IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    Visti  gli  atti  relativi  al  procedimento  di  espulsione  dal
territorio  dello  Stato  ai  sensi dell'art. 16 del d.lgs. 25 luglio
1998 n. 286, come modificato dall'art. 15 della legge 30 luglio 2002,
n. 189,  nei confronti di Aani Hicham, nato in Marocco il 15 novembre
1976,  attualmente  detenuto nella Casa circondariale di Piacenza, in
relazione  alla  pena  residua  di  anni  4 di reclusione di cui alla
sentenza del Tribunale di Milano del 28 giugno 2000, con fine pena al
11 agosto  2003,  attualmente  in  regime  di  semiliberta'  come  da
ordinanza  del  Tribunale  di sorveglianza di Bologna del 12 dicembre
2002,

                            O s s e r v a

    Il  presente  procedimento  scaturisce  dalla comunicazione della
Direzione  della  Casa  circondariale  di  Piacenza,  su richiesta di
questo  Ufficio,  del  nominativo  del  detenuto attesa la condizione
soggettiva  di  persona  extracomunitaria  in  espiazione di una pena
detentiva,  anche  residua,  inferiore  ad  anni  due,  come indicato
dall'art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189.
    Dall'istruttoria  esperita  risulta  che  il  detenuto  e'  stato
compiutamente identificato dal Consolato del Marocco di Bologna e che
lo  stesso  e'  titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla
Questura  di  Milano,  scaduto  in  data  22 giugno  2001  (vedi nota
informativa della Questura di Piacenza).
    Cio'  posto  si  devono  ritenere  integrati i presupposti di cui
all'art. 16  d.lgs.  n. 286  del  1998,  come modificato dall'art. 15
della  legge  n. 189  del  2002, tenuto conto che il detenuto non sta
espiando  un  titolo preclusivo all'espulsione in oggetto (delitti di
cui  all'art. 407,  comma  2, lett. a), c.p.p. e delitti previsti dal
Testo Unico sull'immigrazione) e non sussiste alcuna ipotesi ostativa
ai sensi dell'art. 19 del T.U. (divieti di espulsione).
    A  parere di questo Giudicante la fattispecie in oggetto presenta
profili   di   illegittimita'  costituzionale  per  violazione  degli
artt. 2,  3,  27,  comma  3 e 25, comma 2 della Costituzione come nel
prosieguo esplicitati.
    1. - Violazione dell'art. 27, terzo comma Cost.
    L'art. 15  citato ha introdotto la fattispecie dell'espulsione «a
titolo  di  sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione» ed ha
attribuito  la  competenza a disporre quest'ultima misura, sulla base
della  sussistenza  dei  requisiti  di  cui  sopra,  al Magistrato di
Sorveglianza.
    Preliminarmente  s'impongono  talune brevi riflessioni in materia
di  espulsione  dello straniero dal territorio dello Stato al fine di
cercare  di  individuarne  la  natura  giuridica  e  conseguentemente
formulare  alcune  considerazioni  in  ordine alla recente disciplina
giuridica.    L'espulsione    dello   straniero   dallo   Stato   era
originariamente  disci-plinata  dal  codice  penale,  quale misura di
sicurezza  e dal Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, quale
misura   amministrativa  di  competenza  dell'Autorita'  di  Pubblica
Sicurezza.  Con  la  legge 28 febbraio 1990, n. 39 che ha abrogato le
norme  del  T.U.L.P.S.,  l'istituto dell'espulsione amministrativa ha
avuto   una   nuova   disciplina,   fermo   restando   la  previsione
dell'espulsione come misura di sicurezza; inoltre e' stata introdotta
una  nuova  figura  di  espulsione,  da  adottarsi  previo  specifico
procedimento,  e  su  richiesta  dello  straniero o del suo difensore
(art. 7, comma 12-bis, espulsione cd. a richiesta di parte).
