IL GIUDICE DI PACE

    A integrazione e motivazione della riserva di cui all'udienza del
7 novembre   2002,   in  relazione  alla  questione  di  legittimita'
costituzionale  sollevata dai difensori degli imputati Agnolin Sante,
Agnolin Fausto e Agnolin Sandro nel proc. n. 10600/02;
    Rilevato che:
        Il  difensore  solleva  questione di legittima costituzionale
dell'art. 497,  2o comma c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della
Costituzione  nella parte in cui non prevede espressamente il divieto
(o,  specularmente,  nella  parte  in  cui  prevede  l'obbligo e/o la
possibilita) della parte offesa dal reato, costituitasi parte civile,
di  essere  esaminato come testimone e di conseguenza, in tale veste,
di  essere sottoposto all'obbligo di dire la verita' e di prestare la
dichiarazione  prevista  nello stesso articolo, con l'avvertenza e le
conseguenze   previste   per  i  testimoni  falsi  e  reticenti,  per
violazione del principio di uguaglianza e parita' dei cittadini e del
principio di ragionevolezza;
        Cio'  principalmente in relazione alla evidente disparita' di
facolta'  e  diritti  della  persona  offesa nel processo civile e in
quello  penale,  alla  luce  anche  delle  diverse conseguenze che ne
derivano per il "convenuto" o "imputato".

                    La questione non e' infondata

    Gia'  da  tempo la giurisprudenza si e' interrogata ed ha cercato
soluzioni  al  problema  posto  con  la questione sollevata in questa
sede,  in  relazione  alle  norme  del codice di procedura penale che
prevedono e regolano i diritti e le facolta' della persona offesa dal
reato nel processo penale.
    E'  utile  sottolineare  e menzionare preliminarmente [ricordando
che  la  questione  di legittimita' costituzionale in oggetto e' gia'
stata  esaminata  sotto diverso profilo, con riferimento all'art. 197
lettera  c) c.p.p., e risolta in senso negativo, con ord. Corte cost.
n. 115/1992], alcune pronunce della suprema Corte gia' intervenute in
relazione  al  valore  e alla validita' della deposizione della parte
offesa assunta come testimone (e soprattutto alla valenza e al "peso"
complessivo  che  il  giudice  di merito deve dare alla testimonianza
cosi'   assunta,   nell'economia  della  decisione  sul  giudizio  di
colpevolezza dell'imputato):
        1)"...  In tema di valutazione della prova, qualora si tratti
della   testimonianza   della   persona  offesa  dal  reato,  che  ha
sicuramente  interesse  verso  l'esito  del  giudizio,  e' necessario
vagliare  le  sue  dichiarazioni  con  ogni  opportuna cautela, cioe'
compiere  un  esame  particolarmente penetrante e rigoroso attraverso
una  conferma  di  altri elementi probatori, talche' essa puo' essere
assunta, da sola, come fonte di prova, unicamente se venga sottoposta
a detto riscontro di credibilita' oggettiva e soggettiva..." (1).
        2)  "...  Nell'ipotesi  in  cui  l'accusa  sia  fondata sulle
dichiarazioni  della  persona  offesa,  il  giudice  ha  l'obbligo di
valutarla  con  il  massimo  rigore  alla  luce di tutti gli elementi
probatori processualmente acquisiti. Eseguita ogni utile indagine, il
giudice  puo' fondare il suo convincimento sulla parola della persona
offesa  medesima,  dando  adeguata  e  coerente giustificazione delle
conclusioni alle quali sia pervenuto" (2).
        3)  "...  Nel  vigente  ordinamento  processuale alla persona
offesa  e' riconosciuta la capacita' di testimoniare a condizione che
la  sua  deposizione,  non  immune  da sospetto perche' portatrice di
interessi  in  posizione di antagonismo con quelli dell'imputato, sia
stata  dal  giudice  ritenuta attendibile, a tal fine facendo ricorso
all'utilizzazione ed all'analisi di qualsiasi elemento di riscontro o
di controllo ricavabile dal processo. Una volta che tale esigenza sia
rimasta  soddisfatta  ed  il  convincimento trattone sia sostenuto da
congrua  e logica motivazione, il relativo giudizio non puo' soffrire
censure di legittimita'" (3).
    Ed invece, in senso molto meno rigoroso:
        4)  "...  Puo'  attribuirsi  piena  efficacia probatoria alla
testimonianza della persona offesa dal reato qualora ne sia accertata
l'intrinseca  coerenza  logica, anche quando essa costituisca l'unica
prova e manchino elementi esterni di riscontro" (4).
