IL TRIBUNALE

    Alla pubblica udienza del 6 marzo 2003 ha pronunciato la seguente
ordinanza  nella  causa  penale  contro  Luongo  Giuseppe, nato il 14
agosto  1967  a Torino, elettivamente domiciliato in Grugliasco (TO),
via  San  Gregorio  Magno,  21,  difeso  di fiducia dall'avv. Giacomo
Gribaudi  del  foro di Torino, libero presente, imputato del reato di
cui  all'art.  590, primo e terzo comma, c.p., commesso in Grugliasco
il 19 marzo 2001. Con la presenza della parte civile Gaglioti Rosina,
costituita  in  giudizio con il patrocinio dell'avv. Ercole Cappuccio
del foro di Torino.
    Con  atto  di  querela  in  data  21  marzo  2001 Gaglioti Rosina
chiedeva  procedersi  penalmente nei confronti di Luongo Giuseppe per
il delitto di lesioni personali colpose aggravate, in relazione ad un
sinistro stradale verificatosi in Grugliasco due giorni prima.
    Concluse  le  indagini  preliminari,  il p.m. esercitava l'azione
penale  nei  confronti  del  Luongo  con citazione diretta in data 24
settembre 2001.
    All'udienza dibattimentale del 25 gennaio 2002 Gaglioti Rosina si
costituiva parte civile nei confronti dell'imputato.
    All'udienza  del  12  aprile  2002 venivano ammesse ed assunte le
prove  documentali  e  orali.  Rinviando  alla lettura del verbale di
causa,   e'  qui  sufficiente  sintetizzare  come,  secondo  i  testi
d'accusa,  l'imputato  avrebbe tamponato l'autovettura della Gaglioti
mentre  costei  procedeva a bassissima velocita', essendo in procinto
di posteggiare l'auto sul margine sinistro della pubblica via; l'urto
sarebbe stato cagionato, sempre stando alle prove d'accusa, dalla non
sufficientemente  moderata  velocita'  con  cui  il Luongo si sarebbe
immesso  nella  via  percorsa  dalla  Gaglioti, nel medesimo senso di
marcia, provenendo da una perpendicolare.
    Esaminati  anche  l'imputato  ed  i  testi a difesa, l'udienza e'
stata rinviata all'odierna udienza per la discussione finale.
    In  esito  alla discussione delle parti questo giudice ritiene di
dover sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale di
alcune  norme,  norme  contenute nell'art. 34, d.lgs. n. 274/2000, le
quali  delineano,  accanto alle possibilita' definitorie del processo
di  cui  agli  artt. 529  -  533  c.p.p.,  una nuova ed ulteriore via
tramite  cui  questo  giudice potrebbe pervenire alla definizione del
procedimento:  la declaratoria di esclusione della procedibilita' per
c.d. «particolare tenuita' del fatto».
A) In ordine alla rilevanza.
    In esito all'espletata istruttoria dibattimentale e' emerso che:
        il  danno  cagionato  dal  reato, vale a dire l'entita' delle
lesioni  sofferte  dalla  persona  offesa  in  conseguenza dell'urto,
sembra  essere di particolare tenuita': e' assai significativo che la
stessa  parte lesa, sentita in udienza, abbia completamente omesso di
menzionare il modesto «colpo di frusta» giudicato guaribile in giorni
sette  dai sanitari che la visitarono (cfr. referto medico in atti) e
che  costituisce  l'unica lesione per cui si procede, e si sia invece
soffermata  solo  sulle preoccupazioni che ebbe a nutrire per il feto
che portava in grembo (preoccupazioni peraltro escluse dai sanitari);
        l'occasionalita'  del  fatto  dovrebbe evincersi dalla stessa
natura  colposa  del reato per cui si procede, considerata unitamente
all'incensuratezza dell'imputato;
        il  grado  della  colpa  (ove la si dovesse ritenere provata,
cio'  su cui non e' lecito fare anticipazioni) e' minimo, considerato
che   lo   stesso   capo   d'imputazione   non  individua  violazioni
particolarmente   gravi   di   norme  disciplinanti  la  circolazione
stradale,  ma  addebita  al  Luongo  semplicemente di aver tenuto una
velocita'   non   sufficientemente   contenuta   in   relazione  alle
circostanze  di  luogo.  Peraltro la sostanziale inesistenza di danni
materiali  ai veicoli coinvolti (la Passat dell'imputato riporto' uno
striscio  sul paraurti anteriore, mentre dal paraurti della Renault 5
della  parte civile cadde un pezzo di plastica che fu rimesso a posto
dal marito della stessa) e' indicativa di un eccesso di velocita' che
(ove  pure sia stato effettivamente sussistente) fu in concreto assai
modesto;
        non   si   dubita,   infine,   che   l'ulteriore   corso  del
procedimento,  anche  in  eventuali  successivi  gradi  di  giudizio,
arrecherebbe  pregiudizio  alle esigenze di lavoro dell'imputato, che
risulta occupato come operaio (cfr. cert. anagrafico in atti).