    La  normativa  del  1990  e' stata novellata dal d.lgs. 25 luglio
1998,   n. 286   che   ha   regolamentato  l'espulsione  come  misura
amministrativa  e  come misura di sicurezza subordinando quest'ultima
all'accertamento    in    concreto   della   pericolosita'   sociale,
conformemente a quanto disposto dalla Corte costituzionale in materia
di  misure di sicurezza (v. sent. Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 58
in  relazione  all'espulsione  prevista dal Testo Unico in materia di
stupefacenti). Inoltre, la novella del 1998 ha abrogato espressamente
la  normativa  in  materia  di  espulsione a richiesta di parte ed ha
introdotto l'espulsione a «titolo di sanzione sostitutiva».
    Infine,  la  legge n. 189 del 2002 ha mantenuto la distinzione, a
cui   consegue  una  diversa  disciplina  normativa,  fra  espulsione
amministrativa,   di   competenza   prefettizia  o  ministeriale,  ed
espulsione  disposta  dal  giudice  quale  misura di sicurezza ovvero
quale «sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione».
    Gia'   sotto   la   vigenza   della   precedente   normativa   la
giurisprudenza  aveva evidenziato la difficolta' a ridurre l'istituto
dell'espulsione, di competenza del giudice, ad una unitaria categoria
giuridica,  anche  in  ragione  del presupposto imprescindibile della
sola  misura  di  sicurezza  costituito dall'accertamento in concreto
della  pericolosita'  sociale  dello  straniero,  di competenza della
Magistratura di Sorveglianza.
    La  Corte  Costituzionale  ha  riconosciuto alla espulsione cd. a
richiesta,  natura atipica, a cui la legge ha attribuito l'effetto di
«sospendere  l'esecuzione  della custodia cautelare in carcere ovvero
l'espiazione    della   pena»,   cosi'   realizzando   essenzialmente
l'interesse  pubblico di «ridurre l'enorme affollamento carcerario di
per se' difficilmente compatibile con un efficace perseguimento della
funzione   rieducativa   della   pena»  (cfr.  sentenze  Corte  cost.
24 febbraio 1994, n. 62 e 6 luglio 1994, n. 283).
    Se  da  un lato la ratio della fattispecie della espulsione quale
«sanzione alternativa alla detenzione», introdotta con la novella del
2002, appare la stessa (ridurre l'enorme affollamento carcerario) non
altrettanto  puo' dirsi in merito alla sua natura giuridica, che come
individuata  dalla  Corte  costituzionale  porta  ad  escludere  ogni
finalita' rieducativa (Corte cost. nn. 62/1994, 283/1994).
    Che  si  tratti  di  una  sanzione - sia pure alternativa - e non
anche  di  una mera sospensione della esecuzione della pena, a parere
di questo remittente, risulta da una pluralita' di considerazioni.
    Innanzitutto,  la  sua  collocazione  all'interno della norma che
disciplina  l'espulsione  come sanzione sostitutiva della detenzione,
misura  avente  sicuramente  natura  giuridica  di  sanzione  penale.
Trattasi,  infatti,  di  una  conseguenza  affettiva  che  il giudice
applica,  in  esito  ad un processo penale, una volta riconosciuta la
responsabilita'  dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva
(reclusione  o  arresto)  non  superiore  ai  due  anni.  E l'ipotesi
prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena descritta
solamente  per  la  fase in cui e' emessa (e cioe' successivamente al
passaggio  in  giudicato  della  sentenza) e per l'organo giudiziario
competente  (nonche',  di  riflesso, per il tipo di procedimento e di
provvedimento  che  dispone  la  sanzione),  ma  non  per contenuto e
funzione, e pertanto la natura giuridica di queste e' la medesima.
    Inoltre,  il  nomen  iuris  di sanzione usata nella rubrica della
norma (con l'aggiunta «in alternativa alla pena»), ma anche la natura
indubbiamente  afflittiva  della  misura  ed,  infine, l'attribuzione
della  competenza  ad irrogarla, non piu' al giudice dell'esecuzione,
bensi' al Magistrato di Sorveglianza.
