ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 448, comma 1,
del   codice   di  procedura  penale,  promosso,  nell'ambito  di  un
procedimento  penale,  dal  Tribunale  di  Bergamo  con ordinanza del
7 dicembre  2001,  iscritta  al  n. 160 del registro ordinanze 2002 e
pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, 1a serie
speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 15 gennaio 2003 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.
    Ritenuto  che  con  ordinanza del 7 dicembre 2001 il Tribunale di
Bergamo  ha  sollevato,  in  riferimento  agli artt. 3 (non enunciato
formalmente),  111 (secondo e quarto comma) e 112 della Costituzione,
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 448,  comma 1,
secondo  periodo,  del codice di procedura penale, nella parte in cui
"consente  al  solo  imputato  di chiedere (e ottenere) nonostante il
dissenso  del pubblico ministero l'applicazione della pena nella fase
preliminare al dibattimento";
        che  il  rimettente  premette  che prima del compimento delle
formalita'  di  apertura  del  dibattimento  alcuni  imputati avevano
reiterato  la  richiesta  di  applicazione della pena gia' formulata,
negli stessi termini, davanti al giudice dell'udienza preliminare, in
relazione  alla quale il pubblico ministero aveva espresso il proprio
dissenso;
        che ad avviso del giudice a quo il comma 1 dell'art. 448 cod.
proc.  pen.,  come  modificato  dall'art. 34,  comma 1,  della  legge
19 dicembre  1999,  n. 479  -  consentendo all'imputato di rinnovare,
prima  della dichiarazione di apertura del dibattimento, la richiesta
di  applicazione  della  pena precedentemente formulata e non accolta
per  dissenso  del  pubblico  ministero, e prevedendo che il giudice,
valutata  la  fondatezza  della  richiesta,  pronunci  immediatamente
sentenza - impone al giudice stesso di applicare all'imputato la pena
da lui indicata anche senza il consenso del pubblico ministero;
        che    tale    disciplina    snaturerebbe    l'istituto   del
patteggiamento, caratterizzato, nell'originario "impianto" del codice
del  1988,  dall'accordo  fra  le  parti,  in  quanto la richiesta di
patteggiamento  e  il  consenso  costituiscono,  cosi' come precisato
dalla giurisprudenza di legittimita', "due manifestazioni di volonta'
unilaterali    convergenti,    rivolte    al   giudice,   provenienti
dall'imputato e dal pubblico ministero";
        che  prima  della  riforma  introdotta dalla legge n. 479 del
1999  la  giurisprudenza riteneva pacificamente che il giudizio sulle
ragioni   del   dissenso   del   pubblico  ministero  potesse  essere
compiutamente    formulato    soltanto    all'esito   dell'istruzione
dibattimentale e che quindi il giudice potesse valutare la fondatezza
della richiesta dell'imputato di applicazione della pena solo dopo la
chiusura del dibattimento;
        che  la  disciplina  censurata  travolgerebbe  i principi che
connotano  l'istituto  del  patteggiamento e si porrebbe in contrasto
con   l'art. 111,   secondo   e   quarto   comma,  Cost.,  in  quanto
consentirebbe  all'imputato  di  chiedere  e di ottenere una pena non
concordata  con  il  pubblico  ministero  e  imporrebbe al giudice di
applicare  tale  pena  non  a  seguito  del  giudizio,  e  quindi del
contraddittorio  tra  le  parti, ma "immediatamente" e sulla base dei
soli atti raccolti nel fascicolo del pubblico ministero;
        che   nel  patteggiamento,  "istituto  che  piu'  tipicamente
esprime  la  condizione  di  parita'  delle  parti",  verrebbe  cosi'
"irragionevolmente   introdotta   una  norma  di  disparita',  lesiva
altresi'  del  principio  costituzionale della formazione della prova
nel dibattimento";
        che  l'applicazione  in  limine  litis  della  pena richiesta
dall'imputato,  anche  senza  il  consenso  del  pubblico  ministero,
determinerebbe  inoltre  "un vero e proprio esautoramento della parte
pubblica dall'esercizio dell'azione penale", violando il principio di
cui  all'art. 112  Cost., che investe non solo il "momento iniziale e
genetico",  ma  tutto  lo "sviluppo e concreto esercizio" dell'azione
penale;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
    Considerato   che  il  rimettente  dubita,  in  riferimento  agli
artt. 3, 111, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione, della
legittimita'  costituzionale dell'art. 448, comma 1, secondo periodo,
del   codice  di  procedura  penale,  come  modificato  dall'art. 34,
comma 1,  della  legge  19 dicembre  1999,  n. 479,  in  quanto,  nel
consentire  all'imputato  di  rinnovare, prima della dichiarazione di
apertura  del  dibattimento,  la richiesta di applicazione della pena
gia'  rivolta  al  giudice  dell'udienza  preliminare e non accolta a
causa  del dissenso del pubblico ministero, imporrebbe al giudice del
dibattimento,  valutata la fondatezza della richiesta, di pronunciare
immediatamente  sentenza di applicazione della pena anche in mancanza
del consenso del pubblico ministero;
        che   questa   Corte   ha  avuto  recentemente  occasione  di
affermare,  in  relazione  ad  una  questione  in  cui  la disciplina
censurata  era  assunta quale tertium comparationis (ordinanza n. 426
del 2001, depositata in data successiva all'ordinanza di rimessione),
che  l'art. 448, comma 1, cod. proc. pen., ove interpretato nel senso
che  al  giudice  del  dibattimento  e'  riconosciuto  il  potere  di
accogliere  la  richiesta  di patteggiamento in limine litis anche in
assenza   del  consenso  del  pubblico  ministero,  "si  porrebbe  in
contrasto  con  la  struttura  negoziale  che caratterizza l'istituto
dell'applicazione  della  pena,  in quanto verrebbe ad espropriare il
pubblico  ministero  del  suo  potere di concorrere, in condizioni di
parita'  con  l'imputato,  alla  scelta  del  rito, e sacrificherebbe
l'esercizio del suo diritto alla prova in dibattimento";
        che  e'  infatti  conforme  all'essenza dell'istituto che "il
potere di pronunciare sentenza di applicazione della pena malgrado il
dissenso del pubblico ministero possa essere esercitato, ex art. 448,
comma 1,  quarto  periodo, cod. proc. pen., solo dopo la chiusura del
dibattimento,  quando  il  giudice  e' posto in grado di valutare, in
esito  alle  risultanze dell'istruzione dibattimentale, se le ragioni
del dissenso del pubblico ministero erano giustificate";
        che questa Corte ha inoltre rilevato che tale interpretazione
logico-sistematica  non e' in contrasto con il tenore letterale della
disposizione  censurata,  che  "si  limita  a  prevedere  la facolta'
dell'imputato  di  rinnovare  la richiesta di applicazione della pena
prima  dell'apertura  del dibattimento, mediante una formulazione che
non  esclude che la richiesta debba essere corredata del consenso del
pubblico   ministero,   secondo   quanto  disposto  in  via  generale
dall'art. 444  cod.  proc.  pen.,  cui  rinvia  il  primo periodo del
comma 1 dell'art. 448";
        che   la  questione,  sollevata  sulla  base  di  un  erroneo
presupposto   interpretativo,   deve   pertanto   essere   dichiarata
manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.