ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 281-ter del
codice  di  procedura  civile  promosso con ordinanza del 18 dicembre
2001  dal  giudice  istruttore  presso  il  tribunale di Grosseto nel
procedimento civile vertente tra la curatore del fallimento Parco dei
Faggi  S.r.l.  e  Galassi  Monica,  iscritta  al  n. 157 del registro
ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 16, 1a serie speciale, dell'anno 2002.
    Udito  nella  camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il giudice
relatore Romano Vaccarella.
    Ritenuto  che  nel corso di un giudizio civile, promosso, davanti
al  Tribunale di Grosseto, dal curatore del fallimento della societa'
Parco   dei   Faggi   S.r.l.   nei   confronti   di  Monica  Galassi,
amministratore unico della medesima societa' fallita, per ottenere la
condanna  della  convenuta  al  risarcimento  dei  danni  a titolo di
responsabilita' ex art. 2394 del codice civile, il giudice istruttore
di  detto tribunale, con ordinanza del 18 dicembre 2001, ha sollevato
questione   di   legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  agli
articoli 3  e  24 della Costituzione, dell'art. 281-ter del codice di
procedura  civile,  "nella  parte  in  cui non prevede che il giudice
istruttore   possa   disporre   d'ufficio   la   prova   testimoniale
formulandone  i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti
si  sono  riferite  a  persone  che appaiono in grado di conoscere la
verita', anche nelle cause riservate alla decisione collegiale";
        che il giudice rimettente riferisce che l'attore, esponendo i
fatti  a  fondamento  della  sua  pretesa,  ha,  tra  l'altro,  fatto
riferimento ad alcune circostanze a lui stesso riferite da tale Fabio
Nulli,  custode  dell'immobile  di proprieta' della societa' fallita,
circa  la  consistenza  dei  beni aziendali, la mancata custodia e la
sottrazione  dei  medesimi  beni  ad  opera  di terzi, ma che su tali
circostanze  di  fatto, rilevanti ai fini della dimostrazione e della
mala gestio della convenuta e dei danni conseguenti, l'attore non ha,
tuttavia, dedotto alcuna prova, limitandosi a produrre in giudizio la
relazione ex art. 33 della legge fallimentare (regio decreto 16 marzo
1942,  n. 267 - disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
amministrativa),  nella  quale  erano state raccolte le dichiarazioni
del Nulli;
        che,  essendosi  maturate le preclusioni istruttorie a carico
delle  parti,  il giudice rimettente, opinando non potersi attribuire
alcuna  rilevanza probatoria alla relazione del curatore, ritiene che
sarebbe  necessario  disporre  d'ufficio  la  prova  testimoniale sui
fatti,  di  cui  il  Nulli  risulta dalla medesima relazione essere a
conoscenza, ma che simile prova ufficiosa non gli e' consentita dalla
vigente  disciplina  dell'istruzione  del  processo  civile, giacche'
l'art. 281-ter  cod.  proc. civ. - a norma del quale "il giudice puo'
disporre  d'ufficio  la  prova  testimoniale formulandone i capitoli,
quando  le  parti  nella  esposizione  dei  fatti  si sono riferite a
persone  che  appaiono  in  grado  di  conoscere  la  verita'"  -  e'
applicabile   soltanto  nel  procedimento  davanti  al  tribunale  in
composizione  monocratica  (art. 281-bis  cod.  proc.  civ.), mentre,