    Sembrerebbero percio' sussistere, almeno ad un primo esame, tutte
le  condizioni previste dall'art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274
per  la  pronuncia  di  una  sentenza dichiarativa della «particolare
tenuita' del fatto» con conseguente esclusione della procedibilita'.
    La   citata   disposizione,  prevista  in  via  generale  per  il
procedimento  penale  avanti al giudice di pace, e' applicabile anche
da  parte  questo  giudice  in  virtu' della norma transitoria di cui
all'art.  63,  d.lgs. n. 274/2000, che espressamente indica l'art. 34
dello  stesso  decreto  fra  le norme applicabili da parte di giudici
diversi dal giudice di pace qualora si trovino a giudicare di uno dei
reati  attribuiti  alla  competenza  del giudice di pace (tra i quali
rientra   il  delitto  di  lesioni  colpose  conseguenti  a  sinistro
stradale).
    Questo   giudice   dubita   pero'   di  poter  dare  in  concreto
applicazione   alle   disposizioni   di   cui   all'art.  34,  d.lgs.
n. 274/2000,   apparendo   non   infondati  i  seguenti  sospetti  di
incostituzionalita'.
B) In ordine alla non manifesta infondatezza.
    1. - Violazione dell'art. 76 Cost.
    L'art  34  del  d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 («Disposizioni sulla
competenza  penale  del  giudice  di  pace»)  trova il suo fondamento
nell'art.  17, lett. f), della legge 24 novembre 1999 n. 468, che nel
delegare  il  Governo ad emanare un decreto legislativo in materia di
competenza  penale  del giudice di pace ha previsto in particolare la
«introduzione  di  un  meccanismo di definizione del procedimento nei
casi  di  particolare  tenuita'  del  fatto e di occasionalita' della
condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento puo' pregiudicare
le  esigenze  di  lavoro,  di  studio,  di famiglia e di salute della
persona sottoposta ad indagini o dell'imputato».
    Ad  avviso  di  questo  giudice  il  legislatore  delegante,  nel
prevedere  un  nuovo  «meccanismo  di  definizione del procedimento»,
aveva  inteso introdurre un rito semplificato in relazione a fatti di
particolare  tenuita' per i quali appariva eccessivamente dispendioso
percorrere   l'iter   dibattimentale,   inevitabilmente  complesso  e
potenzialmente  confliggente  con  le  esigenze lavorative, di studio
ecc. dell'imputato.
    Dal  punto  di  vista dell'interpretazione meramente letterale va
osservato  che  il  termine  «definizione»,  nell'uso  comune e nella
prassi  giudiziaria,  sta  ad  indicare ogni e qualsiasi modalita' di
conclusione  di  un  grado  del  procedimento,  dalla declatatoria di
improcedibilita' fino alla condanna.
    Tale interpretazione letterale sembra trovare altresi' fondamento
in  una  lettura  sistematica  della  legge n. 468/1999, la quale non
prevede  -  se  si  esclude  la disposizione dell'art. 17, lett. f) -
alcun   meccanismo   definitorio   diverso   dalla  celebrazione  del
dibattimento.  In  altre  parole, mentre il processo penale avanti al
giudice  togato  consta  di un'ampia gamma di riti alternativi, tutti
finalizzati  al  risparmio  di  tempo  e  risorse, il processo penale
avanti   al   giudice  di  pace  presenterebbe  la  stortura  di  non
contemplare  alcuno  di  tali  riti  deflattivi,  con l'irragionevole
risultato  di  costringere  le  parti  a  percorrere  fino  in  fondo
l'accidentata  via dibattimentale proprio per reati di scarso allarme
sociale.