    Il  nostro  sistema  giuridico-penale  e'  un sistema dualistico:
della  pena  e della misura di sicurezza. Entrambe mirano a prevenire
la commissione di reati; e se la prima presenta ad un tempo finalita'
di  prevenzione  generale  e  di prevenzione speciale (assolve ad una
funzione   retributiva   ed   intimidatoria  in  una  prospettiva  di
rieducazione), la seconda assolve unicamente finalita' di prevenzione
speciale.  Peraltro  il  sistema  di cui sopra, cd. a doppio binario,
trova  l'avvallo costituzionale nell'art. 25 Cost., norma che esprime
oltre  al  principio  di  legalita'  della  pena  anche  quello della
tassativita'  nel  senso di predeterminazione dei tipi e della misura
edittale  della  pena  in  rapporto  alle  singole fattispecie penali
(anche con riferimento a detto principio e piu' precisamente sotto il
profilo  del divieto di irretroattivita', la fattispecie in questione
presenta  profili  di  incostituzionalita',  come  si  precisera' nel
prosieguo).
    Nessun  dubbio, e non merita soffermarsi sul punto, che non siamo
di  fronte  ad una misura di sicurezza sia perche' l'applicazione non
e' subordinata ad alcun accertamento sulla pericolosita' sociale, sia
perche'  si arriverebbe all'assurdo di procedere a detto accertamento
solo  in presenza di gravi delitti e viceversa a imporre l'espulsione
nei casi di delitti di minore gravita' ma anche e soprattutto perche'
il  legislatore  non ha modificato il comma 1 dell'art. 15 del d.lgs.
n. 286/1998  che  prevede,  come  si e' gia' detto, l'espulsione come
misura   di   sicurezza  subordinata  al  previo  accertamento  della
pericolosita' sociale.
    E'  vero  che  il  nostro  ordinamento  conosce  - oltre a misure
sostitutive  della pena da irrogare ed a misure alternative alla pena
gia'  irrogata  -  misure  che hanno l'effetto di sospendere la pena,
nella  fase  esecutiva  (si  pensi  al  differimento  della  pena  ex
artt. 146-7   c.p.   ovvero   alla   sospensione  ex  art. 90  D.P.R.
n. 309/1990),  ma trattasi di ipotesi, espressamente disciplinate dal
legislatore,  che  implicano una richiesta o un'iniziativa di parte o
comunque intervengono su una situazione - valutata legislativamente -
di  assoluta  incompatibilita'  con il regime detentivo - e come tali
non  hanno  certo  un carattere afflittivo (del resto nessuno dubita,
con  riferimento  alla  sospensione  ex art. 90 citato, del carattere
terapeutico  ma anche risocializzante della stessa). Inoltre, proprio
perche'  determinano  una sospensione dell'esecuzione della pena sono
circoscritte  nel  tempo, presuppongono la sussistenza di determinati
presupposti,  la  cui valutazione e' comunque rimessa al Tribunale di
Sorveglianza,  a cui non e' mai imposta l'adozione di una determinata
misura, e che anzi ben puo' ritenere maggiormente idonea altra misura
(peraltro  con riferimento al rinvio obbligatorio ex art. 146 c.p. la
fattispecie   va   letta  in  combinazione  con  l'art. 47-ter  legge
26 luglio  1975,  n. 354, introdotto dalla legge n. 165 del 1998, che
ha  disciplinato la cd. detenzione domiciliare a termine). Discorso a
se' meriterebbe la sospensione condizionale della pena ex artt. 163 e
ss.  c.p.  ma  che  non  pare di particolare rilievo, nel caso che ci
occupa,  tenuto  conto  che  si  tratta certamente di un beneficio di
legge  che  consente,  in presenza di determinati presupposti, di non
eseguire  l'esecuzione  della  pena fin dal suo inizio e non anche di
sospendere l'esecuzione di una pena detentiva gia' in espiazione.
    Detta  considerazione  ci  riporta  al  binomio  iniziale: pena e
misura di sicurezza. Scartata quest'ultima occorre soffermarsi ancora
sulla prima.
    Nella  sanzione  alternativa  introdotta  dalla  legge n. 189 del
2002, rinveniamo una misura che ha certamente carattere afflittivo.
