IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento  ex  art. 310  c.p.p.  promosso  dal  difensore
nell'interesse  di  Mancuso  Diego  nato a Limbadi (Vibo Valentia) il
18 febbraio  1953;  detenuto  presso la casa circondariale di Pesaro;
assistito  e  difeso  dall'avv.  Vincenzo  Gennaro  del  foro di Vibo
Valentia;  con  atto  depositato  in  data  9  dicembre  2002 avverso
l'ordinanza  emessa  da  g.i.p. presso il Tribunale di Milano in data
3 dicembre   2002   con   la   quale  veniva  respinta  l'istanza  di
scarcerazione  per  decorrenza  del  termine  di  fase della custodia
cautelare  in  carcere  disposta  in  relazione  ai reati di cui agli
artt. 416,  commi  1,  2,  ultimo comma c.p., 7 legge 12 luglio 1991,
n. 203  (associazione  per delinquere finalizzata alla commissione di
una  serie  indeterminata  di  truffe  aggravate, accreditandosi come
persone legate alla cosca della «ndrangheta» dei «Mancuso» di Limbadi
e  prospettando  a  soggetti titolari di attivita' la possibilita' di
ricevere  cospicui  finanziamenti  previo  versamento,  a  titolo  di
anticipo,  di una cauzione da attribuire sia al costo dell'operazione
sia  come  contributo  alla  «ndrina»  dei  «Mancuso»  che offriva la
possibilita'  di  acquistare  denaro «sporco» verso corresponsione di
una  somma  inferiore,  costituendo la proposta di finanziamento e di
riciclaggio  del  denaro  l'artifizio  idoneo  a indurre in errore le
vittime  che,  ritenendo  di  aderire a un'operazione di riciclaggio,
anticipavano  la  somma  di  denaro richiesta, in particolare Mancuso
Diego  dirigendo l'associazione di cui era uno dei capi, approvandone
il  programma,  intervenendo  nei momenti decisivi di diversi episodi
criminosi  e  procedendo  alla  divisione  dei  proventi, su tutto il
territorio  nazionale nel periodo 1997-1998), 640, 61 n. 7, 110 c.p.,
7  legge  12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 180 milioni ai danni
di  Benedetto  Giuseppe,  in  Torino  nel marzo-luglio 1997), 640, 61
n. 7,  110  c.p.,  7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa ai danni di
Rahmani  Mohamed  Hassan  dal  quale si facevano consegnare titoli di
credito  per  lire  400  milioni  e  tappeti per lire 213 milioni, in
Firenze,  Genova, Torino dal settembre 1997 al dicembre 1997) 640, 61
n. 7,  110  c.p.,  7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa ai danni di
Danilo Miotto, dal quale si facevano consegnare un caterpillar per un
valore  di lire 110 milioni, in Sorianello nel febbraio 1998) 640, 61
n. 7,  110  c.p.,  7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 600
milioni  al  danni  di  Fustinoni  Claudio,  Magno  Luciana, Raimondi
Cominesi   Angelo,   in  Bergamo,  Galliate,  San  Giorgio  Canadese,
dall'aprile  al  novembre  1997),  640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12
luglio 1991, n. 203 (truffa di oltre lire 80 milioni e di gasolio per
un  controvalore di lire 120 milioni ai danni di Vincenzo Minardo, in
Nicotera,  Limbadi,  Villa San Giovanni, Gioia Tauro dall'agosto 1997
al  febbraio  1998),  640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12 luglio 1991,
n. 203 (truffa di diverse centinaia di milioni di lire in assegni, di
una  partita di macchinette per il caffe' espresso e di una procura a
vendere  un  immobile  del  valore di diverse centinaia di milioni di
lire  ai  danni  di  Cicchetti  Gabriele, in Cesano Maderno, Limbadi,
Ivrea  dall'agosto  1997  al  maggio 1998), 640, 61 n. 7, 110 c.p., 7
legge  12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 400 milioni ai danni di
Saffioti  Vincenzo,  in  Montecatini,  Torino  dal  dicembre  1997 al
febbraio  1998),  640,  61  n. 7,  110  c.p., 7 legge 12 luglio 1991,
n. 203  (truffa di lire 200 milioni ai danni di Giacominelli Romano e
Ricci  Dino, in Santhia', Roma, Carisio, Nicotera e Vibo Valentia dal
gennaio  1998  al  marzo  1998),  640,  61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12
luglio  1991, n. 203 (truffa di lire 35 milioni in titoli ai danni di
Ripepi  Paolo,  in  Genova  dall'agosto 1997 al dicembre 1997), tutti
reati   meglio  indicati  e  descritti  nell'impugnato  provvedimento
coercitivo ai capi 1, 6, 8, 10, 11, 12, 14, 15, 16 e 18;
    Letti   gli   atti   pervenuti  il  12 dicembre  2002;  all'esito
dell'udienza  camerale  odierna e sciogliendo la riserva ha emesso la
seguente ordinanza.