    L'esempio  piu'  evidente di questa stortura e' rappresentato dai
numerosi  reati  contravvenzionali  attribuiti  alla  competenza  del
giudice  di pace, per i quali non e' piu' prevista la possibilita' di
concludere  il  procedimento  con  l'emissione  del decreto penale di
condanna.  In questa linea pare assai significativo osservare che nel
processo  penale minorile, in cui la c.d. «irrilevanza del fatto» da'
sicuramente  luogo  all'adozione  di  una  «sentenza  di  non luogo a
procedere»  (art. 27, d.P.R. 448/1988), restano invece praticabili la
maggior  parte  de  riti  alternativi:  cosi'  dicasi per il giudizio
abbreviato, il giudizio direttissimo ed il giudizio per decreto (cfr.
art. 25 decreto cit.).
    Per tornare al giudice di pace, ecco allora che ove si interpreti
l'art.  17,  lett.  f),  della  legge delega n. 468/1999 nel senso di
delegare al Governo la previsione di un rito semplificato, il sistema
ne  risulterebbe  piu'  completo,  armonico  e  ragionevole. E sembra
invece  arbitraria la drastica identificazione, fatta dal legislatore
delegato    all'art. 34   d.lgs.   n. 274/2000,   del   concetto   di
«definizione»  del procedimento con una pura e semplice rinunzia alla
potesta' punitiva dello Stato.
    Sotto  questo  profilo,  la  ricordata  norma dell'art. 34 appare
illegittima  per  contrasto  con l'art. 76 Cost., nella misura in cui
travalica  i  limiti di oggetto e non si attiene ai criteri direttivi
fissati   dal  Parlamento,  secondo  l'interpretazione  qui  proposta
(«eccesso di delega»).
    Questo  giudice  non  si  nasconde,  peraltro,  che  le  opinioni
prevalenti  sono  nel  senso di vedere nel meccanismo di cui all'art.
17, lettera f), della legge delega proprio uno strumento «deflattivo»
operante  indefettibilmente  come  rinuncia  alla  potesta'  punitiva
statuale.   Secondo   questa   interpretazione,   l'art. 34,   d.lgs.
n. 274/2000  sarebbe  allora  correttamente  attuativo  della  delega
conferita  dal  Parlamento, con la conseguenza che eventuali dubbi di
incostituzionalita'  non  possono  non  investire, unitamente al piu'
volte  citato art. 34, anche l'art. 17, lett. f), della legge-delega.
Tali profili di incostituzionalita' sono:
    2. - Violazione  degli  artt.  25,  comma  2, 101, comma 2, e 112
della Costituzione.
    Lungi  dal  voler  affrontare una troppo complessa disamina della
portata dei principi espressi dalle indicate norme costituzionali, il
remittente  osserva  come  dette  disposizioni  consacrino, a livello
costituzionale,  un  sistema  di  supremazia  e inderogabilita' della
legge  penale  che esclude ogni discrezionalita' applicativa da parte
del  potere  giudiziario:  se e' vero che ciascuno puo' essere punito
solo  laddove  abbia  commesso  un  fatto conforme ad una fattispecie
tipica  prevista  dalla legge (art. 25 comma 2), e' altrettanto vero,
specularmente,  che  ogniqualvolta  sia  commesso  un  «fatto tipico»
l'autore  deve  essere  assoggettato  a  sanzioni penali: il pubblico
ministero  e'  obbligato  ad  esercitare  nei suoi confronti l'azione
penale  (art. 112), ed il giudice, soggetto solo alla legge (art. 101
comma  2),  una  volta  accertata  la conformita' della condotta alla
norma    incriminatrice   deve   applicare   le   sanzioni   previste
dall'ordinamento.
    L'art.  34,  d.lgs.  n. 274/2000,  invece,  demanda al giudice di
determinare, caso per caso, se l'esercizio dell'azione penale, pur in
presenza   di   un   fatto   tipico,   «sia  ingiustificato  rispetto
all'interesse  tutelato», sulla scorta dei seguenti indici: esiguita'
del   danno   o  pericolo,  occasionalita'  del  fatto,  grado  della
colpevolezza.
    Appare subito evidente come la formulazione usata dal legislatore
urti  contro  i  principi  costituzionali sopra ricordati: laddove un
fatto   sia   conforme   alla   fattispecie   astratta  prevista  dal
legislatore,  quel  fatto  e'  per  definizione lesivo dell'interesse
tutelato  dall'ordinamento,  e  non  vi  e' spazio perche' il giudice
dichiari    invece    che    l'esercizio    dell'azione   penale   e'
«ingiustificato».