    Innanzitutto,   preme   evidenziare   a  tal  proposito,  che  il
procedimento  e'  avviato  d'ufficio, dal Magistrato competente. Cio'
non  significa escludere un'iniziativa di parte, sempre possibile, ma
significa  evidenziare  come  nel disegno legislativo il procedimento
deve  essere  avviato anche, in assenza di una richiesta o iniziativa
di parte, come avveniva invece per la cd. espulsione a richiesta. Sul
punto   la   Corte   costituzionale  ha  statuito  che  la  richiesta
dell'interessato  costituisce un «requisito diretto ad armonizzare la
condizione   dello   straniero   ai   valori  costituzionali  cui  il
legislatore  deve  riferirsi  nel  prevedere  una  misura  pur sempre
incidente  sulla  liberta'  personale cioe' su un diritto inviolabile
dell'uomo» (cfr. sentenza n. 62 del 1994).
    Il  carattere  afflittivo  della  misura  deriva, altresi', dalla
mancata previsione dell'adesione del condannato (cosa che avviene per
le misure alternative) o piu' in generale della possibilita' da parte
dello  stesso  di rinunciarvi (il condannato puo' solo presentare nei
termini  di  legge opposizione avanti al Tribunale di Sorveglianza al
quale spettera' di verificare la sussistenza dei requisiti di legge).
    Il   carattere   afflittivo  dell'allontanamento  dal  territorio
nazionale  dipende  anche  dalla possibilita' che detto provvedimento
determini  una  interruzione  del  trattamento  risocializzante (come
meglio si dira' in seguito) ovvero la recisione dei legami famigliari
non  rilevanti  ai  sensi del divieto posto dall'art. 19 del T.U., ad
esempio  il  matrimonio senza prole con un cittadino extracomunitario
ovvero una convivenza more uxorio con un cittadino italiano.
    Ulteriore  elemento che depone a favore della natura giuridica di
sanzione  e'  l'attribuzione  della  competenza,  non piu' al giudice
dell'esecuzione,  bensi' al Magistrato di Sorveglianza. L'automatismo
della  decisione,  in  assenza  di  ogni valutazione della storia del
detenuto,   dei   risultati   dell'osservazione   personologica,  del
trattamento  svolto  e dell'adesione mostrata dal condannato pare del
tutto  in  contrasto  non  solo  con  i  principi  cardini del nostro
ordinamento penitenziario (art. 1, Legge penitenziaria «trattamento e
rieducazione»)  ma  anche e soprattutto con il finalismo rieducativo,
posto  dall'art. 27,  comma 3, secondo cui «le pene... devono tendere
alla  rieducazione  del condannato», che costituisce il principio, di
rango  costituzionale,  che  ha  ispirato  la legislazione in materia
penitenziaria  e  che  impone al legislatore di modulare l'esecuzione
delle   pene  a  precisi  fini  di  risocializzazione.  Precludere  o
addirittura  interrompere detto processo, in assenza di una richiesta
del   detenuto,   di   un  comportamento  colpevole  dello  stesso  e
soprattutto  senza  che  al  giudice  competente sia riconosciuta una
sfera   di  discrezionalita'  nell'applicare  la  misura,  appare  in
contrasto con le finalita' rieducative e risocializzanti della pena.
    La  preclusione  di  ogni  valutazione da parte del Magistrato di
Sorveglianza in ordine alla personalita' e alla storia del condannato
e   la   conseguente   violazione   del   finalismo   rieducativo  e'
particolarmente  evidente  ogni  qualvolta  la misura dell'espulsione
riguarda  -  come  nel  caso  di  specie - un soggetto che ha aderito
positivamente  al trattamento penitenziario svolto nei suoi confronti
e   addirittura   ha   fruito   positivamente  di  benefici  premiali
dimostrando in modo concreto di avere avviato un processo rieducativo
e  di  risocializzazione (nel caso di specie il condannato dopo avere
fruito   in   modo   regolare  di  permessi  e'  stato  ammesso  alla
semiliberta',  grazie alla sussistenza di una opportunita' lavorativa
in   una  cooperativa  presso  la  quale  gia'  lavorava  durante  la
detenzione  ed  attualmente  fruisce  in  modo regolare di licenze in
Milano dove risiede la propria convivente).
