IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza. Esposizione del contesto di fatto e rilevanza della questione di legittimita' costituzionale Con decreto del giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Melfi, emesso in data 28 giugno 2000, Burdo Francesco e Burdo Domenico venivano rinviati a giudizio avanti a questo collegio per rispondere del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 codice civile, nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 61/2002), per avere, in concorso tra loro e nella qualita' di amministratore unico, il primo, e liquidatore, il secondo, della Societa' Vulture Olii S.r.l., effettuato false comunicazioni sociali, esponendo fraudolentamente nei bilanci fatti non corrispondenti al vero sulle condizioni economiche della societa'. Il fatto oggetto dell'imputazione risale, secondo la contestazione, agli anni 1993-1994, periodo in cui l'art. 2621 codice civile configurava le false comunicazioni sociali come delitto perseguibile d'ufficio e lo sanzionava con la pena della reclusione da un anno a cinque anni e con la multa da due a venti milioni. Per il combinato disposto degli artt. 2621 codice civile, 157 e 160 codice penale il termine di prescrizione per tale delitto era di dieci anni, che, in presenza di una causa di interruzione, aumentava a quindici anni. Con il d.lgs. n. 61/2002 (emanato in attuazione della legge delega n. 366/2001) la citata normativa e' stata sostituita con una nuova, che (in conformita' all'art. 11 della legge delega) prevede due fattispecie: la prima (art. 2621 c.c.), posta a tutela della trasparenza e della veridicita' dell'informazione societaria, e' stata configurata come reato di pura condotta, perseguibile d'ufficio e sanzionato con l'arresto fino ad un anno e sei mesi; la seconda (art. 2622 c.c.), posta a tutela del patrimonio dei soci e dei creditori, e' stata configurata come reato di evento (costituito dal danno per i soci o per i creditori), sanzionato con la reclusione da sei mesi a tre anni (e, per le societa' non quotate, perseguibile a querela da parte di questi ultimi). La scelta delle suddette sanzioni, per effetto degli artt. 157 e 160 c.p. ed in assenza di una diversa specifica disposizione al riguardo, ha determinato la modifica, anche, del termine di prescrizione passato da dieci anni (con aumento, in presenza di una causa di interruzione, a quindici anni) a tre anni (con aumento, in presenza di una causa di interruzione, a quattro anni e sei mesi) per la fattispecie prevista dall'art. 2621 c.c. e a cinque anni (con aumento, in presenza di una causa di interruzione, a sette anni e sei mesi) per la fattispecie di cui all'art. 2622 c.c. Tra la fattispecie che era prevista dall'art. 2621 c.c. nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 61/2002 e le fattispecie previste dai vigenti artt. 2621 e 2621 c.c. si ritiene (cfr. Cass. pen., sez. V, 21 maggio 2002, n. 6921; Trib. Milano, sez. II, ord. 23 aprile 2002) sussistente un rapporto di successione tra norme penali e non un fenomeno di abrogazione della vecchia fattispecie (tale interpretazione appare indiscutibile per quel che riguarda le fattispecie previste dal vecchio e dal nuovo art. 2621 c.c.); conseguentemente il fatto oggetto di contestazione, essendo evidente la sua riconducibilita' al nuovo art. 2621 c.c., mantiene rilevanza penale. Occorre, pero', rilevare che il fatto oggetto di imputazione, essendo stato consumato nel 1994, risulterebbe - per effetto della modifica, operata dal d.lgs. n. 61/2002, del termine di prescrizione da dieci a tre anni - prescritto e, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., dovrebbe essere dichiarata, non essendo evidente, allo Stato, l'insussistenza dell'ipotesi accusatoria, immediatamente, l'estinzione del reato (in mancanza di tale modifica il reato, invece, si sarebbe estinto, per effetto degli eventi interruttivi, nel 2009). Si deve, tuttavia, sottolineare che la modifica del termine di prescrizione (da dieci a