
diritto,  all'attribuzione  di  funzioni si accompagna l'attribuzione
delle  corrispondenti responsabilita' e quando, per qualsiasi motivo,
c'e' una scissione tra esercizio delle funzioni e responsabilita', la
democraticita' dello Stato rischia di venire meno.
    Non   si   possono,  quindi,  attribuire  nuovi  poteri  e  nuove
competenze  alle  regioni  pretendendo,  nel  contempo,  di  incidere
unilateralmente  sulle  loro  risorse,  privandole  di  fatto di ogni
potere   di  decisione,  ma  lasciandole  agli  occhi  dei  cittadini
responsabili dell'esercizio delle funzioni loro attribuite.
    Per   garantire  l'esercizio  delle  funzioni  costituzionalmente
previste  con  l'assunzione  delle  relative responsabilita' in capo,
rispettivamente,  allo  Stato,  alle  regioni  e agli enti locali, il
legislatore   costituzionale  ha  riscritto  l'art. 119  Cost.  e  ha
inserito,    tra    le    materie    di   legislazione   concorrente,
l'«armonizzazione  dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica  e del sistema tributario»: ecco perche' leggere il titolo V
della  Costituzione,  ignorando  o  dimenticando  le disposizioni ora
ricordate, significa alterare la nostra stessa forma di Stato.
    Una   breve  analisi  della  disposizione  costituzionale  citata
spieghera' forse meglio quanto ora affermato.
    E'  appena il caso di ricordare, infatti, che l'art. 119, nel suo
secondo  comma,  prevede  che  «i  comuni,  le  province,  le  citta'
metropolitane  e  le  regioni  hanno risorse autonome. Stabiliscono e
applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e
secondo  i  principi  di  coordinamento  della finanza pubblica e del
sistema  tributario.  Dispongono  di  compartecipazioni al gettito di
tributi  erariali  riferibile  al loro territorio»; e vale la pena di
ricordare,   altresi',   che   tale  disposto  e'  significativamente
preceduto dalla dichiarazione di cui al primo comma, secondo la quale
«i  comuni,  le  province, le citta' metropolitane e le regioni hanno
autonomia finanziaria di entrata e di spesa».
    La   lettera   della   disposizione,   che  riecheggia  il  testo
dell'art. 114  Cost.  - ritenuto pietra angolare del nuovo sistema di
identificazione  degli  elementi  costitutivi  della  Repubblica  (in
questo  senso,  tra  gli  altri,  si vedano: F. Gallo, Le risorse per
l'esercizio  delle  funzioni  amministrative e l'attuazione del nuovo
art. 119,  in  AA.VV.,  Il sistema amministrativo dopo la riforma del
Titolo  V  della  Costituzione,  a cura di G. Berti e G.C. De Martin,
Roma,  2002,  142  s.,  e  i  contributi di F. Teresi, S. Gambino, F.
Pizzetti,  A.  Ruggeri,  sul  tema  de  Il  sistema  normativo  nella
Repubblica  delle  autonomie,  in  AA.VV.,  La  funzione normativa di
Comuni, Province e Citta' nel nuovo sistema costituzionale, a cura di
A.  Piraino, Palermo, 2002, 43 s.), potrebbe far pensare ad una piena
equiparazione  delle  regioni agli altri enti locali sotto il profilo
della   sua  autonomia  finanziaria.  Una  tale  conclusione  sarebbe
peraltro  del  tutto affrettata per la semplice, ma decisiva, ragione
che  solo  le  regioni,  oltre  lo Stato ovviamente, sono titolari di
potesta' legislativa.
    L' art. 119, comma 2, la' dove dispone espressamente che gli enti
locali  e  le  regioni  «stabiliscono  e  applicano» i tributi propri
«secondo  i  principi  di  coordinamento della finanza pubblica e del
sistema  tributario», opera un richiamo implicito all'art. 117, comma
3,  che,  come  gia'  ricordato,  ricomprende il coordinamento tra le
materie   di   legislazione  concorrente.  Quest'ultima  disposizione
prevede  che  in  tali  materie  «spetta  alle  regioni  la  potesta'
legislativa,   salvo   che   per   la   determinazione  dei  principi
fondamentali, riservata alla legge dello Stato».
    E'  sempre l'art. 119 della Costituzione a stabilire un immediato
collegamento tra funzioni e risorse, prevedendo, al suo quarto comma,
che  «le  risorse  derivanti  dalle  fonti di cui ai commi precedenti
consentono ai comuni, alle province, alle citta' metropolitane e alle
regioni  di  finanziare  integralmente  le  funzioni  pubbliche  loro
attribuite».
    In  tal  modo viene esplicato un concetto fondamentale: cioe' che
l'autonomia  finanziaria  e'  l'elemento fondamentale di garanzia nei
confronti  delle  altre  autonomie sancite dagli artt. 114, 117 e 118
Cost.
    Questo  complesso  sistema delle autonomie che stabilisce valori,
compiti,  poteri  e  responsabilita'  non  puo' essere travolto dallo
Stato  invocando la necessita' di realizzare gli obiettivi di finanza
pubblica.