    Del   resto   non   si   puo'   sottacere   che   il   vaglio  di
costituzionalita' della espulsione cd. a richiesta teneva anche conto
che    l'art. 7,   comma   12-ter,   ora   abrogato,   non   imponeva
inderogabilmente  al  giudice  competente  di ordinare l'espulsione -
peraltro si ricordi richiesta dall'interessato - ma gli attribuiva il
potere di decidere «acquisite le informative degli organi di polizia,
accertato   il   possesso   del   passaporto  o  di  altro  documento
equipollente,  sentito il pubblico ministero e le altre parti» (sent.
Corte cost. n. 62 del 1994).
    Se cio' veniva riconosciuto al giudice dell'esecuzione, a maggior
ragione  deve  essere  riconosciuto  al  Magistrato  di Sorveglianza,
organo  deputato  a  svolgere  una  funzione  di  sorveglianza  sugli
istituti   di  pena  ma  anche  a  pronunciarsi  su  misure  (in  via
provvisoria  e poi in via definitiva come componente del Tribunale di
Sorveglianza)  attraverso  un  procedimento giurisdizionalizzato, che
vede  l'attenzione  spostata  sempre  di  piu' sulla personalita' del
condannato    come   desunta   anche   dai   dati   dell'osservazione
personologica. Dette decisioni non possono avere carattere automatico
o  vincolato  ma  devono  presupporre  una  valutazione  da parte del
giudice  di  ogni  risultato  dell'istruttoria  esperita, proprio per
evitare  che  la  scelta  discrezionale del legislatore in materia di
espulsioni appaia irragionevole (sentenza n. 62 del 1994 citata).
    Peraltro,  il  nostro  ordinamento  laddove  aveva previsto delle
situazioni  di ostativita' alla concessione di misure alternative (si
badi  bene preclusioni alla concessione e non anche, come nel caso di
specie,   misure   alternative  imposte  senza  alcun  consenso)  con
riferimento  a  taluni  gravissimi  reati,  previsti dall'art. 4-bis,
comma 1,   prima   fascia   della   legge   penitenziaria,  la  Corte
costituzionale  e'  intervenuta circoscrivendo la portata del divieto
formulato  dal  legislatore in termini assoluti e aprendo la strada a
valutazioni  di competenza della Magistratura di Sorveglianza in tema
di  collaborazione (si veda ora la nuova formulazione dell'art. 4-bis
O.P.  come  novellato  dalla  legge  23 dicembre  2002, n. 279 che ha
recepito taluni principi gia' elaborati dalla Corte costituzionale in
tema, per esempio, di collaborazione cd. impossibile).
    Del  resto,  il  profilo  della  non irragionevolezza della nuova
disciplina  non  pare  assicurato  non  solo  dall'automatismo  della
decisione   del   giudice,   come  sopra  indicato,  ma  neppure  dal
circoscrivere  l'adozione del provvedimento de quo ai soli condannati
per determinati reati (delitti non ricompresi nell'elencazione di cui
all'art. 407,  comma 2,  lett.  a),  c.p.p ovvero quelli previsti dal
Testo  Unico  sull'immigrazione). Infatti, il riferimento alla natura
del reato non pare del tutto rassicurante: un condannato che commette
piu'  delitti  puo'  mostrare  una  maggiore capacita' a delinquere e
quindi  maggiore  probabilita' recidivante rispetto ad un delinquente
primario  che,  pur avendo commesso un reato di maggiore gravita', ha
stabili  ed idonei riferimenti all'esterno o che comunque ha mostrato
segni di ravvedimento anche avviando un processo risocializzante.
    Altro  profilo  di  irragionevolezza  della  recente normativa e'
costituita  dal  mancato  raccordo  fra la nuova misura attribuita al
Magistrato  di Sorveglianza e le misure alternative di competenza del
Tribunale  di  Sorveglianza  (art. 70 legge penitenziaria) e, piu' in
generale, le ulteriori competenze della Magistratura di Sorveglianza.