tre anni), operata dall'art. 1 del d.lgs. n. 62/2001 (in combinato disposto con gli artt. 157 e 160 c.p.), ha privato della possibilita' pratica di portare a termine i processi aventi ad oggetto la fattispecie in esame prima dell'estinzione del reato. La norma in esame (e l'art. 11 della legge delega), pertanto, nell'effettuare tale modifica, a parere di questo collegio, si e' posta in palese contrasto con il parametro costituzionale della razionalita'. L'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale. Prima di entrare nel merito occorre verificare l'ammissibilita' della questione prospettata. La legittimita' costituzionale di norme penali di favore tocca due questioni strettamente legate, ma, logicamente e giuridicamente, distinte: il rispetto del principio di irretroattivita' della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.), il rispetto dell'orientamento della Corte costituzionale che riconosce il potere di creare o modificare le fattispecie penali (precetto e sanzione) esclusivamente al legislatore, con conseguente impossibilita' per la Corte di pronunciare sentenze che andrebbero a produrre tali effetti. Per quel che attiene alla prima questione si deve rilevare che secondo un orientamento risalente della Corte (sent. n. 62/1969; sent. n. 26/1975) le questioni di legittimita' costituzionale delle norme penali di favore sarebbero sempre necessariamente (cioe' indipendentemente dell'esito del giudizio costituzionale) irrilevanti. Secondo la Corte, invero, anche se la norma risultasse incostituzionale, il principio di irretroattivita' delle norme penali (sancito dall'art. 25 Cost.) impedirebbe al giudice a quo di applicare la norma sfavorevole (che necessariamente prenderebbe il posto di quella dichiarata incostituzionale) e, conseguentemente, la questione nel giudizio a quo risulterebbe sempre irrilevante. La Corte (recependo le sollecitazioni della dottrina), pero', successivamente (sent. n. 148/1983, sent. n. 826/1988, sent. n. 124/1990, sent. n. 167/1993, sent. n. 194/1993 e sent. n. 25/1994), ha superato tale orientamento e ha affermato, fermo restando l'intangibilita' del principio dell'art. 25 Cost. e, quindi, il divieto di sottoporre a pena (o a pena piu' grave) fatti disciplinati in modo piu' favorevole al momento della commissione, l'esistenza del carattere della rilevanza ogni qualvolta, dalla decisione possano, comunque, derivare effetti giuridici (la Corte ha sottolineato che il giudizio potrebbe concludersi con una sentenza interpretativa di rigetto ovvero potrebbe produrre effetti relativamente alla formula di proscioglimento o, comunque, sulla base normativa della pronuncia, ancorche' identica nel contenuto del dispositivo). A questo punto occorre precisare che nei casi, come quello in esame, in cui il fatto oggetto di giudizio e' pregresso rispetto all'entrata in vigore della norma oggetto di giudizio di costituzionalita' l'eventuale pronuncia di accoglimento non determinerebbe l'applicazione retroattiva della norma e, dunque (come rilevato, pacificamente, dalla dottrina e, per l'analoga situazione della mancata conversione di decreti - legge contenenti norme penali di favore, dalla Corte cost.. sent. n. 511/985), non vi e' alcun ostacolo all'applicazione nel processo a quo della decisione della Corte, con conseguente rilevanza della questione. Alla stregua di tali considerazioni appare evidente che, neanche, in base al vecchio orientamento della Corte il giudizio di costituzionalita' in esame risulterebbe inammissibile. Occorre ora affrontare la seconda questione: l'art. 25 Cost., secondo la giurisprudenza recente della Corte (sent. n. 150/1988; sent. n. 330/1996; ord. n. 297/1997) attribuisce in via esclusiva al legislatore il potere di creare o modificare le fattispecie penali (precetto e sanzione) e, pertanto, preclude alla Corte qualunque pronuncia manipolativa, che avrebbe l'effetto di modificare la fattispecie come prevista dal legislatore. Al riguardo si deve rilevare che la Corte