    Nel  compiere  la  scelta  politica  di dettare un nuovo titolo V
della  Costituzione,  nell'ambito  del  quale  la posizione di Stato,
regioni ed enti locali, tutti componenti essenziali della Repubblica,
viene   concepita   in  modo  diverso  rispetto  al  passato  assetto
istituzionale,  il Parlamento doveva aver ben presenti le esigenze di
contenimento  della  spesa  pubblica  e il rispetto degli obblighi di
bilancio  che  discendono  dall'appartenenza  dell'Italia  all'Unione
europea  e,  in  particolare, alla sua adesione all'unione monetaria,
oltre che dall'art. 81 della nostra Carta fondamentale.
    Questi  stessi  obiettivi  devono,  quindi,  essere raggiunti nel
rispetto  della  Costituzione  e  dei  valori in essa stabiliti e non
possono   in  alcun  modo  costituire  motivo  per  giustificare  una
compressione degli spazi di autonomia in questa riconosciuti.
    Per  altro  va  detto  che  il  cronico determinarsi di disavanzi
«eccessivi»  nei  bilanci  di  tutti gli enti pubblici e' un fenomeno
manifestatosi  in passato in Italia, in modo ancor piu' significativo
rispetto  ad  oggi, all'interno di un sistema contabile e finanziario
del tutto accentrato.
    Non  si  tratta  pero'  qui  di stabilire quale sia il modello di
Stato  piu'  idoneo a garantire il contenimento della spesa pubblica,
per la semplice, ma ancor decisiva, ragione che questa scelta e' gia'
stata compiuta dalla nostra Costituzione.
    Non e', dunque, ammissibile che il legislatore ordinario ponga in
essere  degli  atti normativi come se la distribuzione dei poteri tra
Stato,  regioni  ed enti locali fosse rimasta immutata, sulla base di
valutazioni  che  attengono  a  profili  politico-istituzionali  gia'
frutto  di una sovrana manifestazione di volonta' espressa attraverso
il  procedimento  di  riforma  costituzionale;  ne'  sono ammissibili
letture   delle   disposizioni   della   Carta  fondamentale  che  si
allontanino  a  tal  punto dalla lettera del testo e dal rispetto dai
valori  sanciti  dalla  nostra Costituzione da stravolgere il disegno
del sistema delle autonomie, tracciato con la legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.
    La  Regione  del Veneto intende, invece, illustrare come la legge
«finanziaria  per il 2003», con gli artt. 2, 3, 5, 19, 23, 24, 25, 34
e   91,   qui  impugnati,  ignori  la  riforma  del  titolo  V  della
Costituzione e ritiene che tali disposizioni debbano, di conseguenza,
essere dichiarate incostituzionali da codesto ecc.mo Collegio.
    2. - Con l'art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 si e' dato
avvio  al programma di riforma fiscale partendo dalle modifiche della
disciplina relativa all'imposta sul reddito delle persone fisiche.
    Il  principio  sul quale si fonda la riforma dell'IRPEF e' quello
della  cosiddetta «no tax area» - introdotto attraverso l'inserimento
dell'art. 10-bis  nel testo unico delle disposizioni sull'imposta sul
reddito delle persone fisiche, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica  22 dicembre 1986, n. 917 - in forza del quale e' prevista
una   quota   di  deduzione  dal  reddito  imponibile,  che  dovrebbe
comportare un risparmio di imposta.
    A  seguito  della  previsione  della «no tax area» sono state poi
rimodulate  tutte quelle disposizioni che disciplinano l'attribuzione
delle  detrazioni  di  imposta  con una logica che non si discosta di
molto dall'applicazione del nuovo principio.
    Il comma 4 dell'art. 2 della finanziaria affronta il problema dei
possibili   effetti   del  nuovo  sistema  sulle  addizionali  IRPEF,
stabilendo  che  «la deduzione di cui all'art. 10-bis del testo unico
delle  imposte  sui  redditi,  di cui al decreto del Presidente della
Repubblica  22  dicembre  1986,  n. 917,  introdotto  dal comma 1 del
presente articolo, non rileva ai fini della determinazione della base
imponibile  delle  addizionali  all'imposta sul reddito delle persone
fisiche,  fermo  restando,  comunque,  quanto  previsto dall'art. 50,
comma  2,  secondo periodo, del decreto legislativo 15 dicembre 1997,
n. 446,  e  dall'articolo  1,  comma  4,  del  decreto legislativo 28
settembre 1998, n. 360».
    Ora  l'art. 50,  comma 2, secondo periodo, del d.lgs. 15 dicembre
1997,  n. 446  e  l'art. 1,  comma  4,  del d.lgs. 28 settembre 1998,
n. 360, fatti espressamente salvi dalla disposizione sopra riportata,
prevedono che l'addizionale, rispettivamente regionale e comunale, e'
dovuta se per lo stesso anno l'IRPEF, al netto delle detrazioni e dei
crediti riconosciuti rilevanti dal citato testo unico, e' dovuta.
    In altre parole l'applicazione della «no tax area» non incide sul
calcolo  delle  addizionali  IRPEF,  a  patto pero' che l'imposta sia
dovuta: quindi, quando, a seguito delle detrazioni previste dal nuovo
art. 10-bis,  il  contribuente non deve versare l'imposta sul reddito
delle   persone   fisiche  non  deve  nemmeno  versare  l'addizionale
regionale e comunale.
    L'art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, dunque, attraverso
la  riforma  dell'IRPEF,  determina  una  diminuzione delle risorse a
disposizione delle regioni e nel fare questo non prevede alcuna forma
compensativa,  cosi'  ponendosi  in  contrasto  con  l'art. 119 della
Costituzione,  in particolare con il comma 4 di detto articolo ove si
stabilisce  che  «le  risorse  derivanti  dalle fonti di cui ai commi
precedenti consentono ... alle regioni di finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite».
