L'UFFICIO DI SORVEGLIANZA

    Visti  gli  atti  del procedimento nei confronti di Arenas Posada
Jose'  Angel,  nato  a  Viterbo  Caldas (Colombia) il 26 agosto 1977,
detenuto  nella  Casa  di  reclusione  di Isili in espiazione pena di
quattro  anni,  due mesi e venti giorni di reclusione e di 54.000.000
di  lire  di  multa  inflitta  con  sentenza della Corte d'Appello di
Milano  in  data  28  settembre 1991 (Ord. esempio n. 4058/2002 Proc.
Rep.  c/Trib.  Milano),  con  fine  pena al 12 agosto 2004, avente ad
oggetto l'espulsione dal territorio dello Stato ai sensi dell'art. 16
decreto   legislativo   25   luglio   1998,  n. 286  come  modificato
dall'art. 15 legge 30 luglio 2002, n. 189;

                            O s s e r v a

    Con sentenza della Corte d'appello di Milano in data 28 settembre
1991,  Jose' Angel Arenas Posada e' stato condannato - per il delitto
di  importazione  illecita di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 1
testo  unico 9 ottobre 1990, n. 309) - alla pena di quattro anni, due
mesi  e  venti giorni di reclusione e di 54.000.000 di lire di multa,
con  inizio  pena  al  24  maggio  2000  e fine al 12 agosto 2004. La
residua pena espianda e' pertanto inferiore a due anni di reclusione.
    Dal  complesso  delle  acquisizioni  istruttorie e' emerso che il
detenuto  si  trova  nelle  condizioni  di  cui  all'art. 13, comma 2
decreto  legislativo  25 luglio 1998, n. 286. Secondo quanto riferito
dalla  questura di Nuoro, infatti, egli e' di nazionalita' colombiana
e  non  risulta  avere  mai  regolarizzato  la  propria  posizione di
soggiorno  (v.  nota  informativa,  in atti). Inoltre, non sono stati
acquisiti   elementi  significativi  che  inducano  ad  affermare  la
sussistenza   di  alcuna  delle  condizioni  ostative  all'espulsione
previste  dall'art. 19 del testo unico delle leggi sull'immigrazione.
Per tali motivi, essendo egli stato condannato per un delitto diverso
da  quelli  contemplati dall'art. 407, comma 2, lettera a) cod. proc.
pen.,  ovvero  dai  delitti  previsti  dal  testo  unico  delle leggi
sull'immigrazione   deve   ritenersi,  conclusivamente,  che  rimanga
perfettamente integrata la fattispecie prevista dall'art. 16, comma 5
e  seguenti  del testounico citato, cosi' come modificato dalla legge
n. 189/2002.
    Ritiene  tuttavia  questo,  giudice  che  rispetto  alla suddetta
fattispecie   possa   fondatamente   ipotizzarsi   una   censura   di
legittimita' costituzionale per violazione degli artt. 3, 27, comma 3
e  111  della  Costituzione,  in  relazione  ai  profili  di  seguito
individuati.
    1.  -  Per  quanto  attiene  al ritenuto contrasto con l'art. 27,
comma 3 Cost., ovvero con il principio dei c.d. finalismo rieducativo
della  pena,  si  osserva  preliminarmente  che l'espulsione prevista
dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile al novero
delle sanzioni penali.
    Al   riguardo   non  puo'  ritenersi  persuasiva;  a  parere  dei
remittente,  a  tesi  pur  autorevolmente sostenuta (cfr. sent. Corte
cost.  n. 62/1994)  secondo  cui  la  fattispecie  in  esame sia piu'
correttamente    ricostruibile   come   un'ipotesi   di   sospensione
dell'esecuzione  della  pena:  cio' che, all'evidenza, condurrebbe ad
escludere  che l'istituto debba necessariamente proiettarsi verso una
prospettiva di rieducazione del sottoposto.