ha, sempre, riconosciuto che il sindacato sia ammissibile quando si tratta di verificare il rispetto del principio di uguaglianza (sent. n. 143/1983), nonche' la razionalita' e la ragionevolezza della norma (sent. n. 25/1994; sent. n. 341/1994; ord. n. 448/1992; ord. n. 297/1997; sent. n. 409/1989; sent. n. 343/1993). La questione che questo collegio vuole portare all'attenzione della Corte, essendo relativa alla razionalita' della norma, non entra affatto in contrasto con l'orientamento in esame. Invero si chiede alla Corte di verificare l'irrazionalita' della norma che da un lato prevede la punibilita' di una condotta e dall'altro stabilisce un termine di prescrizione che assicura l'estinzione del reato prima della fine del processo e, dunque, la pratica impunibilita' della medesima condotta. Si potrebbe eccepire, pero', che l'effetto ultimo di un'eventuale pronuncia di accoglimento sarebbe quello di produrre effetti negativi per l'imputato interessato (che anziche' "godere" della prescrizione potrebbe essere condannato). Al riguardo si deve evitare di confondere i due profili che attengono alla materia in esame: il principio dell'irretroattivita' e l'orientamento della Corte sull'attribuzione esclusiva del legislatore. Sotto il primo profilo l'interessato, al di la' della considerazione che appare dubbio che l'art. 25 garantisca, anche, che il reato debba avere sempre il medesimo termine di prescrizione previsto nel momento di commissione, non avrebbe nulla da lamentare, in quanto, nel momento in cui commetteva il fatto, il termine di prescrizione era di dieci anni e tale resterebbe a seguito della pronuncia della Corte. Sotto il secondo profilo non bisogna proprio porsi il problema, in quanto si prospetta una questione attinente alla razionalita' della norma e, pertanto, in perfetta sintonia con l'orientamento della Corte. La non manifesta infondateza della questione di legittimita' costituzionale. Venendo al merito della questione occorre precisare che la questione posta da questo collegio non attiene alla sanzione, ne' sotto il profilo dell'entita' ( detenzione fino ad un anno e sei mesi), ne' sotto quello della natura (arresto), ma esclusivamente al termine di prescrizione. Il legislatore nel modificare la sanzione prevista per il reato di false comunicazioni sociali, per il combinato disposto degli artt. 2621 c.c. e 157 c.p., ha, anche, sostituito il precedente termine di prescrizione (dieci anni) con quello di tre anni. Tale termine (tre anni fino ad un massimo di quattro anni e mezzo) - tenendo conto: che il termine non decorre dal momento in cui la notizia di reato e' conosciuta dall'autorita', ma dal momento di commissione del fatto, che, per il reato in esame, normalmente precede, anche di molto tempo, l'inizio delle indagini (significativo in tal senso e' il fatto oggetto di questo procedimento: consumato, secondo l'accusa, nel 1994 e accertato nel 1998); che l'accertamento dell'elemento oggettivo del reato in esame (collegandosi a violazioni di tipo contabile ed economico e richiedendo, normalmente, l'esame di una massa notevole di documenti, spesso, di non facile reperimento) e' difficile e complesso; che l'accertamento dell'elemento soggettivo, a differenza delle altre ipotesi contravvenzionali, e particolarmente complesso in quanto e' caratterizzato dalla verifica della sussistenza di un particolarissimo dolo specifico intenzionale (l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e il fine di conseguire per se' o per altri un ingiusto profitto, tra l'altro, potrebbe richiedere la verifica anche delle scritture contabili di molte altre societa); che, ai sensi dell'art. 33-bis c.p.p., a differenza delle altre contravvenzioni, il reato e' attribuito alla cognizione del collegio (il cui funzionamento e' sicuramente piu' complesso dell'organo monocratico) e che deve passare, anche, per il filtro dell'udienza preliminare (che le recenti riforme hanno reso piu' articolata e complessa); che il nostro sistema prevede