    Con  l'istanza  respinta  la  difesa chiedeva la scarcerazione di
Mancuso per decorrenza del termine di custodia cautelare previsto per
la fase delle indagini preliminari, posto che, a seguito del regresso
del  procedimento a detta fase (a seguito della sentenza dichiarativa
di  incompetenza  territoriale  emessa  in data 17 ottobre 2002 dalla
Corte  di  appello  di  Firenze),  risultava  trascorso il doppio del
predetto  termine  (atteso che Mancuso era stato arrestato per questi
fatti in data 12 gennaio 1999).
    Con  il  provvedimento  impugnato, il g.i.p. respingeva l'istanza
richiamandosi all'indirizzo interpretativo di cui alla sentenza della
Cassazione  a  sezioni  unite n. 4 del 29 febbraio 2000: sentenza che
aveva   precisato   come,   anche   a   seguito   del   provvedimento
interpretativo  di  rigetto  della Corte cost. n. 292/1998 (che aveva
stabilito  come  il  divieto di superamento del doppio dei termini di
fase  dovesse  applicarsi in ogni caso di regresso del procedimento a
una  fase precedente), ai fini del calcolo relativo alla verifica del
superamento  del  doppio  dei  termini  di  fase in caso di regresso,
occorresse  calcolare  i  soli  periodi  relativi  a  fasi  omogenee.
Aggiungeva  poi il g.i.p. che, dalla stessa successiva sentenza della
Cassazione  a  sezioni  unite in data 10 luglio 2002 (con la quale la
questione era stata nuovamente rimessa alla Corte costituzionale), si
evinceva come il cumulo di tutti i periodi di custodia anche relativi
a   fasi   eterogenee,  non  fosse  il  metodo  di  calcolo  previsto
dall'art. 304, comma 6 c.p.p.
    Con  l'atto  di  appello  la  difesa richiamava e ripercorreva le
considerazioni  di cui all'ordinanza n. 529 15-22 novembre 2000 della
Corte costituzionale, che aveva precisato come il principio enunciato
dalle sezioni unite con la citata sentenza n. 4/2000 non fosse quello
stabilito  dalla  Corte  costituzionale nella sentenza n. 292/1998 ed
occorresse  quindi  tenere  conto  anche  dei periodi relativi a fasi
eterogenee   rispetto   a   quella   nella  quale  era  regredito  il
procedimento.
    Aggiungeva  poi il difensore che, anche in attesa della decisione
sulla  nuova  rimessione della questione alla Corte costituzionale da
parte  delle  sezioni  unite,  criterio  logico avrebbe voluto che si
fosse  optato  per  una  interpretazione  che  non  fosse a danno del
detenuto.
    Insisteva quindi per la scarcerazione di Mancuso.
    In  udienza  la  difesa  illustrava  anche  oralmente i motivi di
appello e insisteva per l'accoglimento delle precisate conclusioni.