    Sul   punto   occorre   muovere   l'analisi   ricostruttiva   dal
riconoscimento  della natura, non soltanto sanzionatoria, ma altresi'
palesemente afflittiva dell'espulsione dal territorio dello Stato.
    Circa  il  carattere  di  sanzione  in  senso  tecnico,  cioe' di
meccanismo  attraverso  cui la norma giuridica pone le condizioni per
la  propria  osservanza,  esso  e'  del  tutto  ovvio  e  non  sembra
abbisognare  di  particolari argomentazioni, salvo che per un aspetto
che  apparira'  comunque  significativo  nel  proseguo  del discorso:
l'espulsione  mira  a  realizzare  la  tutela dell'interesse protetto
dalla  norma  incriminatrice  attraverso  l'allontanamento coatto del
soggetto  dal  territorio  dello  Stato, cosi' impedendo - o comunque
circoscrivendo  -  il rischio di condotte recidivanti (soddisfacendo,
per questa via, un'esigenza di «prevenzione speciale»).
    Quanto   al   carattere   affittivo   dell'espulsione   non  pare
condivisibile  il  rilievo  secondo  cui, accompagnandosi essa ad una
sorta di rinuncia all'esecuzione della pena principale, finirebbe per
tradursi,  concretamente,  in  una  misura di favore, in una sorta di
beneeficio.  Come noto, tale impostazione, e' alla base della censura
di  incostituzionalita' per violazione dell'ari. 3 della Costituzione
sollevata con le ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di
Bergamo  e  di  Roma  in  data  15  luglio  e  15  ottobre  1993, con
riferimento alla disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12-bis e
ter dell'art. 7 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
    La   tesi   ora  esposta  non  sembra  tuttavia  persuasiva.  Pur
correttamente   prospettabile  in  relazione  alle  ipotesi  di  mera
sospensione  dell'esecuzione  della  pena (come, ad esempio, nel caso
della sospensione condizionale disciplinata dagli artt. 163 s.s. cod.
pen.)  essa  non pare accoglibile in riferimento alla fattispecie che
ci occupa.
    Al  riguardo  deve  preliminarmente rilevarsi che l'analisi della
natura  del  meccanismo  sanzionatorio  da essa delineato deve essere
compiuto in astratto, cioe' in relazione al dato ontologico della sua
modalita' di esecuzione e degli interessi su cui l'espulsione incide.
Diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo di considerare come
un  beneficio  finanche  la  pena detentiva in tutti quei casi in cui
l'ingresso  del condannato nel circuito penitenziario lo sottragga ad
una condizione di marcata emarginazione socio-ambientale (si pensi al
caso, tutt'altro che infrequente e ben conosciuto dagli operatori dei
settore,  in  cui  l'entrata  in  istituto  finisca per assicurare al
detenuto  un  alloggio,  un'alimentazione  e  un'assistenza sanitaria
altrimenti inadeguati).
    Proprio  l'astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce
ad  affermarne  l'intrinseca  afflittivita',  atteso  che il coattivo
accompagnamento  alla  frontiera  a  mezzo  della  forza pubblica (V.
l'attuale  comma  7  dell'art. 15  d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286)
concretizza,  per  citare quanto la Corte costituzionale ha affermato
nella  sentenza  n. 105/2001  in  relazione  alla diversa ipotesi del
trattenimento  dello  straniero  nei  centri  di  permanenza, «quella
mortificazione  della  dignita'  dell'uomo  che  si  verifica in ogni
evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che e' indice
sicuro   dell'attinenza   della  misura  alla  sfera  della  liberta'
personale».  In  altri  termini l'afflittivita' deriva specificamente
dalla  immediata  incidenza dell'espulsione sulla liberta' personale,
attuata  attraverso  l'allontanamento  coatto  dal  territorio  dello
Stato.  Cio'  che peraltro puo' comportare la infrazione coattiva del
complesso  di  relazioni  socio-ambientali, non tutte necessariamente
illecite,  poste  in  essere  e  magari  consolidate  da  parte dello
straniero nel territorio italiano.