    Gia'  la  diversita'  di  giudizio  emergente da diverse pronunce
della  Corte  di  Cassazione, peraltro in periodi molto vicini fra di
loro, evidenzia come il problema sia reale e rilevante.
    Con  la  pronuncia  piu' sopra menzionata (n. 115/1992), la Corte
costituzionale  aveva  gia'  esaminato  sostanzialmente la questione,
ritenendo che:
        "...Considerato  che questa Corte, con le sentenze n. 190 del
1971 e n. 2 del 1973 (rese su questioni identiche nella sostanza), ha
gia'   avuto  occasione  di  rilevare  che  la  subordinazione  della
disciplina dell'azione civile alle esigenze connesse all'accertamento
dei  reati e' riconosciuta nel nostro ordinamento, per effetto di una
scelta  legislativa  non irrazionale, quale corollario dell'interesse
pubblico   a   tale  accertamento;  interesse  preminente  su  quello
collegato  alla  risoluzione  delle  liti  civili,  specie  quando il
medesimo  fatto  risulti  configurabile  nel  contempo  come illecito
penale  ed  illecito  civile  e si prospetti quindi l'opportunita' di
evitare  contrasti  di  giudicati;  che detti rilievi, espressi sulla
base  della disciplina previgente, possono essere confermati anche in
ordine  all'art. 197,  lettera  c),  dell'attuale codice di procedura
penale,  sia perche' lo stesso legislatore, ritenendo che la rinuncia
al contributo probatorio della parte civile costituisse un sacrificio
troppo grande nella ricerca della verita' processuale (cfr. Relazione
al  progetto  preliminare),  ha ribadito la preminenza dell'interesse
pubblico  all'accertamento  dei  reati  su  quello  delle  parti alla
risoluzione  delle  liti  civili  (principio, peraltro implicitamente
posto  anche  dall'art. 193  del  codice  di  procedura  penale), sia
perche',  alla luce di un ormai fermo orientamento giurisprudenziale,
la  deposizione  della  persona  offesa dal reato, costituitasi parte
civile, deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e
spirito   critico,   non   potendosi   essa  equiparare  puramente  e
semplicemente   a  quella  del  testimone,  immune  dal  sospetto  di
interesse all'esito della causa;
    Al  di la' di questa pronuncia, questo giudice ritiene che, nella
pratica,   il   problema  non  sia  affatto  risolto;  la  stragrande
maggioranza  dei  procedimenti penali ove vi e' costituzione di parte
civile  riguardano  fatti-reato  e  fattispecie penali perseguibili a
querela   di   parte   e   vengono   appunto  avviati  a  seguito  di
denuncia-querela  presentata  dalla  presunta parte lesa: fra questi,
l'ulteriore   stragrande   maggioranza  arrivano  all'attenzione  del
giudice  di  merito  basandosi  solo  ed  esclusivamente  sulla prova
fornita dalla deposizione del querelante-persona offesa, quasi sempre
costituitosi  parte  civile,  ovvero  sulle  deposizioni  di prossimi
congiunti di questi, per i quali, specularmente, (nonostante anche da
parte  di  questi  vi  sia  concreto  interesse  al riconoscimento di
colpevolezza   dell'imputato),   non   e'   previsto  il  divieto  di
testimoniare o la facolta' di astensione dalla deposizione come per i
prossimi congiunti dell'imputato (art. 199 c.p.p.).
    Nel  concreto e nella pratica, cio' significa che, ove il giudice
applichi (e giustamente debba applicare) i principi sulla valutazione
della prova testimoniale sopra menzionati (... la testimonianza della
persona  offesa  puo'  essere  assunta, da sola, come fonte di prova,
unicamente  se  venga  sottoposta  a  detto riscontro di credibilita'
oggettiva e soggettiva...), stabiliti ormai in maniera uniforme dalla
Cassazione, il processo penale quasi sempre si conclude o si dovrebbe
concludere  con  l'assoluzione  dell'imputato  ai sensi dell'art. 530
secondo  comma  c.p.p.,  per insufficienza o contraddittorieta' della
prova:  in  caso  contrario,  cioe'  ove  invece il giudice ritenesse
pienamente credibile la deposizione della persona offesa e basasse la
sua  motivazione di condanna sulla base esclusivamente degli elementi
di  prova  da questa forniti, indipendentemente quindi dagli elementi
contrari  forniti  dall'imputato  (nel  caso  questi  sia, come quasi
sempre   avviene,   sottoposto  ad  esame  o  fornisca  dichiarazioni
spontanee),  giocoforza  ne verrebbe (e di fatto ne viene) fortemente
inficiato  il principio di uguaglianza fra le parti che "sostiene" il
processo  penale  di  tipo  accusatorio,  come  quello attualmente in
vigore.