    3. - Un'ulteriore    compressione    dell'autonomia   finanziaria
regionale  discende  dall'art. 3  della  legge  impugnata,  il  quale
stabilisce che, «in funzione dell'attuazione del Titolo V della parte
seconda  della  Costituzione  e  in  attesa  della  legge  quadro sul
federalismo  fiscale»,  gli aumenti delle addizionali all'imposta sul
reddito  delle  persone fisiche per i comuni e le regioni, nonche' la
maggiorazione  dell'aliquota  dell'imposta  regionale sulle attivita'
produttive, deliberati successivamente al 29 settembre 2002 e che non
siano  confermativi  delle  aliquote  in vigore per l'anno 2002, sono
sospesi fino a quando non si raggiunga un accordo ai sensi del d.lgs.
28  agosto  1997,  n. 281, in sede di Conferenza unificata tra Stato,
regioni  ed  enti  locali  sui meccanismi strutturali del federalismo
fiscale.
    Prevedendo  la  sospensione  delle  addizionali fino a che non si
arrivi  all'accordo  sul  cosiddetto  federalismo  fiscale,  lo Stato
dimostra  di  considerare  gli  artt. 119  e  117, comma 3, in cui e'
prevista,    tra    le    materie    di   legislazione   concorrente,
l'«armonizzazione  dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica  e  del  sistema  tributario»,  come  disposizioni  prive di
un'efficacia  precettiva  immediata,  che  attendono l'intervento del
legislatore (statale) per essere attuate.
    Una  tale  interpretazione del dettato costituzionale, che lascia
all'iniziativa  e,  dunque,  alla  volonta' statale l'esercizio della
potesta'   legislativa  delle  regioni,  costrette  ad  attendere  la
formulazione  dei principi fondamentali in apposite leggi statali per
porre  in  essere  la  loro normativa di dettaglio, e' stata respinta
dalla  stessa  giurisprudenza costituzionale ancora nella vigenza del
precedente  formulazione  dell'art. 117  Cost.  (cfr. sent. n. 39 del
1971   e   69  del  1983,  con  cui  si  e'  negata  l'illegittimita'
costituzionale  della  legge 16 maggio 1970, n. 281 che aveva sancito
la  piena  fungibilita'  tra  leggi  cornice e principi desunti dalla
legislazione statale vigente).
    Le  affermazioni dell'ecc.ma Corte costituzionale su questo punto
sono chiarissime e, quindi, sperando di non annoiare il Collegio, che
ben  conosce  la  sua  giurisprudenza,  si  ritiene  utile richiamare
brevemente  solo  quanto  detto  sul  punto  con riferimento al nuovo
titolo V della Costituzione.
    Nella  sentenza  26  giugno 2002, n. 282 si precisa, infatti, che
«la  nuova formulazione dell'art. 117, terzo comma, rispetto a quella
previgente  dell'art. 117, primo comma, esprime l'intento di una piu'
netta  distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste
materie  e  la  competenza  statale, limitata alla determinazione dei
principi  fondamentali della disciplina. Cio' non significa pero' che
i  principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente
rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio
al  nuovo  sistema  di  riparto  delle  competenze,  la  legislazione
regionale  concorrente  dovra'  svolgersi  nel  rispetto dei principi
fondamentali  comunque  risultanti  dalla  legislazione  statale gia'
esistente».
    Ora  dalla legislazione primaria vigente si possono rinvenire dei
principi di coordinamento della finanza pubblica in tema di potere di
utilizzo della leva fiscale delle regioni.
    Quanto  all'IRAP,  si  fa riferimento al dettato dell'art. 16 del
d.lgs.   15   dicembre   1997,   n. 446   che,  nel  disciplinare  la
determinazione dell'imposta, prevede al terzo comma che, «a decorrere
dal  terzo  anno  successivo  a  quello  di  emanazione  del presente
decreto,  le  regioni  hanno facolta' di variare l'aliquota di cui al
comma  1  fino  ad  un massimo di un punto percentuale. La variazione
puo' essere differenziata per settori di attivita' e per categorie di
soggetti  passivi».  L'art. 50  del  d.lgs.  15 dicembre 1997, n. 446
sopra   citato   prevede   l'istituzione  dell'addizionale  regionale
all'imposta  sul  reddito  delle  persone  fisiche e dispone al terzo
comma   che   «l'aliquota   di  compartecipazione  dell'  addizionale
regionale  di  cui al comma 1 e' fissata allo 0,9 per cento. Ciascuna
regione,  con  proprio  provvedimento,  da  pubblicare nella Gazzetta
Ufficiale  non oltre il 30 novembre dell'anno precedente a quello cui
l'addizionale  si riferisce, puo' maggiorare l'aliquota suddetta fino
all'1,4 per cento».