    Non   sembra   pertanto  condivisibile  l'opinione,  espressa  in
occasione   delle  menzionate  ordinanze  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale,  secondo  cui  l'espulsione  possa essere qualificata
come un beneficio (sul presupposto che la sua esecuzione favorisce il
condannato,  ovvero  -  nel caso che qui interessa - del detenuto, il
quale  in  tal  modo  si  sottrae di fatto all'esecuzione della pena,
atteso  che  dopo  il decorso del termine previsto dal comma 8, senza
che  il  soggetto  sia  rientrato nel territorio dello Stato, essa si
estinguerebbe). Anche a voler prescindere dall'evidente assurdita' di
voler  qualificare  come  misura  favorevole un intervento limitativo
della  liberta'  personale,  dovrebbe  in  tal  caso  consentirsi  al
«beneficiario»  di  rinunciarvi: cio' che, come si dira', non avviene
nel  caso  di specie, dovendo il giudice procedere ex officio. E ad a
sostegno   della  prospettiva  qui  accolta  milita,  del  resto,  la
considerazione,  che  la stessa Corte costituzionale ha evidenziato -
nella gia' citata sentenza n. 64 del 1996, su cui si ritornera' - che
a  garanzia  «di  un  diritto  inviolabile  dovrebbe prescriversi che
l'espulsione  sia  ancorata  all'iniziativa del condannato». Cio' che
all'evidenza ne conferma, conclusivamente, il carattere afflittivo.
    Riconosciuta   l'afflittivita'   della  sanzione  dell'espulsione
appare  necessario  procedere  alta sua qualificazione dogmatica, non
per  ragioni  di  mera  esercitazione speculativa, ma perche' dal suo
esatto  inquadramento  puo' conseguire, appunto, la soggezione o meno
all'art. 27, comma 3 della Costituzione ed al principio del finalismo
rieducativo.
    Sul  punto non appare eesservi dubbio che si trovi in presenza di
una sanzione penale. cio' e' evidente nell'ipotesi prevista dal comma
1  dell'art.  16  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a
voler  prescindere  dal  dato formale del nomen juris adoperato nella
rubrica  (ovvero  quello di «sanzione sostitutiva» della detenzione),
si  e'  in  presenza  di  una  conseguenza  afflittiva che il giudice
applica,  in  esito  ad un processo penale, una volta riconosciuta la
responsabilita'  dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva
(reclusione  o  arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che
l'ipotesi prevista dai successivo comma 5 differisce da quella appena
descritta   solamente   per  la  fase  in  cui  e'  emessa  (e  cioe'
successivamente  al  passaggio  in  giudicato  della  sentenza) e per
l'organo giudiziario competente (nonche', di riflesso, per il tipo di
procedimento  e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per
contenuto e funzione, non vi e' ragione di dubitare che essa presenti
la medesima natura giuridica di quella.
    Orbene,  nel nostro sistema giuridico-penale - fondato sul regime
dei   c.d.  doppio  binario  -  le  sanzioni  penali  possono  essere
ricondotte  esclusivamente  a due tipologie fondamentali, diverse per
funzione  e  per  presupposti  applicativi:  la  pena  e la misura di
sicurezza.
    Nel  primo  caso  lo strumento sanzionatorio deve necessariamente
orientarsi,  come  noto,  verso  una  prospettiva di rieducazione del
condannato  (e  quindi  di  acquisizione,  da parte dello stesso, del
senso dei disvalore della condotta di reato e, al contempo, del senso
del  valore attribuito dall'ordinamento all' interesse tutelato dalla
norma incriminatrice).