    Questo  tribunale ritiene che debba essere sollevata questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 303,  comma  2 c.p.p. - nella
parte  in  cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di
fase  determinati  dal  successivo  art. 304,  comma  6, i periodi di
detenzione  sofferti  in  una fase o in un grado diversi da quelli in
cui il procedimento e' regredito - e che conseguentemente il presente
procedimento   incidentale  debba  essere  sospeso  in  attesa  della
decisione  della  Corte  costituzionale,  ferma  restando  la  misura
cautelare in atto.
    Invero,  la  lettura  delle  norme  adottata dal g.i.p. presso il
Tribunale   di   Milano   nel  provvedimento  impugnato  in  adesione
all'indirizzo   interpretativo   della   nota   sentenza  Cass.  sez.
un. n. 4/2000  -  secondo  cui  la  disposizione di cui all'art. 304,
comma  6  c.p.p. (contenente il divieto di superamento del doppio del
termine  di fase) non poteva applicarsi fuori dai casi di sospensione
dei  termini  massimi  di  custodia cautelare, come esplicitato dalla
sedes   materiae   e  dal  fatto  che  l'avverbio  «comunque»  doveva
interpretarsi  come  «nonostante  le  sospensioni  previste dai commi
precedenti»  -  pur  aderente all'indirizzo interpretativo che si era
tradizionalmente   e   pressoche'  unanimemente  affermato  (cfr.  ex
plurimis  Cass.  sez.  V n. 5057, 14 gennaio 1997 Cavallo, RV 206573;
Cass.  sez. I n. 4301 28 settembre 1998 Accardo RV 211413; Cass. sez.
I  n. 2120 23 giugno 1992 Mamare RV 191169), non tiene tuttavia conto
della   sentenza   n. 292/1998  della  Corte  costituzionale  che  ha
dichiarato    l'infondatezza    della   questione   di   legittimita'
costituzionale   dell'art. 303,   comma   4   c.p.p.  in  riferimento
all'art. 3  Cost.  nella  parte  in  cui  non  prevede  che, oltre al
superamento   del   termine   complessivo,   possa  essere  causa  di
scarcerazione  anche  il  superamento del doppio del termine di fase,
allorche'  si  verifichi  la  regressione  del  procedimento  a norma
dell'art. 303,  comma 2 c.p.p. («a seguito di annullamento con rinvio
da  parte della Corte di Cassazione o per altra causa» e quindi anche
nel   caso,   come  quello  di  specie,  di  regresso  a  seguito  di
dichiarazione  di  incompetenza territoriale) e di tutta l'evoluzione
giurisprudenziale  a  cio'  seguita, non esauritasi dopo la pronuncia
della sentenza Musitano.
    Sintetizzando  brevemente  i  termini  della  questione,  occorre
osservare   che,   con   la  citata  sentenza  n. 292/1998  la  Corte
costituzionale ha sostenuto che la norma di cui all'art. 304, comma 6
cit.,  in  punto  di  scarcerazione dell'imputato per superamento del
doppio  del  termine  di  fase,  ha carattere autonomo, rispetto alle
altre  disposizioni  di  cui  all'art. 304,  e  deve  pertanto essere
applicata  sia  nel  caso  in  cui  quel  termine sia stato sospeso o
prorogato  (art. 304, commi 1, 2 e 4), sia nel caso in cui il termine
sia  cominciato  a  decorrere nuovamente a seguito di regressione del
procedimento  (art. 303, comma 2). Cio', argomentava il giudice delle
leggi,  doveva  ricavarsi dal fatto che nel previgente codice di rito
il  tetto  massimo  della  custodia  cautelare  era  disciplinato  in
un'unica   norma   (l'art. 272),   insieme   alla   regressione   del
procedimento  e  alla  sospensione dei termini di fase, cosi' che non
poteva  esservi  dubbio  che  esso si riferisse anche alle ipotesi di
regressione e non solo a quelle di sospensione. Anche nel nuovo testo
l'avverbio  «comunque»  risultava  significativo della generalita' di
applicazione  del  divieto  di  superamento del doppio del termine di
fase, quindi anche alle ipotesi di regressione previste nell'articolo
precedente.  Tale soluzione ermeneutica doveva poi ritenersi conforme
al  principio  del favor libertatis che aveva ispirato la novella del
1995  e  alla  logica dell'art. 13 Cost., che non potevano incontrare
limiti  nei  casi, quali quello del regresso del procedimento, in cui
il  ritardo  nella  definizione  del  procedimento  non  dipendeva da
comportamenti colpevoli dell'imputato.