    Va  ancora ricordato che l'art. 4 del d.l. 15 aprile 2002, n. 63,
convertito  con  modificazioni  dalla  legge  15 giugno 2002, n. 112,
obbliga  le  regioni  a  ricorrere  all'aumento  dei  tributi  per la
copertura  dei  maggiori fabbisogni di spesa sanitaria. In tale norma
si   dispone   l'estensione   agli  anni  2002,  2003  e  2004  delle
disposizioni  dell'art. 40  della  legge 28 dicembre 2001, n. 448, il
quale,  a  sua  volta,  lega  le integrazioni del finanziamento della
spesa  nel  settore  sanitario  -  previste nell'accordo tra Governo,
regioni  e province autonome di Trento e Bolzano dell'8 agosto 2001 -
al rispetto, da parte di ogni singola regione, degli impegni indicati
ai  punti 19, 2 e 15 dell'Accordo stesso. In particolare, l'art. 2 di
tale accordo dispone che le regioni applichino direttamente misure di
contenimento  della  spesa attraverso «l'introduzione di strumenti di
controllo  della  domanda,  la  riduzione  della spesa sanitaria o in
altri  settori,  ovvero  l'applicazione  di  un'addizionale regionale
all'IRPEF o altri strumenti fiscali previsti dalla normativa vigente,
nella misura necessaria a coprire l'incremento di spesa».
    Non  puo'  essere  seriamente  messo  in  dubbio che il potere di
manovra  fiscale  sia  coessenziale  al riconoscimento dell'autonomia
finanziaria  e sia, al contempo, il presupposto per l'esercizio delle
funzioni     legislative    e    amministrative    costituzionalmente
riconosciute,  di  cui  la  regione e' responsabile nei confronti dei
cittadini.
    Una disposizione come quella dell'art. 3 della legge finanziaria,
che  subordina  al  raggiungimento  di  un  futuro accordo in sede di
Conferenza  unificata  tra  Stato, regioni ed enti locali gli aumenti
delle  addizionali,  impedisce  di  ipotizzare una qualsiasi politica
regionale  autonoma  e,  lungi da essere «in funzione dell'attuazione
del   titolo   V   della  parte  seconda  della  Costituzione»,  come
solennemente  esordisce  l'articolo  impugnato,  determina  un  grave
arretramento rispetto al passato, in violazione degli artt. 114, 117,
comma3, 118 e 119 Cost.
    4. - L'art. 5  della  legge  27 dicembre 2002, n. 289 prevede una
serie  di  riduzioni  dell'IRAP  sotto  forma di deduzioni dalla base
imponibile,  mentre  l'art. 19 della stessa legge prevede proroghe di
agevolazioni  per il settore agricolo con una riduzione dell'aliquota
IRAP  con  riferimento  alla competenza 2002 (ed effetti di cassa nei
due anni successivi).
    Senza  voler  entrare  nella complessa problematica relativa alla
classificazione  di  un  tributo come statale, regionale o locale, e'
indubbio  che  l'IRAP  e'  un'imposta ricadente nell'area del sistema
tributario regionale.
    Non   si  comprende,  dunque,  come  una  disposizione  di  legge
ordinaria dello Stato, che stabilisce una riduzione del tributo senza
per   altro  prevedere  alcuna  forma  compensativa  per  la  finanza
regionale,  possa  essere  conforme  al  testo  e  alla  ratio  degli
artt. 114,  117,  comma  3,  118  e 119 Cost., nei termini piu' volte
delineati.
    Gli  artt. 5 e 19 della finanziaria si inseriscono, dunque, in un
quadro   volto  a  ridurre  le  risorse  delle  regioni,  cancellando
contemporaneamente  ogni  loro  possibilita'  di  porre in essere una
qualsiasi decisione di spesa e sono, quindi, contrari a Costituzione.
    5. - Il  mancato  rispetto della competenza regionale nell'ambito
della  materia  «armonizzazione  dei bilanci pubblici e coordinamento
della  finanza  pubblica  e  del sistema tributario», di cui al terzo
comma  dell'art. 117 Cost., si riscontra anche nell'art. 23, comma 5,
della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
    La  disposizione  impugnata  stabilisce  che  «i provvedimenti di
riconoscimento  di  debito  posti  in  essere  dalle  amministrazioni
pubbliche  di  cui  all'art. 1,  comma  2,  del d.lgs. 30 marzo 2001,
n. 165,  sono  trasmessi  agli organi di controllo ed alla competente
procura della Corte dei conti»
    La   disciplina  posta  dal  comma  5  dell'art. 23  della  legge
finanziaria,  come  si  puo' vedere, e' molto specifica e non lascia,
dunque, margini, alla potesta' legislativa della regione.
    Gia'  nella vigenza del precedente titolo V della Costituzione la
giurisprudenza  costituzionale  definiva  i principi che si impongono
alla  legislazione  regionale  concorrente come quei generali criteri
che  informano  la  disciplina legislativa statale del settore (sent.
n. 49  del  1958  e  n. 46  del  1968) e precisava che questi «devono
riguardare   in  ogni  caso  il  modo  di  esercizio  della  potesta'
legislativa regionale e non comportare l'inclusione o l'esclusione di
singoli  settori  della materia nell'ambito di essa» (sent. n. 70 del
1981).
    La   disposizione  impugnata  non  contiene,  quindi,  certamente
principi fondamentali, ma detta una norma di semplice dettaglio.
    Peraltro  la disposizione in discorso pone in capo alle pubbliche
amministrazioni  un nuovo incombente - la trasmissione agli organi di
controllo  e  alla procura della Corte dei conti dei provvedimenti di
riconoscimento  di debito - di cui non e' chiara la finalita'. Non si
dice, infatti, ne' quali siano le attivita' che l'organo di controllo
o  la  procura  contabile  possano  porre  in  essere una volta presa
visione dell'atto ne' quali conseguenze derivino dal mancato invio.
