ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 22, comma 36,
della  legge  23 dicembre  1994,  n. 724 (Misure di razionalizzazione
della  finanza pubblica), promosso con Ordinanza emessa il 18 ottobre
2001  dal  Tribunale  di  Pisa  nel  procedimento civile vertente tra
Alberto  Agonici ed altro e il Ministero della giustizia, iscritta al
n. 957  del  registro  ordinanze  2001  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 1, 1a serie speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il giudice
relatore Franco Bile.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con  l'ordinanza indicata in epigrafe - resa nel corso di un
giudizio  promosso  da  dipendenti del Ministero della giustizia, per
ottenere  il  pagamento  dei benefici retributivi previsti dal d.P.R.
n. 344   del   1983   (Norme  risultanti  dalla  disciplina  prevista
dall'accordo   del   29 aprile  1983  concernente  il  personale  dei
Ministeri ed altre categorie) con interessi e rivalutazione monetaria
-  il  Tribunale di Pisa ha proposto, in riferimento agli artt. 2, 3,
24,  35  e  36  della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994,
n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
    Il  giudice  rimettente  ritiene  che  tale  norma  -  prevedendo
l'applicazione  agli  emolumenti  di  natura retributiva spettanti ai
pubblici  dipendenti  dell'art. 16,  comma 6, della legge 30 dicembre
1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) - "esprime
il  divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti
del pubblico dipendente".
    Premesso  che,  a  seguito  della riforma del 1993 (integrata dai
successivi  interventi,  fino  al  decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165  "Norme  generali  sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche"), il rapporto di lavoro del pubblico
dipendente  privatizzato  deve  ormai  definirsi regolato dalle norme
relative  al  lavoro  subordinato  nell'impresa  (identica essendo la
causa   del   contratto),  il  rimettente  afferma  che  la  pubblica
amministrazione-datore  di  lavoro,  una volta costituito il rapporto
con  il suo dipendente, non possa piu' esercitare, nella gestione del
contratto, alcun potere pubblico.
    Pertanto,  rappresentando la retribuzione del pubblico dipendente
un   credito  di  lavoro,  le  conseguenze  del  ritardato  pagamento
dovrebbero  essere  regolate  dall'art. 429  del  codice di procedura
civile,  secondo  cui il giudice, quando pronuncia condanna in favore
del  lavoratore,  provvede,  anche d'ufficio, a liquidare sulla somma
rivalutata   gli   interessi  e  la  rivalutazione  monetaria,  cosi'
realizzando  una  forma di tutela differenziata in favore della parte
sostanzialmente e processualmente piu' debole.
    Viceversa,  il credito di lavoro del pubblico dipendente (sebbene
di natura identica a quello del lavoratore dipendente privato) non e'
assistito  dalla  regola  del cumulo di interessi e rivalutazione, ma
dal  diverso  criterio  dell'assorbimento  gia' dettato per i crediti
previdenziali dall'art. 16, comma 6 della legge n. 412 del 1991.
    La  norma  impugnata,  pertanto,  si  pone  in  contrasto con gli
artt. 3  e 36 Cost., in quanto il trattamento del credito retributivo
del  dipendente  pubblico  risulta  diverso  da quello del dipendente
privato, rispetto al quale il censurato divieto di cumulo non opera a
seguito della sentenza n. 459 del 2000 di questa Corte.
    Essa  lede  altresi'  l'art. 24  Cost., giacche' l'esclusione del
cumulo  agevola  ingiustificatamente una delle parti processuali, che
trae vantaggio dal proprio inadempimento.
    Ne',  infine  - a giudizio del tribunale - la tutela dei principi
di  protezione  del  lavoro  e  di  solidarieta'  sociale puo' essere
subordinata  ad  esigenze  del  bilancio  pubblico,  non  avendo tali
esigenze   carattere  assoluto,  e  non  potendo  comprimere  diritti
costituzionalmente  garantiti, attinenti al sostentamento di soggetti
meritevoli  di protezione differenziata. Ne risulta quindi la lesione
degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione.