    Detta  sentenza  era  stata  criticata e ritenuta non convincente
sotto  piu'  profili,  in  quanto  proprio l'evoluzione storica della
normativa  (che  aveva  contemplato  un  termine  massimo complessivo
nell'art. 303   c.p.p.,  ove  era  disciplinato  anche  il  caso  del
regresso,  mentre  aveva  stabilito  il  divieto  del superamento del
doppio  del  termine  di  fase  in  altra  disposizione,  l'art. 304,
concernente  la  sospensione dei termini) dimostrava come la norma di
cui  all'art. 304, comma 6 si riferisse ai soli casi di sospensione e
non  fosse  quindi  applicabile  al  di  fuori  della sede che le era
propria,   l'avverbio   «comunque»  dovendosi  interpretare  come  un
riferimento  alla  sussistenza del divieto nonostante la possibilita'
di   sospendere.   Al   contrario,   l'esegesi  seguita  dalla  Corte
costituzionale  nella  citata sentenza, non consentiva di spiegare le
ragioni  per  le quali l'art. 303, comma 2 disponesse che, in caso di
regressione  del  procedimento,  i  termini  decorressero  «di nuovo»
«dalla  data  del  provvedimento che dispone il regresso o il rinvio»
«relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento», a conferma
di   come   la   soluzione   ermeneutica   del  giudice  delle  leggi
contraddicesse  la lettera della norma e il sistema codicistico cosi'
come risultante dalla nuova formulazione legislativa.
    Pertanto,  accanto  a decisioni che avevano integralmente aderito
alla  linea  interpretativa della sentenza della Corte costituzionale
(cfr.  Cass.  sez. VI 9 luglio 1999, Latella RV 214680; Cass. sez. VI
16 giugno 1999 Piscopo RV 214737), si trovavano altre sentenze in cui
si era profilato un diverso orientamento del giudice di legittimita',
che faceva leva sul limitato effetto vincolante della decisione della
Corte  e  proponeva  pertanto un diverso insegnamento. Risulta invero
fuor   di   dubbio   che   la  citata  sentenza  n. 292/1998  dovesse
qualificarsi  come sentenza interpretativa di rigetto, trattandosi di
sentenza  che  non  aveva dichiarato l'illegittimita' della norma, ma
aveva  solamente ritenuto infondata la questione di costituzionalita'
proposta  per  la  presenza di una ulteriore soluzione interpretativa
dell'enunciato   normativo  sospettato  di  illegittimita',  tale  da
ritenersi compatibile con la nostra Carta costituzionale.
    E'   noto   infatti   come,  a  seguito  di  un  lungo  dibattito
giurisprudenziale,  si  sia affermata la tesi, da ritenersi del tutto
convincente,  secondo cui le sentenze interpretative di rigetto della
Corte  costituzionale  hanno  valore  vincolante solo nel giudizio «a
quo»,   mentre   nell'ambito  di  giudizi  diversi  costituiscono  un
precedente   autorevole   dal   quale   peraltro  i  giudici  possono
discostarsi   purche'  optino  per  una  soluzione  ermeneutica  che,
ancorche'  non  coincidente  con  quella  proposta  dalla Corte, cio'
nondimeno  debba  ritenersi  non collidente con le norme e i principi
costituzionali affermati. In caso contrario, al giudice che ritenesse
non  convincente  la  soluzione  interpretativa  proposta dalla Corte
costituzionale e che non rinvenisse altra interpretazione conforme ai
principi   costituzionali   enunciati   dalla   Corte  medesima,  non
resterebbe  che  riproporre il quesito di costituzionalita' in ordine
alle  norme controverse (cfr. Cass. sez. un. 29 gennaio 1996, Clarke;
Cass. sez. un. 24 settembre 1998, Gallieri; Cass. sez. un. 18 gennaio
1999, Alagni).
