ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 2 della legge
24 aprile  1998,  n. 128  (Disposizioni per l'adempimento di obblighi
derivanti  dalla  appartenenza  dell'Italia  alle comunita' europee -
Legge  comunitaria 1995-1997), e 13 del d.lgs. 16 luglio 1998, n. 295
(recte:  285)  (Attuazione  di  direttive  comunitarie  in materia di
classificazione,   imballaggio   ed   etichettatura   dei   preparati
pericolosi,  a  norma  dell'articolo 38  della  legge 24 aprile 1998,
n. 128),  promosso con ordinanza del 9 novembre 2001 dal Tribunale di
Venezia,  iscritta al n. 309 del registro ordinanze 2002 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 26, 1ª serie speciale,
dell'anno 2002.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  Zancanaro Pier Luigi nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  dell'11 febbraio  2003  il giudice
relatore Valerio Onida;
    Uditi  l'avvocato  Giuseppe  M.  Sacco  per  Zancanaro Pier Luigi
nonche'  l'avvocato  dello  Stato  Carlo  Sica  per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
    Ritenuto  che, con ordinanza emessa il 9 novembre 2001, pervenuta
a  questa Corte il 14 giugno 2002, il Tribunale penale di Venezia, in
composizione  monocratica,  ha  sollevato  questione  di legittimita'
costituzionale,  in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 76
della  Costituzione,  dell'art. 2,  comma 1,  lettera  c, della legge
24 aprile  1998,  n. 128  (Disposizioni per l'adempimento di obblighi
derivanti  dalla  appartenenza  dell'Italia  alle comunita' europee -
legge  comunitaria 1995-1997), e dell'art. 13 del decreto legislativo
16 luglio   1998,   n. 295  (recte:  285)  (Attuazione  di  direttive
comunitarie   in   materia   di   classificazione,   imballaggio   ed
etichettatura  dei  preparati  pericolosi,  a  norma dell'articolo 38
della legge 24 aprile 1998, n. 128);
        che il remittente premette di dover giudicare un imputato del
reato  previsto  e  punito  dall'art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998 -
immissione  sul  mercato  di preparati pericolosi in violazione delle
disposizioni  in  tema  di  imballaggio  e  di  etichettatura e delle
disposizioni  in  tema  di  classificazione  dei  preparati medesimi,
contenute  nel  medesimo  decreto  legislativo  o nelle norme da esso
richiamate  -,  e  afferma che tale norma delegata trova la sua fonte
nella delega di cui alla legge n. 128 del 1998, la quale, all'art. 2,
comma 1,  lettera  c,  detta  i  criteri  direttivi  generali  per la
determinazione   delle   sanzioni  penali  o  amministrative  per  le
infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi ivi previsti;
        che,  secondo  il  medesimo  remittente,  trattandosi  di  un
decreto legislativo delegato, il precetto penale dovrebbe «rispondere
a  criteri  di  rigore  analiticita'  e  chiarezza  al  fine  di  non
contrastare con il combinato disposto degli articoli 76 e 25, secondo
comma,  della  Costituzione»; mentre la disposizione denunciata della
legge  di  delega,  la'  dove  prevede  la  possibilita' di stabilire
sanzioni penali nei soli casi in cui le infrazioni ledano o espongano
a  pericolo  interessi  generali dell'ordinamento interno del tipo di
quelli  tutelati dagli articoli 34 e 35 della legge 24 novembre 1981,
n. 689, difetterebbe di tali presupposti;
        che,  infatti,  ad  avviso del giudice a quo, per «l'ampiezza
esorbitante delle materie» risultanti dalle citate disposizioni della
legge  n. 689  del  1981  (le  quali,  ai fini della esclusione dalla
depenalizzazione di reati, puniti con pene pecuniarie, previsti dalla
legislazione  preesistente, si riferiscono all'intero codice penale e
ad  un'amplissima  serie  di  ambiti),  nonche'  per  la  vaghezza  e
genericita'   del  dettato  normativo,  non  sarebbe  soddisfatta  la
necessita'  che  «il precetto penale delegato contenga determinazioni