    E'  noto  che  questo  principio  soffre di eccezioni, costituite
dalle  numerose  «cause  di  non  punibilita»,  di  ordine generale o
speciale,  oggetto di plurime previsioni all'interno dell'ordinamento
penale.  Una  trattazione  esaustiva di tali cause di non punibilila'
non  e'  probabilmente possibile ne' necessaria in questa sede; ma e'
sufficiente  un breve richiamo alle due principali categorie, le c.d.
cause  di  giustificazione  (artt. 50  -  54 c.p.) e le c.d. cause di
esclusione  dell'imputabilita' (artt. 85 - 98 c.p.) per apprezzare il
fondamentale   carattere   ad   esse   comune:  la  predeterminazione
legislativa  dei  requisiti  di  applicabilita'  delle  cause  di non
punibilita'.  In  altre  parole, nelle citate due grandi categorie la
decisione  del  giudice  e'  strettamente vincolata dall'esistenza di
rigide  condizioni  normativamente  previste,  onde il giudice, anche
quando  dichiara, per esempio, la non punibilita' di chi ha agito per
legittima  difesa  ovvero in condizioni di totale infermita' mentale,
rimane integralmente soggetto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.).
    Il  problema  dunque  e'  quello di verificare se anche l'art. 34
d.lgs.   n. 274/2000,   nell'attribuire   al  giudice  il  potere  di
dichiarare  l'improcedibilita' dell'azione penale per la «particolare
tenuita'  del  fatto»,  definisca  effettivamente  le  condizioni  di
esercizio di tale potere.
    Ad  avviso  di  questo  giudice la risposta deve essere negativa,
giacche'  i  criteri  previsti  dal  citato  art. 34  sono  meramente
apparenti  ed  insuscettibili di dar luogo ad un'applicazione pratica
che non sfoci nell'arbitrio. Piu' in dettaglio:
        l'esiguita'  del  danno  o  del  pericolo. Nel nostro sistema
penale  essa  non  puo  mai  essere  motivo di rinuncia all'esercizio
dell'azione  penale,  esercizio  che  e' precluso soltanto laddove il
danno  o  il  pericolo  siano  non gia' esigui ma, piu' radicalmente,
assenti.  Al  riguardo  assume  la  valenza  di principio generale la
disposizione  dell'art. 49,  comma 2, c.p. che, in piena coerenza col
sistema,  esclude la punibilita' nei casi di «inidoneita' dell'azione
o  inesistenza dell'oggetto di essa». Al contrario, il sistema penale
pullula  di  disposizioni  che,  in  presenza  di un danno o pericolo
particolarmente  lieve,  prevedono  non  gia' l'esenzione da pena, ma
solo la sua attenuazione: artt. 62 n. 4, 323-bis, 648 comma 2, c.p. e
molte  altre.  Nel  caso  previsto  dall'art. 34, d.lgs. n. 274/2000,
invece,  si  richiede al giudice di procedere ad una determinazione -
concettualmente  e  operativamente  impossibile se non con un atto di
mero  arbitrio  -  in  virtu'  della  quale  il  danno  da reato, pur
sussistente,  sarebbe  cosi' esiguo da sfuggire a sanzione penale; in
virtu'   della   quale   la  modestia  del  danno  si  trasformerebbe
incomprensibilmente  in  «assenza»  di danno. Si torna a ripetere che
questo  e' un criterio di valutazione soltanto apparente, che finisce
per lasciare il giudice solo con se' stesso;
        l'occasionalita' del fatto. Anche in questo caso la fluidita'
della  formula  legislativa  si  presta ad inammissibili applicazioni
discrezionali.  L'interprete  potrebbe  di  volta in volta ricondurre
all'ipotesi  del  fatto occasionale quel fatto che sia commesso senza
premeditazione,   o   meglio   con   «dolo  d'impeto»  (il  carattere
dell'occasionalita'  dovrebbe  percio' riconoscersi a tutti i delitti
colposi?);  ovvero  il fatto commesso da un incensurato o quanto meno
da  un  agente  che  non  sia recidivo specifico. Ma altri potrebbero
considerare  «occasionale»  anche  il  fatto  commesso da un recidivo
specifico,  purche'  ad  una cospicua (ma non legalmente determinata)
distanza di tempo dal reato precedente ...