    Nel   secondo   caso,  l'afflizione  (realizzata  attraverso  una
limitazione  dei diritti di liberta', o patrimoniali, del sottoposto)
e'  invece  esclusivamente  finalizzata a circoscrivere ii rischio di
nuovi   episodi  di  relta'  da  parte  di  un  soggetto  socialmente
pericoloso.
    Ogni  sanzione  penale  deve  necessariamente essere ricondotta a
questi   due   paradigmi.  In  caso  contrario  si  consentirebbe  al
legislatore  di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia
di  pene  e  di  misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall'art. 25
della  Costituzione) attraverso una sorta di «truffa delle etichette»
realizzata  con  la previsione di un tertium genus di sanzioni penali
atipiche comunque incidenti sulla liberta' personale.
    Tanto   premesso   non  sembra  realisticamente  ipotizzabile  un
inquadramento  della  fattispecie in esame nel novero delle misure di
sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune
ipotesi  di  espulsione  dello straniero dal territorio dello Stato);
soluzione  che  pure rappresenterebbe - a parere di questo, giudice -
l'unica  opzione  ricostruttiva  idonea a renderla compatibile con il
vigente assetto costituzionale.
      L'esclusione  di  una  siffatta  ipotesi  esegetica  si impone,
infatti,  in  considerazione dell'assenza di un qualsiasi riferimento
all'accertamento  della  concreta pericolosita' sociale del soggetto,
ora  assolutamente necessaria - a mente dell'art. 31 legge 10 ottobre
1986, n. 663 - ai fini dell'applicazione di ogni misura di sicurezza.
Sarebbe  inoltre  del  tutto irragionevole, in rapporto alla funzione
tipica  di  questa categoria di sanzioni penali, che l'espulsione sia
obbligatoria per i reati piu' lievi e non sia, invece, consentita per
i  reati  piu'  gravi,  tendenzialmente  rivelatori  di  una maggiore
pericolosita' del colpevole.
    Consegue   all'analisi  che  precede  che  l'espulsione  prevista
dall'art.   16  d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286  sia  qualificabile
necessariamente  come pena: cio' che ulteriormente conduce a ritenere
indispensabile  la  sua  conformita' al principio posto dall'art. 27,
comma  3 Cost.; conformita' che - per le ragioni piu' sopra esposte -
deve, al contrario, ragionevolmente escludersi.
    Non  sarebbe  conferente  opinare,  ai  riguardo, che la tesi ora
accolta,  escludendo  ontologicamente  la  compatibilita' tra la pena
dell'espulsione  ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere
tout court la possibilita' di' conservare la fattispecie in esame nel
nostro   sistema   penale.   Al  contrario,  deve  rilevarsi  che  il
legislatore  ben  potrebbe  congegnare  l'espulsione  come  misura di
sicurezza,  ancorando  - beninteso - l'applicazione della sanzione al
presupposto-cardine    dell'attuale    pericolosita'    sociale   del
condannato.
    2.  -  L'applicazione  dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286
sorge, inoltre, un dubbio di legittimita' costituzionale in relazione
agli artt. 3 e 3 della Costituzione, rispettivamente sotto il profilo
della  ragionevotezza  delle  scelte del legislatore nella previsione
del  meccanismo  di  espulsione  e  dei relativi presupposti, nonche'
sotto  il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona
umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana.
    Sul  punto, giova senz'altro rilevare - come gia' ricordato - che
la   Corte   costituzionale   ha  gia'  avuto  modo  di  prendere  in
considerazione,  in  particolare  con  la sentenza n. 62 del 1994, la
questione  suddetta  in  relazione  alla  fattispecie,  ora abrogata,
prevista dai commi 12-bis e ter dell'art. 7 testo unico n. 286/1998.