    Anche  dell'art. 23 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, dunque,
deve essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale per violazione
degli artt. 97 e 117 della Costituzione.
    6. - L'art. 24 della legge finanziaria al suo primo comma estende
a  tutti  i  contratti di valore superiore a 50.000 euro i criteri di
gara  previsti  dal  d.lgs.  24  luglio 1992, n. 358 e 17 marzo 1995,
n. 157.  Il  comma  5  del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che
«anche  nelle  ipotesi  in  cui  la  vigente  normativa  consente  la
trattativa   privata,  le  pubbliche  amministrazioni  possono  farvi
ricorso  solo  in  casi eccezionali e motivati, previo esperimento di
una  documentata  indagine  di  mercato,  dandone  comunicazione alla
sezione regionale della Corte dei conti». Nel comma 9 dell'art. 24 si
afferma  esplicitamente che «le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 5
costituiscono,   per   le   regioni,   norme   di   principio   e  di
coordinamento».
    In  primo  luogo,  si deve rilevare un'incompetenza dello Stato a
porre  in  essere  disposizioni,  come  quelle  citate, che attengano
all'evidenza pubblica.
    Nonostante  il legislatore statale faccia esplicito riferimento a
«ragioni  di  trasparenza  e  concorrenza»,  non  vi e' dubbio che la
disciplina della procedura di scelta del contraente per l'acquisto di
beni  e  servizi  non rientra nell'ambito della materia di competenza
esclusiva   statale   di  cui  alla  lettera  e)  del  secondo  comma
dell'art. 117  Cost., non essendo la tutela della concorrenza il bene
giuridico riguardato in via diretta dalla disciplina dei procedimenti
ad  evidenza pubblica. La materia, per altro, non e' compresa nemmeno
in   nessuna  delle  attribuzioni  oggetto  di  potesta'  legislativa
concorrente di cui all'art. 117, comma 3.
    In  ragione di cio', si puo' dire che la disciplina degli appalti
pubblici,  ove naturalmente non si applichi la normativa comunitaria,
rientra  nella competenza legislativa residuale della regione, di cui
al quarto comma dell'art. 117.
    Per   quanto   si   e'   detto,   appare   del   tutto   evidente
l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 24 della legge 27 dicembre
2002, n. 289.
    In  particolare,  appare  privo di senso, nell'ambito del disegno
costituzionale  tracciato dalla legge cost. n. 3 del 2001, il dettato
del comma 9, che vorrebbe attribuire alle disposizioni dei commi 1, 2
e 5 la natura di «norme di principio e di coordinamento».
    Nel  nuovo  testo  dell'art. 117  Cost.  la  potesta' legislativa
regionale  e'  soggetta,  in  generale  e in linea di principio, agli
stessi  limiti  della  legislazione statale, cioe' al «rispetto della
Costituzione,   nonche'   dei   vincoli   derivanti  dall'ordinamento
comunitario  e  dagli  obblighi internazionali», come recita il primo
comma  dell'articolo  ora  citato  (cosi',  ad esempio, G. Falcon, Il
nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le Regioni,
2001, n. 1, 6 s.).
    In  altre  parole,  l'assenza  di qualsiasi limite espresso nelle
materie   di  potesta'  legislativa  esclusiva  regionale  conduce  a
equiparare, quanto a forza normativa, legge regionale e legge statale
ordinaria.  Infatti,  nel  nuovo  testo costituzionale sono scomparsi
alcuni importanti limiti che, invece, la precedente disciplina poneva
all'esercizio  della  potesta'  legislativa  regionale,  tra  cui, ad
esempio,  il  limite  dell'interesse nazionale (in tal senso, tra gli
altri,  P. Caretti, L'assetto dei rapporti tra competenza legislativa
statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V della Costituzione:
aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, n. 6, 1223).
    Per  altro, anche a voler ragionare per assurdo, ritenendo che la
materia  degli  appalti  pubblici  possa  rientrare nell'ambito della
tutela della concorrenza, cosa, come si e' spiegato, non sostenibile,
il  riferimento,  contenuto nel comma 9, alle norme di principio e di
coordinamento,  apparirebbe  del  tutto  in  contrasto  con  il testo
costituzionale, venendo in gioco una competenza statale esclusiva, in
cui  lo  Stato detta la disciplina della materia e non pone in essere
«norme di principio e di coordinamento».
    Per  quanto  specificamente  attiene  alla  disposizione  di  cui
all'art. 24,  comma 5, va detto che essa appare confliggere anche con
il  principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione,
sancito dall'art. 97 della nostra Costituzione. Lo specifico precetto
per  cui  le  amministrazioni  possono  far  ricorso  alla trattativa
privata,  anche nelle ipotesi in cui la vigente normativa la ammette,
«solo  in  casi  eccezionali  e  motivati,  previo esperimento di una
documentata  indagine  di mercato», appare sostanzialmente ridondante
rispetto  alle  previsioni  comunitarie,  nazionali  e regionali gia'
disciplinanti  la  materia,  che  assegnano a tale tipo di scelta del
contraente  sicuramente  il carattere dell'eccezionalita' e prevedono
tutta   una   serie   di   cautele  in  favore  della  trasparenza  e
dell'economicita'.