    Proprio  in  detta linea si e' inserita la citata decisione delle
sezioni  unite  della Cassazione n. 4 del 29 febbraio 2000, Musitano,
che  ha  precisato  come l'art. 303, comma 2 costituisca applicazione
del   principio   di  autonomia  dei  singoli  termini  di  fase,  in
conformita'   alla   previsione   di   cui   alla  direttiva  di  cui
all'art. n. 61  della  legge  delega per l'approvazione del codice di
procedura   penale,   cosi'   che,   pur  non  potendosi  prescindere
dall'affermazione  della  Corte costituzionale secondo cui il divieto
del  superamento del doppio dei termini di fase deve applicarsi anche
ai  casi  di regresso del procedimento prescindendo dalla sospensione
dei  termini,  cio'  nondimeno  ai  fini  del  calcolo del doppio del
termine  di fase devono computarsi i soli periodi relativi a fasi tra
loro  omogenee  (in  cio'  concretandosi  la  predetta  autonomia dei
termini di fase) e non anche tutti gli intervalli di tempo relativi a
fasi diverse da quelle in cui il procedimento e' regredito.
      Dopo  l'intervento delle Sezioni unite, la Corte costituzionale
e'  stata  chiamata  a  pronunciarsi  nuovamente sulla questione e ha
ribadito  nuovamente  l'infondatezza  della questione di legittimita'
costituzionale, confutando nel contempo la tesi seguita dalle sezioni
unite  della  Cassazione in tema di computo dei soli termini omogenei
ai  fini  del  calcolo  per  il superamento del doppio dei termini di
fase:  il  giudice  delle leggi ha infatti rimarcato come la sentenza
n. 292/1998  concernesse  proprio il caso di imputato per il quale il
superamento del doppio del termine si era determinato in relazione al
decorso  temporale  in fasi eterogenee (cfr. Corte cost. n. 429/1999,
n. 214/2000 e n. 529/2000).
    Cio'  ha  provocato  un  nuovo contrasto interpretativo in merito
alla  questione  se  dovesse  calcolarsi, ai fini del superamento del
doppio  dei termini di fase, solo il periodo di custodia trascorso in
relazione  a  fasi  tra  loro  omogenee, ovvero anche in relazione al
tempo  trascorso  in  fasi  eterogenee,  questione sulla quale veniva
chiamata a pronunciarsi nuovamente la Cassazione a sezioni unite.
    Con ordinanza 10 luglio 2002, n. 28 (depositata in data 25 luglio
2002)  le  sezioni  unite  sollevavano  questione  di  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 303,  comma  2  c.p.p.  in  relazione  agli
artt. 3  e  13  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  la norma
processuale  citata  impedisce  di  computare,  ai  fini  dei termini
massimi  di  fase  determinati  dal  successivo  art. 304,  comma 6 i
periodi  di  detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli   in   cui   il   procedimento   e'  regredito,  questione  di
illegittimita' sulla quale non risulta che la Corte costituzionale si
sia ancora pronunciata.