    L'impossibilita',  alla  stregua della formulazione normativa, di
delineare in modo preciso il concetto di occasionalita' e' un aspetto
tutt'altro  che  secondario,  perche'  dalla  delimitazione  di  tale
concetto   non   dipende   (come   normalmente   avviene)   solo   il
riconoscimento  delle  attenuanti  generiche, ovvero l'irrogazione di
una  pena  particolarmente mite a norma dell'art. 133 comma 1 n. 3) e
comma   2   n. 2)   c.p.,   bensi',   assai  piu'  drasticamente,  la
delimitazione  dell'ambito  del  penalmente rilevante rispetto a cio'
che   rilevante   non   e'.  L'impossibilita'  di  definire  in  modo
sufficientemente  predeterminato  il  concetto  di «occasionalita» si
traduce dunque, ad avviso del remittente, in una violazione dell'art.
25,  comma  2,  Cost.  Puo' forse essere significativo, in termini di
raffronto,  considerare  il  ben  diverso  livello  di determinatezza
normativa  che il legislatore ha avuto cura di assicurare, in tema di
sospensione  condizionale  della  pena, all'art. 164 c.p.: tale norma
disciplina  non  gia'  la  rinuncia definitiva alla potesta' punitiva
statuale, bensi' - piu' modestamente - la sospensione (revocabile) di
essa;  cionondimeno il legislatore ha fissato tassativamente al comma
2  i  requisiti  soggettivi, senza accontentarsi del concetto, troppo
indeterminato, di «occasionalita»;
        il   «grado   della   colpevolezza»   presenta   le  medesime
difficolta'  sin  qui evidenziate. In primo luogo va osservato che il
termine  «colpevolezza»  designa  un  risultato della valutazione del
giudice, e cioe' l'attribuzione di responsabilita' per un determinato
reato.  In questo senso, la colpevolezza o esiste o non esiste, ed e'
insuscettibile   di   «gradi».   Sembra  pertanto  che  la  locuzione
utilizzata dal legislatore debba essere intesa come equivalente della
locuzione  di  cui  all'art. 133, comma 1, n. 3 c.p.: «intensita' del
dolo o grado della colpa».
    Se  cosi' e', tornano a riproporsi le stesse perplessita' esposte
con  riferimento  all'esiguita' del danno: o dolo e colpa sussistono,
per quanto poco intensi, ed allora l'esercizio dell'azione penale non
puo'  ritenersi  «ingiustificato»;  ovvero  non sussistono, ed allora
l'imputato  dovra'  essere  assolto «perche' il fatto non costituisce
reato».  In nessun modo il giudice potra' compiere da solo, senza una
piu'   precisa   guida   normativa,   quel  salto  -  concettualmente
impossibile  -  che porta a trasformare una colpa lieve in assenza di
colpa.
    Si  e'  gia'  accennato,  piu'  sopra,  al  fatto  che  il nostro
ordinamento conosce gia' da molti anni, nel processo penale minorile,
l'istituto  della  sentenza  di non doversi procedere per irrilevanza
del  fatto (art. 27 d.P.R. 448/1988). Tale circostanza, ad avviso del
remittente,  non puo' tuttavia avere alcuna influenza sulla decisione
del  quesito  che  ora si pone, perche' l'istituto di cui all'art. 27
cit.  trova  applicazione all'interno di un sistema, quello minorile,
che  e'  profondamente  «altro»  rispetto  a quello in vigore per gli
imputati   maggiorenni.   In   quel   sistema,  tutto  ispirato  alla
centralita' della tutela del minore, vigono valori autonomi e possono
giustificarsi,  alla  luce  di principi costituzionali specifici come
quello  di  cui  all'art. 31  cpv.  Cost.,  anche deviazioni da altri
principi  costituzionali che restano invece inderogabili nei restanti
rami dell'ordinamento penale.
    La  questione  che  precede  e'  gia' stata sottoposta alla Corte
costituzionale da questo giudice con ordinanza del 23 maggio 2002; la
Corte,  con  ordinanza  n. 34  del  16 gennaio/24 febbraio 2003, l'ha
dichiarata  manifestamente  inammissibile,  perche'  i  sopra esposti
profili  di  incostituzionalita' erano stati presentati unitamente ad
altri  (qui omessi) che avevano finito col rendere contraddittorio il
quesito posto alla Corte.
    Nell'inchinarsi  a  tale  decisione  questo  giudice non puo' non
rilevare,   tuttavia,   il  permanere  dei  dubbi  di  illegittimita'
costituzionale  esposti  nelle  pagine  che  precedono,  onde  reputa
doveroso adire nuovamente la Corte costituzionale.