ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso con ordinanza del 20 settembre 2002 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Fusco Antonio, con altri, e il Ministero dell'interno, iscritta al n. 532 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, 1ª serie speciale, dell'anno 2002. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2003 il giudice relatore Romano Vaccarella. Ritenuto che, a seguito del ricorso ai sensi dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), proposto dal Sindacato italiano appartenenti alla polizia (SIAP), nonche' dai dipendenti del Ministero dell'interno Antonio Fusco, ispettore di polizia, e Giampaolo Pavanello, vice ispettore di polizia, entrambi in servizio presso il VI reparto mobile di Genova, nei confronti dello stesso Ministero dell'interno, per denunciare quali comportamenti antisindacali i provvedimenti con i quali il Fusco e' stato trasferito alla Polfer di Genova (provvedimento comunicato il 17 aprile 2002) ed il Pavanello e' stato trasferito alla Questura di Genova (provvedimento comunicato il 23 aprile 2002), il giudice dell'adito Tribunale di Genova, con ordinanza del 20 settembre 2002, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione, dell'art. 63, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, anziche' al giudice amministrativo, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, pur quando si tratti di comportamenti lesivi anche di situazioni soggettive inerenti ai rapporti di impiego del personale in regime di diritto pubblico, previsti dall'art. 3 del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001; che, in punto di fatto, riferisce il rimettente che i ricorrenti hanno dedotto che i denunciati provvedimenti di trasferimento a carico dei predetti dipendenti, i quali ricoprono nel reparto di provenienza, rispettivamente, le cariche (il Fusco) di responsabile ed (il Ravanello) di segretario del SIAP, sommariamente motivati con il generico richiamo a «pressanti e inderogabili esigenze di servizio», sono illegittimi, perche' affetti dai seguenti vizi: a) mancata previa consultazione del sindacato SIAP, in violazione dell'art. 88, quarto comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), a norma del quale «i trasferimenti ad altre sedi di appartenenti alla Polizia di Stato che ricoprono cariche sindacali possono essere effettuati sentita l'organizzazione sindacale di appartenenza»; b) difetto di motivazione, in violazione dell'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi); c) inosservanza dei criteri di economicita' e di efficacia, in violazione dell'art. 1 della legge n. 241 del 1990; d) eccesso di potere, in quanto il vero scopo dei trasferimenti in questione e' l'allontanamento del Fusco e del Pavanello dal VI reparto mobile per impedire loro di svolgervi attivita' sindacale nell'espletamento delle rispettive cariche; e) eccesso di potere per carenza di istruttoria; f) eccesso di potere per contraddizione con precedenti manifestazioni di volonta'; g) violazione del principio del buon andamento; che, rileva il rimettente, i rapporti di lavoro del Fusco e del Pavanello, quali appartenenti alla Polizia di Stato, rientrano fra i rapporti di lavoro non «privatizzati», rimasti in regime di diritto pubblico, a norma dell'art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, riguardo ai quali l'art. 63, comma 4, del medesimo decreto legislativo stabilisce che le controversie relative restano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; che, in base alla prospettazione dei ricorrenti, i provvedimenti denunciati risultano, oltreche' pregiudizievoli per l'organizzazione sindacale, lesivi delle situazioni soggettive dei predetti dipendenti, laddove dei vizi dedotti solo alcuni, e precisamente quelli sub a) e d), attengono a profili di antisindacalita'; sicche' solo in relazione a tali vizi sussisterebbe la giurisdizione del giudice ordinario, in forza dell'art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, a tenore del quale «sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni»; che, viceversa, in ordine agli altri vizi dedotti, concernenti esclusivamente le posizioni soggettive del Fusco e del Pavanello, la giurisdizione spetterebbe al giudice amministrativo, in virtu' del comma 4 del medesimo articolo, sicche' andrebbe dichiarato - solo quanto alla controversia afferente ai predetti vizi - il difetto di giurisdizione del giudice ordinario; che il rimettente dubita della legittimita' costituzionale del richiamato art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto gli