    Con  detta  ordinanza il supremo collegio osservava che il metodo
di  calcolo proposto con la sentenza Musitano risulta coerente con la
lettera   dell'art. 302,  comma  2  c.p.p.  (secondo  cui  i  termini
decorrono  «di  nuovo»  a seguito del regresso, escludendo quindi che
nel  frattempo  siano  continuati  a  decorrere)  e con la concezione
definita  «monofasica»  o  «endofasica»  dell'impianto codicistico in
materia  di  termini  di  custodia cautelare, come puo' rilevarsi dal
fatto che il codice conosce solo la distinzione tra termine di fase e
termine  complessivo  (riguardante  cioe'  tutte  le fasi), mentre in
nessun  luogo viene in considerazione il periodo «interfasico», cosi'
che la fictio iuris giustificativa di un indifferenziato inglobamento
delle  fasi  intermedie  tra  quella  originaria  e  quella in cui il
procedimento e' regredito risulta priva di base normativa.
    Lo  stesso  metodo di calcolo della sentenza Musitano risulta poi
rispettoso  del principio di proporzionalita' del termine di custodia
cautelare,  posto  che  questo non va riferito alla sola gravita' del
reato  ma deve altresi' essere ancorato alla ragionevole durata delle
attivita'  previste  nella  singola  fase,  cosi'  che  la durata del
relativo termine risulta discrezionalmente fissata anche in relazione
alla  fase del procedimento avuto riguardo alle attivita' da compiere
in  questo, con la conseguenza che il calcolo di intervalli temporali
propri  di  fasi  eterogenee,  al fine del superamento del doppio del
termine  stabilito  per  una determinata fase, risulterebbe del tutto
arbitrario  e  sganciato  dai  predetti  canoni di proporzionalita' e
ragionevolezza.
    Ne',  secondo  il supremo collegio, sarebbe ragionevole addossare
all'autorita'  il  rischio  dell'invalidita' del passaggio di fase in
quanto  non dovuto a comportamento colpevole dell'imputato, posto che
la   lettura   dell'art. 304   comma   6   effettuata   dalla   Corte
costituzionale  accomuna  indifferentemente  l'ipotesi di regressione
incolpevole  ex  art. 303,  comma 2, a quella di evasione (certamente
colpevole ex art. 303 comma 3), conclusione necessitata dal fatto che
il  citato comma 6 dell'art. 304 richiama sia il comma 2 sia il comma
3 del codice di rito.
    Allontanarsi  dal  criterio  di  calcolo  indicato dalla sentenza
Musitano  risulterebbe pertanto foriero di ulteriori irrazionalita' e
contraddizioni del sistema.
      Quanto  poi  al  principio del minimo sacrificio della liberta'
personale,  l'esperienza  successiva al pronunciamento della sentenza
Musitano ha dimostrato come il calcolo dei termini «interfase» ovvero
il solo calcolo dei termini «omogenei» (quelli della sola fase in cui
il  procedimento  e'  regredito,  prima  della  regressione e dopo la
regressione),  non  siano  di  per  se  stessi e in astratto uno piu'
favorevole  e l'altro meno favorevole all'imputato: basti pensare che
gli  imputati  di  cui  alle sentenze Cass. sez. VI n. 5874 23 maggio
2001,  Martinelli e Cass. sez. I n. 42794 28 novembre 2001 Schiavone,
non  erano  stati  scarcerati  proprio  perche'  l'intera  detenzione
antecedente  al  regresso  era  stata  imputata  alla  fase in cui il
procedimento   era  regredito,  mentre  sarebbero  stati  rimessi  in
liberta' se si fosse seguito il sistema Musitano.
    Per  queste  ragioni  doveva  ritenersi che la soluzione proposta
dalla  sentenza Musitano, pur diversa da quella proposta dalla Corte,
fosse stata ritenuta rispettosa dei principi di cui agli artt. 3 e 13
della Costituzione.
    Tale  conclusione,  osservavano  le  sezioni unite nell'ordinanza
10 luglio  2002  citata, non poteva peraltro riaffermarsi oggi, posto
che  la  Corte  costituzionale con la citata ordinanza n. 529/2000 ha
espressamente  chiarito  che il cumulo di tutti i periodi di custodia
cautelare  anche  relativi  a fasi eterogenee fosse l'unico metodo di
calcolo  coerente con l'art. 13 Cost. che impone di ridurre al minimo
il sacrificio della liberta' personale.