    In  tale  occasione il giudice delle leggi, dopo aver escluso che
il  principio di rieducazione venga in considerazione quando come nei
caso  dell'espulsione,  non  si  faccia  luogo all'applicazione della
pena,  sibbene alla sua mera sospensione, ha ribadito la legittimita'
di  un  sindacato  sulla (eventuale) manifesta irragionevolezza della
scelta  del legislatore di rinunciare alla attuale applicazione della
pena.  E a tale proposito la Consulta ha precisato che, affinche' una
scelta siffatta possa ritenersi come non irragionevole vi e' comunque
la  necessita' che possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di
pena  espiata  abbia  gia'  raggiunto  (in  caso  di pena residua) la
finalita'  rieducativa  richiesta dalla Costituzione, ovvero (in caso
di  pena  non  ancora iniziata) che tale finalita' non e' necessaria.
Una  siffatta valutazione, ha continuato la Corte costituzionale, non
puo'    ovviamente    prescindere   dall'acquisizione   di   adeguate
informazioni   degli   organi   di   polizia,  ma  anche  -  si  puo'
ragionevolmente pensare, pur in assenza di un'espressa indicazione in
tal  senso  da  parte della Consulta - di ogni elemento utile ai fini
del  giudizio sulla personalita' (e quindi, conseguentemente, ai fini
dell'accertamento circa la necessita' di un'effettiva rieducazione).
    Tanto  premesso,  occorre  muovere  dalla  considerazione  che il
meccanismo   dell'espulsione  ora  in  esame  si  fonda  su  un  mero
automatismo:  una  volta  accertata  la  sussistenza  dei presupposti
richiesti  dalla  norma,  il giudice deve espellere il detenuto senza
avere   alcuna  alternativa.  Ne  consegue  che  alfine  di  ritenere
compatibile  la disciplina descritta con il principio di rieducazione
sara'  necessario  ipotizzare  che il legislatore abbia formulato una
presunzione assoluta di avvenuta rieducazione del detenuto.
    Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa
previsione   di   una   presunzione   assoluta  appare  evidentemente
confliggere  con  l'esigenza  di  consentire  al  giudice la concreta
valutazione   dell'avvenuta   rieducazione  del  condannato,  imposta
propria  dalla giurisprudenza costituzionale, giova altresi' rilevare
che  una siffatta presunzione, tuttavia, non appare fondata su alcuna
massima   di   esperienza   verificabile,   non  ravvisandosi  alcuna
plausibile   giustificazione   al  fatto  che  il  detenuto  non  sia
«bisognevole»  di  trattamento  rieducativo  per il solo fatto che la
pena espianda sia inferiore ai due anni di detenzione.
    Tale  rilievo  induce  a ritenere l'irragionevolezza della scelta
legislativa,  tenuto  conto  del  fatto  che  ove  si  consentisse al
Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su
una   attendibile   regola   di  esperienza,  la  scelta  legislativa
diverrebbe  logicamente  inattaccabile  e,  come  tale,  sottratta  a
qualunque  tipo  di  controllo.  Del  resto  questa esigenza e' stata
debitamente   rappresentata   dalla   stessa   Corte   costituzionale
allorche', sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che
«Se pur lecito formulare previsioni logicamente valide e attendibili,
non  e'  peraltro  consentito trasformare tali previsioni in certezze
assolute,  imperativamente  statuite  senza  la  possibilita'  che si
ammetta la prova del contrario» (Corte costituzionale 28 luglio 1976,
n. 200).
    Ne'   appare  in  alcun  modo  giustificabile  che  una  siffatta
presunzione  possa  essere  legittimamente circoscritta nei confronti
dei  soli  extracomunitari  non  aventi  titolo  di  soggiornare  nel
territorio   italiano,   a   meno   di   ipotizzare  un'irragionevole
presunzione   secondo   cui   nei   confronti  di  tali  soggetti  la
rieducazione sia, per qualche oscura ragione, piu' celere.
    Inoltre,  equiparandosi,  in  virtu' della descritta presunzione,
situazioni  potenzialmente  diverse  -  quali  ad esempio, quella del
detenuto  la  cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella,
opposta,  di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo
- viene all'evidenza violato il principio di uguaglianza.