tre gradi di giudizio ed una fase dibattimentale che, essendo ispirata ai principi accusatori, si presenta particolarmente complessa ed articolata - appare evidente che (ad eccezione di casi di scuola, quali ad esempio quello dell'imputato che confessi poco dopo avere commesso il fatto e che non eserciti la facolta' di impugnare la sentenza) privi della possibilita' pratica di portare a termine il processo prima dell'estinzione del reato. Occorre precisare che questo collegio non pone la questione in termini meramente concreti, chiedendo alla Corte di tenere conto, ad esempio, della considerevole durata dei processi in quegli uffici giudiziari particolarmente gravati dal carico di lavoro e dai vuoti di organico, ma in termini astratti. Invero il differimento tra momento di commissione del reato (e, dunque, di partenza del termine di prescrizione) e la conoscenza del fatto di reato da parte dell'autorita' competente prescinde dall'efficienza dell'ufficio giudiziario. La complessita' della verifica della fondatezza della notizia di reato, sia sotto il profilo oggettivo, che sotto quello soggettivo, e' tale da determinare la perdita di notevole tempo anche alla piu' efficiente delle Procure. Tali difficolta' si ripresenteranno nell'udienza preliminare e nel dibattimento dove l'accertamento (davanti ad un organo collegiale) deve avvenire nel fuoco del contraddittorio (magari con l'intervento anche di consulenti di parte). Il tempo necessario per lo svolgimento dell'appello e del giudizio di legittimita' portera' inevitabilmente, anche nei processi svolti negli uffici giudiziari piu' efficienti, all'estinzione del reato per prescrizione. Tali considerazioni portano a ritenere che l'art. 1 del d.lgs. n. 61/2002, nel sancire che le false comunicazioni (non dannose) costituiscano reato e nel prevedere per esse un termine di prescrizione che assicura l'estinzione del medesimo prima della fine del procedimento, risulti palesemente irrazionale. Invero l'irrazionalita', come chiarito da autorevole dottrina, deriva dalla circostanza che il legislatore ha contraddetto le scelte che esso stesso ha fatto e nel caso in esame tale contraddizione e' evidente in quanto il legislatore sceglie di prevedere la punibilita' di una condotta, ma poi prevede un termine di prescrizione che assicura l'impunibilita' della medesima. La giurisprudenza costituzionale ha, ormai da tempo, recepito il principio di razionalita' e, in applicazione di esso, ha elaborato la regola secondo cui il legislatore ha il dovere di equiparare il trattamento giuridico delle situazioni analoghe e, al contrario, di differenziare il trattamento delle situazioni diverse (ancorando normativamente il principio all'art. 3 Cost.; cfr. sent. n. 45/1967; sent. n. 204/1982). Nel caso in esame l'evidente contraddizione consente di prospettare il vizio di razionalita', anche, nei termini della regola affermata dalla Corte costituzionale, in quanto e' evidente che il caso in esame (in cui il legislatore sceglie di punire una condotta, ma poi prevede un termine di prescrizione che assicura l'impunibilita' pratica della medesima) e' stato trattato diversamente da tutti gli altri analoghi (il termine di paragone puo' essere costituito addirittura da tutti gli altri fatti a cui il legislatore ha ritenuto di dovere dare rilevanza penale), in cui il legislatore ha scelto di punire una condotta e ha previsto un termine di prescrizione che, in astratto, non escluda la possibilita' di finire il processo prima dell'estinzione del reato. In entrambe le situazioni prospettate il legislatore sceglie di dovere sanzionare le condotte prese in considerazione (situazione analoga), ma poi solo in un caso prevede un termine di prescrizione che assicura l'impunibilita'. A tali prospettazioni si potrebbe eccepire che la scelta della durata del termine di prescrizione dipende dalla diversa gravita' del fatto e che, quindi, la brevita' del termine e' giustificata nel caso in esame dalla non rilevante gravita' riconosciuta