    In   quest'ottica,   l'obbligo   di  comunicazione  alla  sezione
regionale  della  Corte dei conti del ricorso alla trattativa privata
sembra  un ulteriore adempimento «burocratico», che si unisce a tanti
altri  e  che  complica  il  procedimento  amministrativo,  senza che
risulti nemmeno chiaro quale sia l'effetto di tale comunicazione.
    L'art. 24 al comma 4 prevede, inoltre, che «i contratti stipulati
in violazione del comma 1 o dell'obbligo di utilizzare le convenzioni
quadro  definite dalla CONSIP S.p.a. sono nulli. Il dipendente che ha
sottoscritto   il  contratto  risponde,  a  titolo  personale,  delle
obbligazioni  eventualmente  derivanti  dai  predetti  contratti.  La
stipula  degli  stessi e' causa di responsabilita' amministrativa; ai
fini  della  determinazione  del danno erariale, si tiene anche conto
della differenza tra il prezzo previsto nelle convenzioni anzidette e
quello indicato nel contratto».
    Anche  tale  disposizione, in cui e' disciplinata una fattispecie
di  responsabilita' amministrativa appare in contrasto con l'art. 117
Cost.
    Infatti, leggendo gli elenchi di cui ai commi 2 e 3 dell'articolo
ora  citato,  non  si  rinviene una materia in cui possa rientrare la
disciplina   sostanziale   della   responsabilita'  amministrativa  e
contabile.
    Tra  le  materie  di  competenza esclusiva statale troviamo, alla
lettera  g), «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato
e  degli  enti pubblici nazionali», che potrebbe riguardare (ispirati
dalla  lettura  che  ha  sempre  dato il giudice costituzionale della
locuzione    «ordinamento   degli   uffici»)   anche   la   normativa
sull'illecito  in  discorso, ma solo con riferimento ai comportamenti
dei   dipendenti   e   degli  amministratori  statali  o  degli  enti
menzionati.
    La   successiva   lettera   l)  dell'art. 117,  comma  2,  recita
«giurisdizione  e  norme  processuali;  ordinamento  civile e penale;
giustizia amministrativa»: il che ci consente di dire solo che, ferma
la   giurisdizione  della  Corte  dei  conti  in  materia,  ai  sensi
dell'art. 103  Cost., le norme processuali in tema di responsabilita'
amministrativa   rientrano  nella  competenza  dello  Stato.  Inoltre
l'ordinamento  degli  enti  locali  e'  disciplinato in via esclusiva
dallo  Stato solo relativamente a «legislazione elettorale, organi di
governo   e  funzioni  fondamentali  di  comuni,  province  e  citta'
metropolitane» (art. 117, comma 2, lett. p).
    La   disciplina   sostanziale  degli  illeciti  amministrativi  e
contabili  degli  amministratori  e  dei  dipendenti delle regioni, e
sembrerebbe  anche degli enti locali, cade, dunque, nell'ambito della
potesta'  legislativa  regionale di cui al quarto comma dell'art. 117
Cost.  (sul  punto  si veda: C. Pagliarin, Colpa grave ed equita' nel
giudizio  di  responsabilita'  innanzi  alla Corte dei conti, Padova,
2002,   377):   di   qui  l'incostituzionalita'  anche  del  comma  4
dell'articolo 24 della finanziaria.
    7. - Con  l'art. 25  della  legge  27  dicembre  2002,  n. 289 il
legislatore  ordinario ha demandato a regolamenti di delegificazione,
contenuti  in  decreti  del  Ministro  dell'economia e delle finanze,
l'adozione  della disciplina relativa al pagamento e alla riscossione
di  somme  di  modesto ammontare, per altro accompagnando la «delega»
con alcune previsioni estremamente puntuali.
    Per  comprendere  il  livello  di  dettaglio  della  disposizione
impugnata e' utile riprodurre qui il testo.
    Nel primo comma dell'art. 25 della finanziaria troviamo stabilito
il  rinvio  alla  fonte  regolamentare:  «con  uno o piu' decreti del
Ministro  dell'economia  e  delle  finanze,  sono  adottate  ai sensi
dell'art. 17,   comma   2,   della  legge  23  agosto  1988,  n. 400,
disposizioni   relative   alla   disciplina  del  pagamento  e  della
riscossione  di  crediti  di modesto ammontare e di qualsiasi natura,
anche tributaria, applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche di
cui  all'articolo  1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165,  compresi  gli enti pubblici economici», mentre nel secondo e
nel  terzo  comma vengono dettati i contenuti di tali atti normativi:
«con  i  decreti  di  cui  al  comma  1  sono  stabiliti  gli importi
corrispondenti  alle somme considerate di modesto ammontare, le somme
onnicomprensive  di  interessi o sanzioni comunque denominate nonche'
norme  riguardanti  l'esclusione  di  qualsiasi  azione  cautelativa,
ingiuntiva ed esecutiva. Tali disposizioni si possono applicare anche
per periodi d'imposta precedenti e non devono in ogni caso intendersi
come franchigia» (comma 2); «sono esclusi i corrispettivi per servizi
resi dalle pubbliche amministrazioni a pagamento» (comma 3). Il comma
4  detta,  infine,  disposizioni  di ulteriore minuto dettaglio: «gli
importi  sono in ogni caso arrotondati all'unita' di euro. In sede di
prima applicazione ai decreti di cui al comma 1, l'importo minimo non
puo' essere inferiore a 12 euro».