impone di conoscere del comportamento dell'amministrazione convenuta limitatamente alle censure di antisindacalita' mosse ai provvedimenti de quibus, pur essendo questi lesivi anche di situazioni soggettive inerenti a rapporti di impiego, che sotto ogni altro profilo ricadono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente sostiene che, a seguito dell'abrogazione - espressamente disposta dall'art. 4 della legge 11 aprile 2000, n. 83 (Modifiche e integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati) - del sesto comma dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970, gia' introdotto dall'art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge) - il quale disponeva che, qualora il comportamento antisindacale, posto in essere da una amministrazione statale o da altro ente pubblico non economico, «sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego», le organizzazioni sindacali legittimate, «ove intendano ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni, propongono ricorso davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio» -, la norma denunciata - peraltro meramente riproduttiva dell'art. 68, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come sostituito dall'art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) - ingloba nella giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie relative a comportamenti antisindacali «plurioffensivi», pure laddove si tratti di rapporti di lavoro non «privatizzati», ma rimasti in regime di diritto pubblico e, pertanto, comporta che, dovendosi riconoscere al singolo dipendente leso autonoma azione a tutela delle proprie posizioni individuali dinanzi al giudice amministrativo, possono insorgere «due controversie aventi il medesimo oggetto, vale a dire l'accertamento in via principale della illegittimita' dello stesso comportamento e per lo stesso vizio denunciato», le quali sono demandate a differenti giurisdizioni, cosi' determinandosi situazioni di possibile contrasto di giudicati, senza che siano previsti strumenti per prevenire siffatto grave inconveniente; che la irragionevolezza della disciplina comporterebbe la violazione dell'art. 3 della Costituzione; che la norma, inoltre, sarebbe in contrasto con l'art. 24 Cost., per il fatto che il dipendente (appartenente al personale in regime di diritto pubblico) sarebbe leso nel proprio diritto di difesa, essendogli precluso di interloquire nel procedimento promosso dall'organizzazione sindacale dinanzi al giudice ordinario ex art. 28 della legge n. 300 del 1970 e «diretto a decidere in via principale anche su di una posizione soggettiva del dipendente stesso», essendo un suo intervento in detto procedimento inammissibile, perche' volto a far valere una situazione soggettiva deducibile solo davanti al giudice amministrativo; che, infine, sarebbe violato il principio del giudice naturale, inteso quale giudice precostituito per legge, ex art. 25, primo comma, Cost., «poiche' la medesima controversia viene demandata a due differenti giurisdizioni a seconda del soggetto da cui e' presa l'iniziativa giudiziaria»; che, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, ai sensi del combinato disposto dei commi 3 e 4 dell'art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, egli dovrebbe ritenere la propria giurisdizione in ordine alla domanda proposta dall'organizzazione sindacale ricorrente (limitatamente ai motivi di censura indicati sub a) e d) del ricorso introduttivo), e dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in ordine alle domande proposte dal Fusco e dal Ravanello, laddove l'accoglimento della prospettata questione di legittimita' costituzionale avrebbe per conseguenza la dichiarazione di difetto di giurisdizione in ordine a tutte le domande; che e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, osservando che oggetto del giudizio ex art. 28 della legge n. 300 del 1970 e' una posizione giuridica soggettiva che appartiene esclusivamente al sindacato e non puo' confondersi con la posizione del singolo lavoratore, sicche' «l'eventuale estensione degli effetti della pronuncia del giudice del lavoro, a favore o contro i lavoratori offesi dal comportamento antisindacale, costituisce profilo afferente ai normali rapporti tra pronunce di giurisdizioni diverse», e che, peraltro, «l'intervento del lavoratore danneggiato dalla condotta antisindacale e' rimedio noto alla prassi giudiziaria e sembra idoneo a risolvere tutti i problemi di effettivita' della tutela e di coerenza nelle decisioni giurisdizionali in materia». Considerato che il Tribunale di Genova dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui non demanda alla cognizione del giudice amministrativo le controversie promosse dalle organizzazioni sindacali ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970 («Statuto dei lavoratori»), qualora il comportamento antisindacale dedotto sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti ai rapporti di impiego del personale in regime di diritto pubblico, previsti dall'art. 3 del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, e cio' in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 Cost.; che, se e' vero che il criterio di riparto della giurisdizione, introdotto dall'art. 6 della legge n. 146 del 1990 in epoca in cui sussisteva la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (criterio per il quale la giurisdizione spettava al giudice amministrativo ovvero al giudice ordinario secondo che con l'azione ex art. 28 della legge n. 300 del 1970 il sindacato avesse chiesto, o non, la rimozione degli effetti incidenti sul pubblico dipendente), era idoneo a razionalmente operare anche a seguito della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, dal momento che a tale «privatizzazione» erano sottratti i rapporti di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 80 del 1998 (oggi art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001), e' anche vero che l'espressa abrogazione - ad opera dell'art. 4 della legge n. 83 del 2000 - del comma primo del citato art. 6 della legge n. 146 del 1990 (che quel criterio aveva codificato) non fa sorgere questioni di legittimita' costituzionale, bensi' esclusivamente di interpretazione sistematica della norma denunciata; che, infatti, e' possibile sia a) un'interpretazione secondo la quale l'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, varrebbe a devolvere tuttora al giudice amministrativo tutte «le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'art. 3», e, quindi, anche l'azione ex art. 28 Stat. lav. che quei rapporti di lavoro coinvolga (sicche' l'abrogazione dell'art. 6, comma primo, della legge n. 146 del 1990, renderebbe esplicita l'abrogazione tacita prodotta dalla norma citata); sia b) un'interpretazione secondo la quale l'abrogazione del citato art. 6, comma primo, della legge n. 146 del 1990, comporterebbe in ogni caso la devoluzione al giudice ordinario dell'azione ex art. 28 Stat. lav. promossa dall'organizzazione sindacale, anche se tale azione incidesse, attraverso la richiesta di rimozione degli effetti del comportamento antisindacale, su rapporti di lavoro non «privatizzati», mentre il pubblico dipendente potrebbe far valere la sua situazione soggettiva individuale davanti al giudice amministrativo ex art. 63, comma 4, citato; che entrambe tali interpretazioni valgono a risolvere alla radice i problemi che il rimettente solleva quali questioni di legittimita' costituzionale, in quanto quella sub a) comporta il persistere della situazione preesistente alla legge n. 83 del 2000, ed in quanto quella sub b), alla quale il rimettente dichiara di aderire, implica o b1) una prevenzione del paventato conflitto di giudicati, attraverso il coordinamento, ex art. 295 del codice di procedura civile, dell'azione individuale con quella promossa dal sindacato, ovvero b2) la radicale negazione di ogni possibilita' di conflitto pratico di giudicati, riconoscendo la totale autonomia delle due azioni in quanto volte a tutelare distinte situazioni sostanziali; che, pertanto, del tutto insussistente e' la violazione dell'art. 25 Cost., cosi' come insussistente e' la lamentata irragionevolezza della disciplina (ex art. 3 Cost.) e la conseguente violazione del diritto di difesa del pubblico dipendente, in nessun caso distolto dal suo giudice naturale ed abilitato a far valere la sua situazione soggettiva davanti ad esso, o a) congiuntamente con il sindacato, o b1) giovandosi dell'accertamento favorevole da quest'ultimo ottenuto davanti all'autorita' giudiziaria ordinaria, ovvero, e comunque, prospettando (nel caso di accertamento sfavorevole al sindacato e nel caso di cui sub b2) sotto il profilo dell'eccesso di potere l'illegittimita' dell'atto asseritamene lesivo per la sua antisindacalita'; che, conseguentemente, la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal rimettente - sulla premessa che una dis»ciplina irragionevolmente inidonea a prevenire conflitti pratici di giudicati si risolva in una compressione del diritto di difesa ed in un'arbitraria individuazione del giudice munito di giurisdizione - e' manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.