    La  ratio  e  il  principio  base  del  diritto  penale, infatti,
unitamente  alla  protezione  su  un  piano  di  eguaglianza  e senza
discriminazioni,  dei  diritti umani e delle liberta' inviolabili dei
singoli  (che  caratterizza  anche  il  diritto  civile), sta anche e
soprattutto  nella  funzione  strumento  di  tutela  degli  interessi
collettivi (che si riflettono in quelli dei singoli) e di propulsione
del  processo  di  omogeneizzazione  sociale  e  di  attuazione delle
finalita' dello Stato democratico-sociale (Mantovani).
    Il  che  significa  che scopo primario del processo penale non e'
affatto   quello   di   fornire   la  "base  giustificativa"  per  un
risarcimento  del  danno  in  favore  della  persona offesa dal reato
(essendo  questa solo una logica e naturalmente legittima conseguenza
del  riconoscimento  di colpevolezza dell'imputato), bensi' quello di
verificare se e dove la lesione di un diritto inviolabile del singolo
abbia  comportato  di riflesso anche la lesione di un diritto e di un
interesse collettivo.
    Pertanto,  nel  processo  penale, e' necessario ed indispensabile
che  agli  elementi probatori forniti dalla persona offesa dal reato,
che  oltretutto  ha  gia' la notevole facolta' di avviare il processo
contro colui che ritiene responsabile della lesione di un suo diritto
personale, se ne aggiungano altri, desumibili aliunde, che consentano
di evitare che lo stesso processo penale si risolva nella risoluzione
di  controversie  fra  singoli  di  carattere  e  natura  prettamente
"civilistica", se non addirittura che assuma la funzione di strumento
di  vendetta  o  di  rivalsa  e  ritorsione  per questioni "private":
pericolo  non meramente virtuale, laddove si verifichi una situazione
processuale  di  "squilibrio"  fra  le parti che le norme di cui agli
art. 497, secondo comma e 197 primo comma (laddove appunto consentono
che la persona offesa dal reato, nonostante l'interesse civilistico e
privato che inserisce nel processo penale, sia assunto come testimone
e  come  tale  presti "giuramento", consentendo di fatto che la prova
della  colpevolezza  dell'imputato  si  basi  esclusivamente  o quasi
esclusivamente  sulle  sue  dichiarazioni), contribuiscono in maniera
determinante a rafforzare, mentre, come detto, interesse precipuo del
processo  penale  dovrebbe  essere  quello  della tutela di interessi
collettivi (Stato a Cittadino-imputato, in un rapporto di sostanziale
equilibrio).
    Non  sembra  del  resto  che  la motivazione prevalente alla base
della   precedente   pronuncia   della   Corte   sulla   legittimita'
costituzionale  della  norma  di  cui  all'art. 197  c.p.p.  (...  la
rinuncia al contributo probatorio della parte civile costituirebbe un
sacrificio  troppo grande nella ricerca della verita' processuale...)
possa   effettivamente  costituire  un  ostacolo  alla  pronuncia  di
illegittimita',  laddove  si ritenga che la deposizione della persona
offesa  (costituitasi  o meno parte civile nel processo penale) debba
essere   comunque  assunta,  ma  non  gia'  come  elemento  di  prova
(carattere   che  invece  assume  proprio  in  base  alla  previsione
dell'art. 497 secondo comma c.p.p.), bensi' con la stessa valenza, in
merito al convincimento del giudice, dell'esame dell'imputato, con il
consistente  vantaggio (anche in termini di economia processuale) che
il processo penale arrivi a dibattimento, ove promosso con impulso di
una  parte  privata,  solo  laddove  sia  sostenuto da prove concrete
assunte  e  raccolte  da  un  organo statale (il p.m.), alla luce del
principio   suddetto   per   il   quale   il  diritto  penale  tutela
principalmente la collettivita' e, di riflesso, il singolo.
              (1) Cass. n. 7241/94;
              (2) Cass. n. 1186/95;
              (3) Cass. n. 893/93;
              (4) Cass. n. 4147/95.