dal legislatore alle false comunicazioni non dannose. Si tratterebbe, pero', di un'eccezione completamente infondata in quanto non si chiede alla Corte di valutare la congruita' del termine di prescrizione in considerazione della gravita' del fatto ovvero di verificare se la durata di questo sia giustificata rispetto alla durata dei termini previsti per gli altri reati. Questo collegio, infatti, e' ben consapevole del fatto che la durata del termine di prescrizione attiene alle insindacabili scelte discrezionali del legislatore legate alla gravita' dei fatti e che sotto tale profilo, anche, il diverso termine di prescrizione previsto per altri reati trova, razionale, giustificazione nella diversa valutazione che il legislatore opera sulla gravita' dei fatti (cfr. Corte cost., ord. n. 89/171; Cass. pen., sez. III, 31 maggio 1991; che hanno dichiarato manifestamente infondate le questioni di costituzionalita', relative alla particolare durata del termine di prescrizione di taluni reati, proprio in considerazione della ragionevole, specifica valutazione di gravita' delle fattispecie fatta dal legislatore). La questione posta da questo collegio e' quella di verificare l'irrazionalita' della norma che da un lato prevede la punibilita' di una condotta e dall'altro stabilisce un termine di prescrizione che assicura l'estinzione del reato prima della fine del processo e, dunque, la pratica impunibilita' della medesima condotta (da altro punto di vista la questione prospettata da questo collegio potrebbe essere cosi' semplificata: posto che la scelta del termine di prescrizione attiene ad una valutazione discrezionale del legislatore legata alla gravita' del fatto, tale discrezionalita' puo' spingersi al punto di scegliere, irrazionalmente, un termine che impedisca di terminare il processo prima dell'estinzione del reato?). La disparita' di trattamento contestata, per porre la questione nello schema tradizionale della regola affermata dalla Corte, viene rilevata nel fatto che il legislatore nel caso in esame, a differenza degli altri, nello scegliere discrezionalmente un termine di prescrizione adeguato alla diversa gravita' del fatto, ne ha previsto uno che, anche in astratto, assicura la mancata punizione della condotta. Passando dal raffronto con tutti gli altri reati alle sole contravvenzioni punte con l'arresto si puo' rilevare un'ulteriore violazione della regola enunciata dalla Corte costituzionale sotto il profilo della mancata differenziazione di situazioni diverse. Invero il legislatore nel prevedere per il reato in esame il medesimo termine di prescrizione previsto per le altre contravvenzioni (punite con l'arresto) non solo non ha tenuto conto delle particolari difficolta' oggettive di accertamento che tale reato presenta, ma, neppure, di alcune peculiarita', che lo differenziano dalle altre contravvenzioni e che, indiscutibilmente, allungano la durata dei processi. La prima e' costituita dall'elemento soggettivo, in quanto, mentre l'art. 42, quarto comma c.p. prevede che nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa, il nuovo art. 2621 c.c. richiede l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e il fine di conseguire per se' o per altri un ingiusto profitto, che vanno ad aggiungersi al dolo generico avente ad oggetto gli elementi strutturali del fatto. La seconda e' costituita dal fatto che, mentre le contravvenzioni, normalmente, sono attribuite alla cognizione dell'organo monocratico e non passano per il filtro dell'udienza preliminare, il reato in esame e' attribuito alla cognizione dell'organo collegiale (il cui funzionamento e' sicuramente piu' complesso) e deve passare per l'udienza preliminare (che le recenti riforme hanno reso ancor piu' complessa). Appare, pertanto, palese che il legislatore nel prevedere per la fattispecie in esame il medesimo termine di prescrizione previsto per le altre contravvenzioni senza tenere conto di queste peculiarita' (oltre a quelle delle difficolta' di