nella  specie,  trattandosi di una causa di responsabilita' contro un
amministratore  di societa', la decisione, ai sensi dell'art. 50-bis;
n. 5,  cod.  proc.  civ.,  e'  riservata al tribunale in composizione
collegiale;
        che   nella   mancata  estensione  del  potere  di  deduzione
ufficiosa   della   prova  testimoniale  al  giudice  istruttore  nel
procedimento  davanti  al  tribunale  in  composizione collegiale, il
giudice  a  quo  ravvisa  un vizio di legittimita' costituzionale del
citato  art. 281-ter cod. proc. civ., vizio che sarebbe legittimato a
dedurre  davanti  a  questa  Corte, trattandosi di norme delle quali,
quale  giudice istruttore civile, egli dovrebbe fare applicazione per
l'emanazione  di  provvedimenti rientranti nei suoi poteri, ovvero di
norme che escludono poteri da lui rivendicati;
        che  la  questione  sarebbe  rilevante,  in  quanto  la norma
impugnata   e'   applicabile,  ai  sensi  dell'art. 135  del  decreto
legislativo  19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione
del  giudice  unico di primo grado), ai procedimenti pendenti davanti
al  tribunale  alla data di efficacia del medesimo decreto, nei quali
non  siano  gia'  state  precisate  le  conclusioni, come nel caso di
specie,  ed  in quanto, essendo stata chiusa l'istruzione probatoria,
ma  non  essendo  ancora  state  invitate  le  parti  a  precisare le
conclusioni,  sarebbe  ammissibile  - secondo un diffuso orientamento
interpretativo,   cui  egli  aderisce  -  la  deduzione  della  prova
testimoniale  d'ufficio;  inoltre  sussisterebbero  le condizioni per
l'applicabilita'  della  norma,  in  quanto  i  fatti su cui la prova
verterebbe  sono  stati esposti dalla parte attrice e la persona, che
dei fatti medesimi sarebbe a conoscenza, e' stata da essa indicata; e
tali  fatti,  in  mancanza  di  tale  mezzo istruttorio, resterebbero
indimostrati,  sicche' la controversia dovrebbe essere decisa in base
alla regola di giudizio di cui all'art. 2697 del codice civile;
        che,  quanto alla non manifesta infondatezza della questione,
il  giudice rimettente sostiene che la differenziazione, che la norma
introduce  fra  il  procedimento davanti al tribunale in composizione
collegiale e quello davanti al tribunale in composizione monocratica,
in  punto  di  poteri  istruttori  ufficiosi,  non e' ragionevolmente
giustificabile  e,  quindi,  comporta  violazione  del  principio  di
uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, in quanto, se la
ratio  del  previgente  art. 317  del  cod.  proc. civ. (poi trasfuso
nell'art. 312  cod.  proc.  civ.),  che  attribuiva  al pretore ed al
conciliatore (poi al giudice di pace) il potere di disporre d'ufficio
la  prova  testimoniale,  poteva  essere ravvisata nella opportunita'
che,  nelle cause di minor valore (quali appunto quelle di competenza
di  detti  giudici  monocratici),  nelle  quali  sono  in  giuoco gli
interessi  dei  cittadini  meno  abbienti e meno colti, il giudice si
avvicini  a  loro,  per  supplire  con  piu'  larghi poteri alla loro
inesperienza  ed  alla  minor  facilita'  che  essi hanno di giovarsi
dell'opera  di  validi  difensori  (come si legge nella Relazione del
Guardasigilli  al  codice  di procedura civile del 1940), la medesima
ratio  non  puo' piu' essere scorta nel nuovo art. 281-ter cod. proc.