    L'irragionevolezza  della  fattispecie  in  esame emerge altresi'
nitidamente  dal  divieto di procedere all'espulsione con riferimento
ai  gravi  reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc.
pen.  nonche'  dall'obbligo  di  disporla  per  tutti gli altri reati
(salvo  il  rispetto  dei  gia' ricordati limiti di pena). Per questa
via, mentre nell'ipotesi di condanna per detenzione a fini di spaccio
di   modeste  quantita'  di  sostanza  stupefacente  l'espulsione  e'
necessitata,   viceversa   qualora  il  quantitativo  detenuto  fosse
addirittura  ingente  (nell'ipotesi  delineata  dall'ari. 80, comma 2
testo  unico  9  ottobre 1990, n. 309) l'espulsione in fase esecutiva
sarebbe  invece  preclusa.  E  qualora,  peraltro,  il  magistrato di
sorveglianza  dovesse ritenere, a pena espiata, che il condannato non
sia  persona  socialmente  pericolosa  (ad  esempio,  per  avere egli
acquisito   una  valida  opportunita'  lavorativa  o  potendo  essere
inserito   in   valido   tessuto   socio-ambientale   idoneo  al  suo
reinserimento)  non  potrebbe  neanche  farsi luogo all'espulsione ex
art. 86   testo   unico   stupefacenti.   Rimane   cosi'   dimostrata
l'irragionevolezza  di  una  disciplina  che  da  un  lato prevede il
divieto  di  applicazione di una sanzione afflittiva per alcuni gravi
reati  e  che dall'altro lato obbliga invece il giudice ad applicarla
nelle ipotesi piu' lievi in aggiunta alla residua pena detentiva (che
verra'  integralmente espiata in caso di rientro nel termine di dieci
anni).
    Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con
l'art.  2  della  Costituzione  e'  gia' stato rilevato che la natura
officiosa   del   procedimento  di  applicazione  e'  chiaramente  in
contrasto   con   l'esigenza   -   gia'   rappresentata  dalla  Corte
costituzionale  nella  sentenza  n. 62 del 1994 - che sia previsto, a
garanzia «di un diritto inviolabile», l'impulso della parte privata.
    3.  -  Le censure di incostituzionalita' si estendono altresi', a
giudizio  del  remittente,  sul  procedimento  di  applicazione della
«sanzione  alternativa  alla  detenzione»  in relazione all'art. 111,
commi 1 e 2 della Costituzione.
    A   questo   riguardo   giova  preliminarmente  rilevare  che  il
procedimento  delineato  dai  commi  5  e  ss. dell'art. 16 d.lgs. 25
luglio 1998, n. 286 ha natura sicuramente giurisdizionale - avendo ad
oggetto  l'applicazione, da parte di un giudice ed in sostituzione di
una  pena  detentiva principale, di una sanzione penale - e come tale
deve  ritenersi  riconducibile  all'alveo  del  comma 1 dell'art. 111
della  Costituzione,  a  mente  dei  quale «la giurisdizione di attua
mediante   il   giusto  processo  regolato  dalla  legge».  Anche  il
procedimento   di   espulsione  in  fase  esecutiva,  pertanto,  deve
conformarsi - analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale
- ai principi del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali ed
imprescindibili   affinche'  detto  procedimento  possa  considerarsi
conforme  al  dettato  costituzionale,  sono  indicati  dal  comma  2
dell'art.  111  della  Costituzione,  laddove  si statuisce che «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita',  davanti  a un giudice terzo e imparziale». Nessun argomento
contrario  potrebbe  trarsi  dal mero dato letterale, rinvenibile nel
predetto  enunciato  normativo,  Iaddove viene fatto riferimento alla
nozione di «processo»; nozione che se intesa in una stretta accezione
processualpenalistica  dovrebbe essere circoscritta a quella fase del
processo   di   cognizione   (cioe'  diretto  all'accertamento  della
responsabilita'    penale    dell'imputato)    che    si    incardina
successivamente  all'esercizio  dell'azione  penale e che si conclude
con  la  sentenza  di  condanna  o di proscioglimento. Questa ipotesi
ermeneutica,   che   comporterebbe   -   ad  esempio  -  l'esclusione
dall'ambito  della  norma anche del procedimento di sorveglianza e di
quello  di  esecuzione,  contrasta  tuttavia con un insuperabile dato
sistematico:   il  secondo  comma  dell'art. 111  della  Costituzione
riprende  il  termine  di  «processo», gia' adoperato dal primo comma
nella  locuzione  di  «giusto processo» che, come detto, compendia in
termini  sintetici  i  caratteri  indefettibili  della giurisdizione,
cioe' di ogni procedimento giurisdizionale.