chiare  e  certe»,  poiche'  il  riferimento  agli interessi generali
dell'ordinamento  individuati  in  base  a criteri ispiratori «troppo
ampi  e indeterminati» non consentirebbe di precisare quali siano gli
interessi  da  proteggere  ne' di individuare quali lesioni di questi
interessi meritino sanzione penale;
        che si e' costituito l'imputato nel giudizio a quo, chiedendo
l'accoglimento della questione;
        che,  secondo  la  parte  privata,  lo  strumento del decreto
delegato  non  sarebbe  idoneo  ad assolvere alla riserva assoluta di
legge  prevista  dall'art. 25  Cost.,  a  cio' ostando le esigenze di
certezza   proprie   della  fattispecie  incriminatrice,  nonche'  la
necessita'  che il diritto penale sia sorretto da una «legittimazione
democratica»    particolarmente   robusta,   assicurabile   solamente
attraverso il confronto parlamentare (imperativo reso particolarmente
acuto  dalla  proliferazione,  verificatasi a detta della parte negli
ultimi  anni, di interventi in campo penale condotti attraverso leggi
delega   di  iniziativa  governativa,  tra  le  quali  la  cd.  legge
comunitaria);
        che,   prosegue   la   parte,  in  casi  di  siffatta  natura
(attuazione  per mezzo di decreti delegati di direttive comunitarie),
il  cd.  deficit  democratico  da  cui  la comunita' sarebbe afflitta
verrebbe   ad   indebolire   ulteriormente  lo  spazio  partecipativo
assegnato al Parlamento e ad esaltare il ruolo dell'Esecutivo, atteso
che  «il  perno  dei  processi decisionali comunitari e' il Consiglio
dell'Unione   Europea»,   sicche',   in   tale  contesto,  la  delega
legislativa  non  potrebbe  divenire strumento «ordinario di politica
penale»  e  si imporrebbe, in ogni caso, un controllo particolarmente
rigoroso da parte del Parlamento nazionale nel corso del procedimento
di  legislazione  delegata,  tramite  la  formulazione  di stringenti
principi e criteri direttivi;
        che,  al  contrario, secondo la parte privata, l'art. 2 della
legge  delega,  rinviando  agli  artt. 34 e 35 della legge n. 689 del
1981,   ai   fini   della  scelta  tra  sanzione  penale  e  sanzione
amministrativa,  si  varrebbe  di una formula «vaga e controversa», e
comunque  troppo  ampia  per indirizzare adeguatamente l'attivita' di
legislazione  delegata (come la Corte avrebbe gia' rilevato tramite i
«moniti» svolti nelle sentenze n. 53 del 1997 e n. 49 del 1999);
        che,  «in  via  subordinata», qualora non si dovesse ritenere
fondata la censura proposta avverso la legge delega, ritiene la parte
che  il decreto delegato sia a sua volta incostituzionale per eccesso
di  delega, giacche' la direttiva comunitaria 88/379 avrebbe concesso
agli Stati la mera facolta' di esigere un'etichettatura dei preparati
in  lingua  nazionale: tale scelta sarebbe stata compiuta dal decreto
delegato  «autonomamente», in difetto di delega; inoltre, il presidio
penale introdotto dall'art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998, in caso di
omessa  etichettatura  in  lingua  italiana,  verrebbe  a tutelare un
interesse   estraneo   alle   finalita'  perseguite  dalla  direttiva
comunitaria,   le   quali   a  loro  volta  dovrebbero  orientare  il
legislatore nella definizione delle condotte che ledano o espongano a
pericolo beni meritevoli di protezione penale;
        che,  aggiunge  la parte privata, sfuggirebbe quale interesse
la norma incriminatrice venga a tutelare nel caso di specie: esso non
si  potrebbe  ravvisare  nel bene dell'ambiente, poiche' il preambolo
del d.lgs. n. 285 del 1998 premette che «in sede comunitaria non sono
stati  ancora  definiti, per i preparati pericolosi, i criteri per la
classificazione  relativa  al  rischio  per l'ambiente», sicche' «non
risult(erebbe) possibile emanare disposizioni in materia».
        che  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;
        che  la  difesa  erariale  osserva  che  l'art. 13 del d.lgs.