civ., avendo questo, nell'ambito della riforma istitutiva del giudice
unico  di  primo  grado  (attuata col decreto legislativo 19 febbraio
1998, n. 51), reso di generale applicazione il potere in questione in
ogni  controversia  in  cui  il  tribunale  giudica  in  composizione
monocratica,  senza  che  abbia  piu'  alcun  rilievo il valore della
causa;
        che,  ad  avviso  del  rimettente, la ragione giustificatrice
della  nuova  norma  va individuata nell'"interesse pubblico a che si
formi  una  decisione  giusta" ma tale interesse e' ravvisabile tanto
nelle  cause in cui la decisione e' demandata al giudice monocratico,
quanto  in  quelle  in  cui  la  decisione  e'  riservata  al giudice
collegiale,  sicche'  la diversita' di disciplina fra il procedimento
davanti  al tribunale in composizione monocratica e quello davanti al
tribunale  in  composizione  collegiale "configura una ingiustificata
disparita'  di trattamento di situazioni sostanziali identiche, posto
che l'esigenza sottintesa dal potere officioso de quo e' ravvisabile"
sia nelle cause che debbono essere decise dal giudice monocratico sia
in quelle che debbono essere decise dal collegio;
        che   il   giudice  a  quo  ravvisa,  altresi',  nella  norma
dell'art. 281-ter  cod.  proc. civ. una violazione dell'art. 24 della
Costituzione,  che  garantisce  il "diritto alla prova" il quale "non
puo'  farsi  coincidere  soltanto  con  il  diritto  della  parte  ad
introdurre  i  fatti  rilevanti nel processo e a provarli con i mezzi
istruttori  da  essa proposti", ma implica "il diritto della parte ad
avvalersi  di  ogni  mezzo di prova esperibile nel processo", laddove
nel procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, "la
irragionevole  limitazione  del potere officioso del giudice in punto
di  prova  testimoniale del terzo ex art. 281-ter; oltre a realizzare
una   disparita'   di  trattamento  censurabile  per  le  ragioni  in
precedenza  gia'  indicate,  si  traduce  anche in una violazione del
diritto alla prova nella accezione proposta".
    Considerato   che   il   Tribunale   di   Grosseto  dubita  della
legittimita'  costituzionale  dell'art. 281-ter  cod.  proc. civ., in
relazione  agli  artt. 3  e 24 Cost., in quanto non applicabile nelle
cause   riservate  alla  cognizione  del  tribunale  in  composizione
collegiale;
        che    la   questione   appare   irrilevante,   non   essendo
condivisibile   l'assunto   dal   quale  muove  il  rimettente  circa
l'utilizzabilita'  del  potere officioso di cui all'art. 281-ter cod.
proc. civ. fino al momento della precisazione delle conclusioni;
        che,  al  contrario,  pur  prevedendo la norma che il giudice
abbia  esclusivamente  il  potere  di  formalizzare in un capitolo di
prova  la fonte di prova (quanto ai fatti allegati e quanto ai testi)
indicata,  ma  non  formalizzata, dalla parte, tale potere si risolve
pur  sempre  in una eccezione al principio della disponibilita' delle
prove  (art. 115,  primo  comma,  cod. proc. civ.) svincolata, ormai,
dalla  natura  bagattellare  della  causa,  la  quale  eccezione, per
giunta,  si  inserisce  in  un  processo  governato  dal principio di
preclusione;
        che,  conseguentemente, in nessun caso il potere officioso di
cui  all'art. 281-ter  cod. proc. civ. potrebbe - senza attribuire al
giudice  un  arbitrario  (piu' che discrezionale) potere di disporre,
per   lasciarle  o  non  definitivamente  maturare,  delle  decadenze
istruttorie  nelle  quali una parte fosse incorsa - essere esercitato
oltre  i  limiti  della  fase istruttoria, ferma l'applicabilita' del
disposto dell'art. 184, ultimo comma, cod. proc. civ;
        che  il  rimettente da' esplicitamente atto dell'essersi, nel
caso  di  specie,  maturate le preclusioni istruttorie a carico delle
parti  e, quindi, dell'essersi maturata una situazione processuale in
presenza  della  quale  l'applicabilita' dell'art. 281-ter cod. proc.
civ.  vulnererebbe  il principio di parita' delle armi delle parti in
causa,  mai  potendo il potere officioso del giudice risolversi in un
mezzo  per  aggirare,  in favore di una parte ed in danno dell'altra,
gli effetti del maturarsi delle preclusioni;
        che,  pertanto,  la  questione deve essere dichiarata, per la
sua irrilevanza nel giudizio a quo; manifestamente inammissibile.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.