    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha concluso nel senso della non fondatezza della sollevata
questione,  svolgendo  una  analitica  ricostruzione  del  sistema di
liquidazione  degli  accessori  del  credito  retributivo  dovuto  al
lavoratore  e  delle  ragioni  di  contenimento  della spesa pubblica
sottese  ai  ripetuti  interventi  legislativi  e  giurisdizionali in
materia,  per  effetto dei quali, attualmente (a seguito della citata
sentenza  n. 459  del  2000),  i  soli  trattamenti  retributivi  dei
lavoratori  dipendenti privati sono assoggettati al regime del cumulo
tra  interessi  e  rivalutazione monetaria di cui all'interpretazione
corrente   dell'art. 429   cod.  proc.  civ.,  mentre  i  trattamenti
retributivi  dei  lavoratori pubblici ed i crediti previdenziali sono
assoggettati al regime dell'assorbimento di cui all'art. 16, comma 6,
della legge n. 412 del 1991.
    L'Avvocatura erariale osserva che tale diversita' e' giustificata
dall'esigenza  di  risanamento  della finanza pubblica, che impone un
necessario  contemperamento  della tutela del pubblico dipendente con
le    disponibilita'   della   finanza   pubblica;   comunque,   tale
contemperamento  si estrinseca pur sempre - attraverso i caratteri di
specialita'  del  regime  de quo rinvenibili nello stesso terzo comma
dell'art. 429  cod.  proc.  civ.  -  in un regime privilegiato e piu'
garantista  rispetto  a  quello  generale  dei  crediti pecuniari cui
all'art. 1224 cod. civ.
    Quanto,  poi,  alla  ragionevolezza  del  diverso trattamento tra
categorie  di  dipendenti,  l'Avvocatura  rileva  che  il rapporto di
lavoro  contrattualizzato  con  le  pubbliche  amministrazioni  e  il
rapporto di lavoro subordinato privato rimangono diversi, onde non e'
possibile   ricostruire   le  loro  discipline  in  termini  unitari.
Pertanto,  la  normativa  in  tema  di  lavoro  alle dipendenze delle
pubbliche  amministrazioni costituisce un corpus dotato di autonomia,
rispetto  al  quale non e' affatto scontato l'automatico ed integrale
richiamo  ai  principi  ed alle interpretazioni affermate nel settore
del lavoro alle dipendenze dei privati.

                       Considerato in diritto

    1. - Il    Tribunale    di   Pisa   dubita   della   legittimita'
costituzionale  dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994,
n. 724  (Misure  di  razionalizzazione  della  finanza  pubblica).  A
giudizio  del rimettente la norma - nella parte in cui prevede che il
divieto  di  cumulo  di  interessi  e  rivalutazione  monetaria posto
dall'art. 16,   comma 6,   della   legge   30 dicembre  1991,  n. 412
(Disposizioni  in  materia  di  finanza  pubblica),  si applica anche
all'ipotesi  di  ritardo  nella  corresponsione  degli  emolumenti di
natura  retributiva  spettanti  ai  pubblici  dipendenti - si pone in
contrasto:  a) con l'art. 36 della Costituzione, in quanto il credito
di  lavoro,  avendo funzione alimentare, richiede comunque una tutela
differenziata in favore della parte sostanzialmente e processualmente
debole  del  rapporto,  a  prescindere dalla posizione soggettiva del
datore   di   lavoro;  b)  con  l'art. 3  Cost.,  per  disparita'  di
trattamento  derivante  dal  fatto  che  il  criterio  del  cumulo di
interessi  e  rivalutazione  monetaria  si  applica invece (a seguito
della  sentenza  di  questa  Corte  n. 459  del  2000)  ai lavoratori
dipendenti  privati, nonostante l'intervenuta integrale equiparazione
del  rapporto  di  lavoro  pubblico  al rapporto privato e l'identica
situazione  di debolezza in cui versa il lavoratore; c) con l'art. 24
Cost.,  poiche'  l'esclusione  del cumulo agevola ingiustificatamente
una  delle parti processuali, che trae indebito vantaggio dal proprio
inadempimento;  d)  con  gli  artt. 2,  4  e  35  Cost., in quanto la
prioritaria   tutela   riservata   all'individuo,  in  tutte  le  sue
manifestazioni,   deve   determinare,  in  caso  di  concorrenza,  la
recessione di ogni altro diverso valore, pur di rango costituzionale,
comprese le esigenze di risanamento della finanza pubblica.
    2. - La questione non e' fondata.