accertamento), che incidono in maniera evidente sulla possibilita' di terminare il processo prima che il reato si estingua, ha trattato in modo uguale situazioni che andavano trattate in modo, razionalmente, diverso. Nel caso in cui i termini di raffronto utilizzati fino ad ora (tutti i reati ovvero tutte le contravvenzioni sanzionate con l'arresto) fossero ritenuti troppo generici si potrebbe far riferimento ad un caso specifico, che renderebbe evidente la violazione della regola affermata dalla Corte costituzionale, in quanto, pur presentando caratteristiche del tutto analoghe a quella in esame (qualificazione del reato come contravvenzione e difficolta' di accertamento che, nel caso in cui si applicasse il termine ordinario di prescrizione, renderebbero del tutto virtuale la punibilita' della condotta), e' stato trattato dal legislatore in modo palesemente diverso. Il parametro di raffronto e' costituito dall'abrogato art. 9 della legge n. 516/1982, che, derogando all'art. 157 c.p., prevedeva per la prescrizione di alcune contravvenzioni in materia di reati tributari il termine di sette anni. La "ratio", della deroga all'art. 157 c.p., veniva rinvenuta dalla dottrina nei tempi usualmente non brevi che richiedevano gli accertamenti per la verifica della fondatezza di tali reati. Invero, pur essendo caduta la pregiudiziale tributaria, era evidente che la comunicazione della notizia di reato all'autorita' giudiziaria presupponeva una verifica della sussistenza delle violazioni tributarie, che richiedeva accertamenti contabili ed economici di una voluminosa documentazione, che spesso si trovava, in parte, presso terzi (si deve sottolineare, fin d'ora, che si trattava di accertamenti analoghi a quelli che vanno fatti, in sede di indagini preliminari, per verificare la fondatezza, sotto il profilo dell'elemento oggettivo, di un'ipotesi di false comunicazioni sociali, come conferma il fatto oggetto di questo processo, in cui le notizie di reato, relative alle fattispecie poste a raffronto, sono pervenute all'autorita' giudiziaria proprio all'esito dell'unico, complesso, accertamento documentale e contabile realizzato dal medesimo organo di Polizia). Il legislatore, cioe', aveva preso atto della difficolta' dell'accertamento e, per evitare che la sanzione, per effetto della sua qualificazione come contravvenzione e della conseguente applicazione dell'art. 157 c.p., divenisse meramente virtuale, aveva previsto un termine di prescrizione specifico piu' lungo di quello previsto dalla norma generale (tale "ratio" e' confermata anche al fattore l'art. 9, d.l. n. 429/1982, convertito con modificazioni dalla legge n. 516/1982, aveva ritenuto di soddisfare la medesima esigenza spostando in avanti il momento dal quale la prescrizione cominciava a decorrere). La recente riforma della materia (legge n. 74/2000) costituisce un'ulteriore conferma della "ratio" esposta; invero il legislatore da un lato, nel riformulare le fattispecie contravvenzionali non abrogate, le ha qualificate come delitti; dall'altro ha eliminato la deroga all'art. 157 c.p. Il legislatore, cioe', considerato che riqualificando le fattispecie come delitti non si sarebbe piu' applicato il breve termine di prescrizione previsto, dall'art. 157 c.p., per le contravvenzioni (e che, conseguentemente, le difficolta' di accertamento della fattispecie sarebbero state adeguatamente soddisfatte dalla norma generale), non ha piu' previsto il termine di prescrizione particolare. Orbene, considerato che, per i motivi sopra esposti, le false comunicazioni sociali hanno analoghi problemi di accertamento (anzi, maggiori in quanto se sotto il profilo oggettivo si tratta di effettuare le analoghe, complesse, verifiche documentali e contabili, sotto il profilo soggettivo l'accertamento del reato in esame e' complicato dalla necessita' di verificare il dolo specifico intenzionale), sarebbe stato razionale che il legislatore si fosse comportato, all'inverso, in uguale maniera; ossia nel momento in