    La   disposizione,   dunque,  prevede  un  rinvio  ad  una  fonte
secondaria  statale di disciplina e ha di per se' stessa un contenuto
molto  specifico  e  preciso.  La  disciplina  sulle  procedure  e  i
presupposti  del  pagamento e della riscossione di somme di ammontare
modesto  rientra  pero'  nella  materia  «armonizzazione  dei bilanci
pubblici  e  coordinamento  della  finanza  pubblica  e  del  sistema
tributario»,  di  cui  al terzo comma dell'art. 117 Cost., oggetto di
potesta' legislativa concorrente.
    L'art. 25  della  legge 27 dicembre 2002, n. 289 si pone, dunque,
in  contrasto  con  la  Costituzione  in quanto non si limita certo a
determinare  i  principi  fondamentali,  ma  anzi,  ponendo in essere
disposizioni che esauriscono completamente la materia trattata e, per
di  piu',  affidando  ad  altre fonti statali subordinate l'ulteriore
disciplina,  non  lascia  alcun  margine  di  intervento  alla  legge
regionale.
    8. - Con  l'art. 34  della  legge  finanziaria  e' stato previsto
l'obbligo   per  tutte  le  pubbliche  amministrazioni,  comprese  le
regioni, di effettuare la rideterminazione delle dotazioni organiche.
A  tal  fine  -  precisa  la  disposizione ora richiamata - si dovra'
tenere   conto   del   processo  di  riforma  delle  amministrazioni,
conseguente sia alla legge cosiddetta «Bassanini uno» (legge 15 marzo
1997,  n. 59)  sia alla legge sulla dirigenza statale (legge 6 luglio
2002,  n. 137)  sia,  infine,  ai  processi  di  trasferimento  delle
funzioni  alle  regioni  e  agli  enti locali, anche conseguenti alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
    Si  stabilisce, comunque, che la spesa per il personale non possa
venire  aumentata,  e  che  le  dotazioni organiche rideterminate non
debbano  superare il numero dei posti di organico complessivi in atto
alla  data  del  29  settembre  2002.  Fino  al  perfezionamento  dei
provvedimenti   di  rideterminazione,  le  dotazioni  organiche  sono
individuate  in via provvisoria, in misura pari ai posti coperti alla
data  del  31 dicembre 2002, tenuto conto anche dei posti per i quali
sono  in  corso di svolgimento procedure di reclutamento, mobilita' o
riqualificazione del personale.
    Al  comma  4 dell'art. 34 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e'
previsto  il  blocco  per  l'anno  2003  delle assunzioni di tutte le
pubbliche  amministrazioni, tranne che per le assunzioni di personale
riferite  a figure professionali non sostituibili, la cui consistenza
organica  non  sia superiore all'unita', oltre a quelle relative alle
categorie protette.
    Il  comma 11 prevede poi disposizioni specifiche per le regioni e
gli  enti  locali. In tale comma si stabilisce, infatti, che «ai fini
del  concorso  delle  autonomie  regionali e locali al rispetto degli
obiettivi  di  finanza  pubblica»,  con  decreti  del  Presidente del
Consiglio  dei  ministri, da emanare entro sessanta giorni dalla data
di entrata in vigore della legge finanziaria 2003, previo accordo tra
Governo,  regioni  e  autonomie  locali  da  concludere  in  sede  di
Conferenza  unificata, «sono fissati per le amministrazioni regionali
(...)  criteri  e  limiti per le assunzioni a tempo indeterminato per
l'anno  2003». Tali assunzioni, fatto salvo il ricorso alle procedure
di  mobilita', «devono comunque essere contenute, fatta eccezione per
il  personale infermieristico del Servizio sanitario nazionale, entro
percentuali  non  superiori  al  50  per  cento  delle cessazioni dal
servizio  verificatesi  nel  corso  dell'anno  2002  tenuto conto, in
relazione  alla  tipologia di enti, della dimensione demografica, dei
profili  professionali del personale da assumere, della essenzialita'
dei  servizi  da garantire e dell'incidenza delle spese del personale
sulle entrate correnti».
    Il  legislatore  statale  pone  ulteriori limiti percentuali alle
assunzioni  con  riferimento  a  diverse tipologie di enti locali: si
legge,  infatti,  sempre al comma 11, che «non puo' essere stabilita,
in  ogni caso, una percentuale superiore al 20 per cento per i comuni
con  popolazione superiore ai 5000 abitanti e le province che abbiano
un   rapporto  dipendenti-popolazione  superiore  a  quello  previsto
dall'art. 119,  comma  3,  del  decreto legislativo 25 febbraio 1995,
n. 77,  e  successive modificazioni, maggiorato del 30 per cento o la
cui percentuale di spesa del personale rispetto alle entrate correnti
sia superiore alla media regionale per fasce demografiche».
    Si  noti  che il comma 11 dell'art. 34 prevede l'applicazione del
«blocco  assunzioni», di cui al comma 4, nelle more dell'adozione dei
decreti  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri. Segue poi la
disciplina  relativa a comuni e province con popolazione superiore ai
5000  abitanti  che  non  abbiano  rispettato il patto di stabilita',
disciplina che non si ritiene necessario qui riprodurre.