    Consegue   alla  prospettazione  ora  accolta  che  un  carattere
essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame,
va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio.
    Detto  principio  presenta  una  duplice connotazione funzionale,
oggettiva  e  soggettiva.  Esso  di  configura,  in primo luogo, come
fondamentale  strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo)
in  quanto  prezioso collettore di elementi e circostanze giuridico -
fattuali potenzialmente significativi ai fini della decisione.
    La  funzione  del  contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in
un'esigenza,  per  cosi' dire, meramente «efficientistica» (nel senso
di  favorire  una  decisione  qualitativamente  migliore, ossia «piu'
giusta»)  ma  e'  strumentale al soddisfacimento dell'interesse delle
parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto
di  vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse
sono portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio,
la  facolta'  dell'imputato  di  contraddire  i testi dell'accusa non
sara' finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per
l'acquisizione   di   una  verita'  processuale  quanto  piu'  vicina
possibile  alla  verita' storica, migliorando in tal modo la qualita'
della   decisione   del   giudice,  ma  rispondera'  -  ovviamente  -
soprattutto    all'esigenza   della   parte   privata   di   tutelare
adeguatamente  il  proprio interesse a difendersi dall'accusa di aver
commesso un reato. In quest'ultima prospettiva, il contraddittorio e'
quindi  funzionale  a garantire il diritto a confrontarsi con l'altra
parte.
    A  tale  riguardo,  deve  peraltro  sottolinearsi  che sebbene la
genesi  storica  della modifica dell'art. 111 della Costituzione vada
sicuramente   ricondotta  alla  necessita'  di  rafforzare  i  poteri
processuali   dell'imputato,  non  puo'  tuttavia  dubitarsi  che  il
principio  del contraddittorio sia funzionale anche alla tutela delle
prerogative    processuali    del   pubblico   ministero   cui   deve
necessariamente  consentirsi  di  esplicare, in condizioni di parita'
con la difesa, ogni attivita' procedimentale finalizzata a soddisfare
gli   interessi   istituzionali   tipici   delta   propria   funzione
giudiziaria: il rappresentare l'accusa nel processo di cognizione, ma
anche,  in  ogni altro procedimento penale, l'esercizio del controllo
di  legalita'  sull'attivita'  del  giudice  ex art. 73 regio decreto
n. 12/1941  (a  mente  del  quale  «il pubblico ministero veglia alla
osservanza delle leggi»).
    Peraltro,   e  ad  ulteriore  conferma  delIindefettibilita'  del
contraddittorio,  giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente
sistema  processuale  sia  civile che penale prevede che la decisione
possa  essere  assunta senza contraddittorio (e' il caso, ad esempio,
dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale
di   condanna)   essa   decisione   viene   comunque   assunta   solo
provvisoriamente   fino   all'esito  dell'eventuale  procedimento  di
opposizione  nel corso del quale il contraddittorio verra' pienamente
reintegrato.