n. 285 del 1998 individua in modo «chiaro e puntuale» sia la condotta
incriminata,  sia la sanzione comminata; a sua volta, la legge delega
risponderebbe   a   quanto   imposto   dai  «principi  di  legalita',
tassativita'  e  specificita»,  poiche'  sarebbero  indicati  sia  il
criterio  cui  attenersi  nella scelta tra sanzione penale e sanzione
amministrativa,  sia  i  limiti  delle  pene,  sia  «il  criterio  di
comparazione con norme sanzionanti violazioni di interessi omogenei e
di pari offensivita» (atteso che l'art. 2 della legge n. 128 del 1998
prevede  il  ricorso  a sanzioni penali o amministrative «identiche a
quelle  eventualmente  gia'  comminate  dalle  leggi  vigenti  per le
violazioni  che  siano  omogenee e di pari offensivita' rispetto alle
infrazioni medesime»).
    Considerato che si deve preliminarmente correggere il riferimento
fatto  dal  remittente alla disposizione di legge delegante su cui si
fonda la norma del decreto delegato impugnata;
        che,  infatti, il d.lgs. n. 285 del 1998 non e' stato emanato
sulla  base della delega contenuta nell'art. 1 della legge n. 128 del
1998 - relativa all'attuazione di una serie di direttive comunitarie,
elencate  nell'allegato  A  alla  medesima legge, fra le quali non e'
compresa  la  direttiva  88/379/CEE  in  materia  di classificazione,
imballaggio  ed  etichettatura  dei  preparati  pericolosi - e per la
quale   erano   dettati   i   criteri  direttivi  generali  contenuti
nell'impugnato art. 2, comma 1, lettera c, della stessa legge; bensi'
e'  stato  adottato  sulla  base  dell'art. 38 della legge n. 128 del
1998, che delegava il Governo ad emanare, entro un termine autonomo e
piu'  breve di quello dell'art. 1, un decreto legislativo «recante, a
completamento  delle  disposizioni  emanate ai sensi dell'articolo 38
della  legge  6 febbraio  1996,  n. 52,  le  norme  necessarie a dare
integrale  ed  organica  attuazione  alla  direttiva  88/379/CEE  del
Consiglio  e  successive modificazioni», e stabiliva, per l'esercizio
di  tale  delega,  che  si  applicassero  «i  principi  ed  i criteri
direttivi previsti dall'articolo 38 della legge n. 52 del 1996»;
        che,  a sua volta, tale ultima disposizione dettava specifici
criteri  direttivi per l'attuazione della direttiva 92/32/CEE in tema
di  classificazione,  imballaggio  ed  etichettatura  delle  sostanze
pericolose,  che integravano (cfr. sentenza n. 49 del 1999) i criteri
generali  stabiliti  nell'art. 3  della  stessa legge n. 52 del 1996,
validi per l'attuazione delle direttive elencate nell'allegato A alla
medesima,  fra cui era compresa quest'ultima direttiva: criteri tutti
che  il  legislatore  delegante  del  1998  ha  evidentemente  inteso
estendere  all'attuazione  della  direttiva  88/379/CEE, e successive
modificazioni, in tema di preparati pericolosi;
        che,  peraltro,  il  tenore  del  criterio  di delega dettato
dall'art. 3,  comma 1, lettera c, della predetta legge n. 52 del 1996
e'  testualmente  identico  a quello dell'art. 2, comma 1, lettera c,
della legge n. 128 del 1998, cui fa riferimento il remittente;
        che,  pertanto,  e' a detto art. 3, comma 1, lettera c, della
legge  n. 52  del  1996,  unitamente al denunciato art. 13 del d.lgs.