cui riqualificava il reato in esame come contravvenzione, con conseguente, applicazione del termine di prescrizione previsto dall'art. 157 c.p., avrebbe dovuto prevedere per esso un termine particolare, che non escludesse, anche, in astratto il termine del processo prima dell'estinzione del reato. Non si capisce perche' il legislatore, in relazione a fattispecie che presentano analoghe difficolta' di accertamento, nel disciplinare il termine di prescrizione, in un caso abbia tenuto conto adeguatamente (e rigorosamente nel tempo) delle difficolta' di accertamento (e delle conseguenze derivanti sul termine di prescrizione per effetto della qualifica della fattispecie come delitto ovvero contravvenzione) ed in un altro caso non abbia tenuto in alcuna considerazione di tali difficolta' e delle conseguenze derivanti sul termine di prescrizione per effetto della qualifica della fattispecie come contravvenzione. Questa disparita' di trattamento rende incostituzionale la norma anche nel caso in cui si ritenesse che le prospettate difficolta' di accertamento non escluderebbero completamente la possibilita' di terminare il processo prima dell'estinzione del reato ma ridurrebbero notevolmente tale possibilita' (al di sotto di tale valutazione non appare proprio possibile andare). Invero - posto che le difficolta' di accertamento dei reati di cui all'art. 9, legge n. 516/1982 sono analoghe (e, per certi aspetti, minori) rispetto a quelle previste dal reato in esame - se si ritenesse che le difficolta' di accertamento di quest'ultimo ridurrebbero solo la possibilita' di terminare il processo prima dell'estinzione del reato si dovrebbe, coerentemete, ritenere che, anche, le difficolta' di accertamento dei reati di cui all'art. 9, legge n. 516/1982 riducevano solo la suddetta possibilita'. Pertanto, considerato che quelle difficolta' (in considerazione della riduzione della suddetta possibilita) avevano giustificato l'allungamento del termine di prescrizione dei reati di cui all'art. 9, legge n. 516/1982, anche le, analoghe, difficolta' previste per il reato in esame avrebbero dovuto giustificare un allungamento del termine di prescrizione. L'abrogazione dell'art. 9 da parte del d.lgs. n. 74/2000 non riduce l'efficacia dimostrativa dell'argomentazione esposta, anzi, come gia' sottolineato, la rafforza, in quanto l'abrogazione del termine specifico e' legata alla riqualificazione delle fattispecie (prima contravvenzionali) non abrogate come delitti ed alla conseguente (per effetto dell'art. 157 c.p.) applicazione del termine piu' lungo previsto per tale tipo di reati. Tali vicende, pertanto, confermano che il legislatore in questo caso ha tenuto conto delle difficolta' di accertamento in quanto ha ricondotto il termine di prescrizione nell'ambito della disciplina generale solo quando ha riqualificato le fattispecie come delitto. Le vicende del termine di prescrizione dei reati tributari dimostra piu' in generale che il legislatore, normalmente, nel disciplinare il termine di prescrizione, tiene conto della gravita' del reato, ma anche delle difficolta' di accertamento che potrebbero pregiudicare completamente la possibilita' di portare a termine il processo prima che il reato si estingua e che, quando sussistono tali difficolta', anche se il reato e' considerato una contravvenzione (e, dunque, non particolarmente grave), il legislatore allunga i termini previsti per reati della medesima gravita' per evitare la palese contraddizione di prevedere la punibilita' di una condotta che non potrebbe mai essere sanzionata. Per i motivi esposti va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in relazione all'art. 3 Cost., dell'art. 1, d.lgs. n. 62/2001 (e dell'art. 11 della legge delega) nella parte in cui ha modificato anche il termine di prescrizione previsto dalla normativa vigente prima della riforma (che per il combinato disposto degli artt. 2621 c.c. e 157 c.p. era di dieci anni); va, conseguentemente, disposta la sospensione del procedimento.