    Dal  contenuto  dell'articolo  della legge finanziaria ora citato
emerge  chiaramente  la  compressione  dell'autonomia  regionale  per
quanto     attiene     alle     esigenze     organizzative    proprie
dell'amministrazione,  soprattutto  la' dove vengono fissati a priori
dei  parametri  (quale  il  tetto  massimo  del  50  per  cento delle
assunzioni)  che  prescindono da qualsiasi elemento concreto riferito
alla  singola  realta' regionale, in violazione anche dei principi di
eguaglianza,  di  cui  all'art. 3  Cost.,  e  di buon andamento della
pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost.
    Prima   ancora   vi   e'   da   sottolineare   come   la  materia
dell'ordinamento   del  personale  regionale  non  sia  compresa  ne'
nell'elenco  di  cui al secondo comma dell'art. 117 ne' in quello del
successivo  terzo  comma  e sia, quindi, da considerare oggetto della
piu' ampia potesta' legislativa regionale.
    I limiti posti alle assunzioni a tempo indeterminato dall'art. 34
della   legge  27  dicembre  2003,  n. 289  determinano,  dunque,  la
violazione   della   competenza   riservata  alla  regione  ai  sensi
dell'art. 117, comma 4, della Costituzione.
    Solo  per  completezza si osserva che la disciplina dettata dalla
disposizione in discorso non ha nemmeno le caratteristiche proprie di
una  normativa  articolata per principi fondamentali, ma si spinge al
dettaglio con la fissazione di criteri molto rigidi.
    Ne'  vale ad evitare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34
della  finanziaria  2003  la  previsione  dell'accordo  tra  Governo,
regioni  e  autonomie  locali,  da  concludere  in sede di Conferenza
unificata  quale  elemento  prodromico all'emanazione dei decreti del
Presidente  del Consiglio dei ministri che disciplinano i criteri e i
limiti per le assunzioni a tempo indeterminato.
    Le  ragioni  della  censura  permangono in primo luogo in quanto,
come  si e' detto, si versa nell'ambito della competenza regionale di
cui  al  quarto  comma  dell'art. 117  Cost.  e,  secondariamente, in
considerazione delle barriere gia' poste dal medesimo articolo in via
assoluta («tali assunzioni ... devono, comunque, essere contenute ...
entro  percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal
servizio  verificatesi  nel  corso  dell'anno 2002», «non puo' essere
stabilita,  in  ogni  caso, una percentuale superiore al 20 per cento
per  i comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti ...») e della
previsione  di  una  disciplina  transitoria  in  cui  si sancisce il
«blocco assunzioni» (comma 4 richiamato dal comma 11).
    In  conclusione,  le  disposizioni di cui all'art. 34 della legge
finanziaria 2003 si pongono in contrasto con gli artt. 114, 118 e 117
Cost.,  nella  misura  in  cui  comprimono  l'autonomia legislativa e
amministrativa  regionale,  e  con  gli  artt. 3 e 97 Cost. in quanto
dettano  una  disciplina che prescinde da qualsiasi elemento concreto
riferito alla singola realta'.
    9. - L'art. 91 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 istituisce il
fondo  di  rotazione  per  il  finanziamento dei datori di lavoro che
realizzano,  nei  luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micronidi
«al   fine   di  assicurare  un'adeguata  assistenza  familiare  alle
lavoratrici e ai lavoratori dipendenti con prole».
    E'  disciplinato  il contenuto della domanda di finanziamento che
il  datore  di lavoro deve presentare al Ministero del lavoro e delle
politiche sociali (comma 2) ed e' prevista l'emanazione di un decreto
dello  stesso  Ministero  in  cui  verra' definito il prospetto sulle
informazioni  da  fornire  e  le  relative  modalita' di trasmissione
(comma  3).  Con  decreto  del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali,  di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze e
con  il  ministro  per  le  pari  opportunita'  dovranno anche essere
fissati i criteri per la concessione dei finanziamenti (comma 4).
    Le  disposizioni  ora richiamate sono state poste in essere dallo
Stato al di fuori della sua competenza legislativa.
    Va  ricordato,  infatti,  che,  nella  vigenza  del vecchio testo
dell'art. 117 Cost., la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che
la  disciplina  degli  asili  nido  rientra nell'ambito della materia
dell'assistenza  e  beneficenza  oggetto,  all'epoca,  di  competenza
legislativa  concorrente  (sent.  20  ottobre 1983, n. 319 e 9 maggio
1985,  n. 139),  aderendo  alla  definizione  della  materia data dal
decreto  del  Presidente  della Repubblica n. 616 (sul punto si veda,
per tutti, L. Paladin, Diritto regionale, Padova, 2000, 141).
    Oggi  l'assistenza non e' compresa negli elenchi delle materie di
competenza   legislativa   esclusiva   statale   e   di  legislazione
concorrente  e,  quindi,  la sua disciplina dovra' essere dettata dal
legislatore regionale, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost.
    E',   dunque,  incostituzionale  anche  la  disposizione  di  cui
all'art. 91  della legge finanziaria per il 2003 perche' la normativa
relativa  alla  realizzazione e al finanziamento di asili nido ricade
nell'ambito  della  potesta'  legislativa  cosiddetta residuale delle
regioni.
    Ne'  vale opporre che quelli in questione sarebbero finanziamenti
aggiuntivi, dal momento che essi si fondano - allo stato delle cose -
sulla  compressione  dell'autonomia  finanziaria regionale, piuttosto
che  su una addizione coerente con una rigorosa lettura dell'art. 119
Cost.