    A  questo  riguardo,  l'analisi  anche  sommaria del procedimento
delineato  dall'art.  16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come
il  contraddittorio  patisca un vulnus del tutto incompatibile con il
dettato costituzionale.
    E'  infatti evidente, che per un verso risulta violata l'esigenza
immanente  al profilo oggettivo del contradditorio, atteso che pur in
presenza  di un potere ex officio del magistrato di sorveglianza, non
rimane  comunque  soddisfatta l'esigenza di implementare - attraverso
la   prospettazione  delle  parti  -  l'acquisizione  degli  elementi
necessari  ai fini di una decisione piu' consapevole; per altro verso
e'   di   tutta   evidenza  come  il  profilo  soggettivo  non  venga
adeguatamente garantito.
    A  quest'ultimo  proposito, va infatti evidenziato che il comma 6
dell'art.  16,  limitandosi  a  prevedere  la  facolta'  di  adire il
tribunale  di  sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al
pubblico   ministero   di   esercitare  pienamente  quelle  attivita'
procedimentali   necessarie  ai  fini  del  perseguimento  delle  sue
attribuzioni   istituzionali,   in   particolare   del  controllo  di
legalita'.  Se  per  un  verso,  infatti,  il pubblico ministero puo'
interloquire  in  ordine alla legittimita' dell'espulsione davanti al
tribunale  di  sorveglianza  adito  dal  detenuto,  per  altro verso,
qualora il condannato non abbia nessun interesse all'impugnazione (ad
esempio  perche'  il  procedimento  ha  tratto  l'abbrivio da una sua
istanza),  il  pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di
intervento,  non  fosse altro in quanto non e' previsto alcun obbligo
di  comunicazione  alla  Procura  e  perche'  l'eventuale ricorso per
Cassazione  -  da  ritenersi  verosimilmente  ammissibile ex art. 113
della   Costituzione   vertendosi  in  materia  de  libertate  -  non
sospenderebbe l'esecutivita' del decreto, una volta decorsi i termini
di cui al comma 6.
    Consegue  alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il
magistrato   di   sorveglianza   espellesse  un  detenuto  condannato
all'ergastolo   non  vi  sarebbero  strumenti  processuali  idonei  a
consentire  al  pubblico  ministero  di esercitare tempestivamente il
controllo di legalita'. Con il che la violazione dell'art. 111, comma
1 e 2 della Costituzione deve ritenersi quantomeno non manifestamente
infondata.
    Per  quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra
potersi  sostenere  che,  non concernendo immediatamente il contenuto
della   decisione   dei   giudice   in  quanto  inerente  al  profilo
dell'eventuale reclamo del Pubblico ministero, essa sarebbe del tutto
irrilevante.
    Anche  a  prescindere  dai  fatto  che  il  concetto di rilevanza
accolto  in  alcune  pronunce  della  Corte  costituzionale  (cfr. ex
plurimis  sentenza  n. 148/1983)  afferisce  alta pertinenza dei dati
normativi   coinvolti  nella  decisione  de  qua  e  che  l'eventuale
accoglimento  della  questione  da  parte  della Consulta produrrebbe
sicuramente  i  suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente
procedimento  (cio'  che  induce  a ritenere sussistente la rilevanza
della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2
della  presente ordinanza), e' appena il caso, di sottolineare che il
momento   immediatamente  antecedente  rispetto  alla  decisione  del
magistrato  di  sorveglianza  appare  come il limite estremo oltre il
quale  la  questione potrebbe non essere piu' sollevabile, atteso che
sia  l'impugnazione  da  parte  del  detenuto  e sia, di riflesso, il
procedimento  di  secondo  grado  rappresentano  ovviamente  una mera
eventualita',  in  assenza della quale la lesione del contraddittorio
non potrebbe essere eccepita.
    4.  -  Per  le  ragioni piu' sopra esposte gli atti devono essere
inviati  alla  Corte  costituzionale  e  il  procedimento deve essere
sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.