n. 285 del 1998, che deve riferirsi la censura del remittente;
        che detta censura si appalesa pero' manifestamente infondata;
        che, infatti, essa confonde i requisiti di determinatezza che
deve  possedere  la  norma  incriminatrice,  allorquando  delinea  la
fattispecie   di   reato,   per  essere  conforme  all'art. 25  della
Costituzione,  al  fine  di  garantire  ai  destinatari la preventiva
conoscenza  di  quali  siano  le  condotte punite, con la sufficiente
determinazione   dei  principi  e  dei  criteri  direttivi  che  deve
rinvenirsi  nelle  leggi di delegazione per poterle ritenere conformi
all'art. 76 della Costituzione;
        che,   in   concreto,   la   norma  incriminatrice  contenuta
nell'art. 13  del d.lgs. n. 285 del 1998 determina in modo preciso le
condotte  sanzionate  penalmente,  e  dunque  non  contrasta  con  le
esigenze  che discendono dal principio costituzionale di legalita' in
materia di reati e di pene;
        che  -  una  volta  ammesso, come la giurisprudenza di questa
Corte  ha  sempre  ammesso  (cfr. sentenze n. 26 del 1966; n. 113 del
1972;  n. 282  del 1990), il ricorso alla delegazione legislativa per
l'introduzione  di nuove norme penali, sulla base della equiparazione
fra  legge  ed  atti aventi forza di legge ai fini del rispetto della
riserva di legge di cui all'art. 25 della Costituzione - dall'art. 76
della  Costituzione  discendono, da una parte, il vincolo della legge
delegata  ai  criteri direttivi della delega (vincolo il cui rispetto
non  e'  qui  messo in discussione, nella specie, dal giudice a quo),
nonche',  dall'altra  parte,  l'obbligo,  a  carico  del  legislatore
delegante,  di  definire  l'oggetto  della  delega  e  di indicarne i
principi  e  criteri  direttivi,  senza  lasciare il Governo delegato
libero  di  effettuare  qualsiasi  scelta,  ma  anche  senza  doverne
vincolare  tutte  le scelte concrete, restando invece affidate queste
ultime, nei limiti dei criteri direttivi, proprio al delegato;
        che  il  livello  di  specificazione  dei  principi e criteri
direttivi  puo'  in  concreto essere diverso da caso a caso, anche in
relazione  alle  caratteristiche  della materia e della disciplina su
cui  la  legge  delegata  incide, ma, in ogni modo, esso non ha a che
vedere  con le esigenze di determinatezza della norma incriminatrice,
nella specie soddisfatte dalla formulazione del decreto legislativo;
        che  il  criterio  di  delega  preso  in  considerazione  dal
remittente,  espresso con formule piu' volte adottate dal legislatore
nel delegare il Governo a dettare norme di attuazione delle direttive
comunitarie,  non  puo'  dirsi  tale  da  non rispondere ai requisiti
minimi  dell'art. 76  della  Costituzione,  ancorche',  per la grande
varieta'  degli  oggetti  della  delega,  concernente l'attuazione di
direttive  afferenti alle piu' diverse materie, tali formule rischino
di  risultare  di non facile interpretazione: donde l'invito, rivolto
da  questa Corte al legislatore (cfr. sentenze n. 53 del 1997 e n. 49
del  1999), in relazione a disposizioni di delega di siffatto tenore,
affinche' impieghi formule piu' precise;
        che,  in ogni caso, la legge di delega considerata delimitava
sufficientemente l'ambito delle scelte del Governo nell'impiego dello
strumento  penale,  sia definendo la specie e l'entita' massima delle
pene,  sia dettando il criterio, in se' restrittivo, del ricorso alla
sanzione  penale  solo  per  la  tutela  di interessi particolarmente
rilevanti,  analoghi a quelli che avevano indotto il legislatore, con
gli  articoli 34  e  35  della  legge  n. 689  del 1981, ad escludere
determinate  fattispecie  dalla  depenalizzazione (fattispecie che il
legislatore  del 1981 aveva individuato bensi' avendo riguardo ad una
pluralita'  di  testi  legislativi,  fra cui il codice penale, ma pur
sempre  con  riferimento  circoscritto  alle  ipotesi - astrattamente
riconducibili  all'oggetto  della  disposta depenalizzazione - per le
quali  nella  legislazione  preesistente  erano  previste  solo  pene
pecuniarie);
        che  non  puo'  essere  presa  in  considerazione  la censura
prospettata  «in  via  subordinata»  dalla  parte  privata  in ordine
all'art. 13  del  d.lgs.  n. 285 del 1998, che avrebbe ecceduto dalla
delega nell'individuare le fattispecie sanzionate penalmente, poiche'
tale  censura  e' estranea all'ordinanza di rimessione, che delimita,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'oggetto e l'ambito della
questione  di  legittimita'  costituzionale  (cfr.  ad  es. ordinanze
n. 464 del 1999; n. 44 del 2001; n. 219 del 2001).