    Questa  Corte,  con  la  sentenza  n. 459 del 2000, ha dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  della  norma  oggetto  dell'odierno
scrutinio,    nella    parte    in    cui    estendeva    all'ipotesi
dell'inadempimento dei crediti retributivi dei lavoratori subordinati
privati  la  regola  della  non cumulabilita' degli interessi e della
rivalutazione  monetaria,  gia'  prevista per i crediti previdenziali
dall'art. 16,  comma 6,  della  legge 30 dicembre 1991, n. 412, cosi'
sottraendoli  al  regime di cui all'art. 429, terzo comma, del codice
di  procedura  civile. E nell'occasione ha rilevato, tra l'altro, che
la  materia  concernente le conseguenze del ritardato adempimento dei
crediti  di lavoro non e' estranea alla garanzia costituzionale della
giusta retribuzione, giacche' la puntualita' della corresponsione del
dovuto  concorre,  insieme  alla  congruita'  del  suo  ammontare, ad
assicurare  al  lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e
dignitosa  attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di
vita.
    Questo ovviamente - il punto deve essere ribadito anche in questa
sede  -  non  significa  affatto  che  il  meccanismo  del  cumulo di
interessi   e   rivalutazione   monetaria,  di  cui  al  terzo  comma
dell'art. 429    cod.   proc.   civ.,   debba   ritenersi   principio
costituzionalizzato. Vuol dire solamente che il legislatore e' libero
di sostituire quel meccanismo con altro, restando ferma la necessita'
di  riconoscere  ai  crediti  di  lavoro  un'effettiva specialita' di
tutela   rispetto  alla  generalita'  degli  altri  crediti,  cui  si
riferisce l'art. 1224 cod. civ., ponendo una remora all'inadempimento
del  datore  di  lavoro  mediante  la  previsione di un meccanismo di
riequilibrio   del   vantaggio   patrimoniale  indebitamente  da  lui
conseguito.
    La  dichiarazione di illegittimita' costituzionale del divieto di
cumulo  di  interessi  e rivalutazione - relativamente al rapporto di
lavoro  privato  -  risulta decisivamente fondata sulla constatazione
che  la norma impugnata poteva incentivare l'inadempimento del datore
di  lavoro,  consentendogli  di lucrare (con investimenti finanziari,
pur  privi  di  rischio)  l'eventuale differenziale tra il rendimento
dell'investimento ed il tasso di svalutazione.
    Siffatta  ratio  decidendi non puo' essere automaticamente estesa
al  datore  di  lavoro  pubblico. La pubblica amministrazione infatti
conserva  pur  sempre  -  anche  in presenza di un rapporto di lavoro
ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare (sentenza n. 275
del  2001),  sotto  il  profilo  -  per  quanto  qui  rileva  - della
conformazione   della   condotta   cui  essa  e'  tenuta  durante  lo
svolgimento  del  rapporto al rispetto dei principi costituzionali di
legalita',  imparzialita'  e  buon  andamento,  cui  e' estranea ogni
logica speculativa.
    3. - Non esistendo una necessita' di predisporre per il datore di
lavoro  pubblico  le stesse remore all'inadempimento, deve escludersi
quella   omogeneita'  di  situazioni,  cui  il  rimettente  ricollega
l'asserita  lesione  del  principio  di uguaglianza posto dall'art. 3
della Costituzione.
    4. - D'altro  canto, la norma impugnata prevede per gli accessori
dei  crediti di lavoro pubblico una disciplina comunque diversificata
rispetto  a  quella  dei  crediti  comuni,  e per taluni aspetti piu'
favorevole    per    il    lavoratore,   giacche'   gli   attribuisce
automaticamente  il beneficio della rivalutazione a titolo di maggior
danno e lo esonera dall'onere della relativa prova.
    Pertanto,  la tutela della giusta retribuzione di cui all'art. 36
della  Costituzione,  nel  senso  chiarito  dalla sentenza n. 459 del
2000,  deve  ritenersi  assicurata  anche per i lavoratori dipendenti
dalle pubbliche amministrazioni.
    5. - Quanto  poi  alla dedotta lesione del diritto di azione e di
difesa   del   lavoratore,  e'  sufficiente  richiamare  la  costante
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il parametro dell'art. 24
della   Costituzione   non   e'  evocabile  in  riferimento  a  norme
sostanziali (quale quella in questione).
    6. - Le  censure  di  violazione  degli  artt. 2,  4  e  35 della
Costituzione  si  risolvono  in  una diversa prospettazione di quelle
precedentemente  esaminate,  onde  -  al pari di esse - devono essere
dichiarate non fondate.