    D'altro  canto,  osservavano  sempre le sezioni unite l'art. 303,
comma  2  cosi'  come  redatto  esprime  una  norma  che impedisce di
addizionare,  ai fini del superamento del doppio del termine di fase,
anche  gli  intervalli temporali decorsi in fasi eterogenee, cio' per
le  ragioni  gia'  sopra  indicate,  rispetto  alle  quali la recente
modifica dell'art. 303 non consente di discostarsi. In particolare le
ultime modifiche di cui alle leggi 5 giugno 2000, n. 144 e 19 gennaio
2001, n. 4, non hanno toccato il comma discusso (il secondo) e l'aver
consentito   la   legge   n. 4/2001,   in   casi   eccezionali,   una
interconnessione  tra  le fasi, deve ritenersi viceversa confermativa
del  principio  generale  dell'autonomia dei termini di fase, che non
puo'  essere  derogato  se  non da espresse disposizioni legislative,
mancanti in punto di superamento del doppio del termine di fase.
    Mancando  quindi  qualsiasi soluzione alternativa compatibile con
la  Costituzione  e  non potendosi ritenere in via interpretativa che
l'art. 303,  comma  2  c.p.p.  consenta il calcolo di termini di fase
eterogenei,  le  sezioni  unite  hanno  quindi sollevato questione di
costituzionalita' nei termini prima ricordati.
    La medesima questione si pone negli esatti termini anche nel caso
di  specie,  posto che calcolando i soli termini omogenei (secondo il
metodo  della  sentenza  Musitano), Mancuso Diego non dovrebbe essere
scarcerato,  cosa che dovrebbe invece avvenire se si calcolasse anche
il periodo di tempo interfase.
    D'altro  canto,  per  le  ragioni  sopra  viste,  questo collegio
ritiene  che  l'art. 303,  comma  2 c.p.p., cosi' come formulato, non
consenta  il  calcolo  di  termini relativi a fasi eterogenee ai fini
della  verifica  del  superamento  del  doppio del termine, metodo di
calcolo  gia'  indicato dalla corte come unico in grado di assicurare
il rispetto degli artt. 3 e 13 della Costituzione.
    Ne'  si  vede  a quale logica possa attenersi il giudice se non a
quella  imposta  dalle  norme  e  dagli  strumenti  che l'ordinamento
prevede   nel  caso  in  cui  si  ritenga  non  sussistano  soluzioni
ermeneutiche  alternative  a quelle considerate incostituzionali e la
norma da applicare presenti pertanto profili di illegittimita'.
    Il  g.i.p.,  pur citando il provvedimento delle sezioni unite che
ha  rimesso nuovamente la questione di costituzionalita' ha omesso di
prenderne  in  esame  le  ragioni  e  di trarne le uniche conseguenze
consentite,  alle  quali deve pertanto provvedere questo tribunale in
sede di appello ex art. 310 c.p.p.
    Infatti,  poiche'  la  decisione  del  presente  appello non puo'
prescindere   dalla   decisione   sulla   questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 303,  comma  2 citato, per tutte le ragioni
sopra indicate risulta rilevante e non manifestamente infondata detta
questione  in  relazione  agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella
parte  in  cui  l'art. 303,  comma  2  del codice di procedura penale
impedisce   di  computare,  ai  tini  dei  termini  massimi  di  fase
determinati  dal successivo art. 304, comma 6 i periodi di detenzione
sofferti  in  una  fase  o  in  un  grado diversi da quelli in cui il
procedimento e' regredito.
    Il  presente procedimento incidentale va quindi sospeso in attesa
della  decisione  della Corte ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87
del 1953, ferma restando la misura cautelare in atto, mandandosi alla
cancelleria  per  gli adempimenti previsti dalla medesima legge n. 87
del 1953.