Nulla  dispone  la nuova disciplina in materia di misure alternative,
gia'  disciplinate  dalla  legge  e  di  competenza  del Tribunale di
Sorveglianza,  e  cio'  consente  di  ritenere  che  dette competenze
dell'Organo  collegiale - ma anche quelle dell'Organo monocratico con
riferimento  ad  altri  benefici (ad es. lavoro all'esterno, permessi
premio)  -  non  siano  in  alcun  modo  pregiudicate dalla normativa
sull'espulsione.  Tale  interpretazione deve ritenersi avallata anche
dall'art. 1,  comma 3, ultima parte del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286
(disposizione non modificata dalla recente legge 189) in cui si legge
testualmente «sono fatte salve le disposizioni interne, comunitarie e
internazionali  piu' favorevoli comunque vigenti nel territorio dello
Stato».
    E' fuori dubbio che la normativa in materia di misure alternative
alla detenzione, previste e disciplinate dalla legge penitenziaria ma
anche  da  altre  leggi  (ad  esempio  il  testo  unico in materia di
stupefacenti  ovvero le disposizioni in materia di differimento della
pena ex artt. 146 e 147 c.p.), presenti i connotati di una disciplina
piu'  favorevole  per il condannato. E allora, si puo' configurare un
quadro normativo secondo cui il Magistrato di Sorveglianza competente
emette,  a  un tempo, provvedimenti favorevoli al condannato, tenendo
conto  di  una positiva ed effettiva progressione nel trattamento (ad
esempio  permessi  premio) e provvedimenti di espulsione connotati da
obbligatorieta'   nei   confronti   del   medesimo   condannato,   in
applicazione  di  una  normativa  che  prescinde in toto da ogni dato
relativo  al  trattamento.  E  se  cio'  non bastasse il Tribunale di
Sorveglianza,  composto  dallo  stesso Magistrato di Sorveglianza, ai
sensi  dell'art. 70,  comma  6  legge  penitenziaria, puo' accogliere
l'istanza   di   semiliberta'   o   addirittura   quella  piu'  ampia
dell'affidamento  in  prova  al  servizio sociale. Quindi, in estrema
sintesi  un  sistema giuridico che presenta connotati di ambiguita' e
quindi  di  irragionevolezza:  in modo del tutto simultaneo lo stesso
detenuto  extracomunitario puo' ricevere comunicazione di un permesso
premio  (esperienza che costituisce parte integrante del programma di
trattamento,   a   mente   dell'art. 30-ter  O.P.),  notifica  di  un
provvedimento -   di   cui  e'  estensore  lo  stesso  Magistrato  di
Sorveglianza   competente   in   materia  di  permessi  premio  -  di
semiliberta'  o  di  affidamento in prova al servizio sociale che da'
atto  dei  «progressi  compiuti  nel  corso  del  trattamento»  o dei
«risultati  dell'osservazione  della personalita» e sulla cui base si
fonda  il  giudizio  prognostico  ex  art. 47, comma 2 O.P. ovvero la
comunicazione  del decreto di espulsione ex art. 15, legge n. 189 del
2002.  Quest'ultimo  provvedimento  e'  appunto  l'unico che non solo
prescinde  dai  dati  dell'osservazione  e  del  trattamento  ma  che
addirittura ne puo' provocare l'interruzione.
    Infine, un'ultima considerazione in merito.
    La   disciplina  sull'ingresso  ed  il  soggiorno  dei  cittadini
extracomunitari  nel  territorio  nazionale, ben puo' prevedere anche
l'espulsione  dello  straniero,  misura  che  trova la sua rado nella
«ponderazione  di interessi pubblici, quali ad esempio la sicurezza e
la  sanita'  pubblica,  l'ordine  pubblico,  i  vincoli  di carattere
internazionale  e  la  politica  nazionale  in  tema di immigrazione»
(sent.  Corte  cost.  n. 62  citata). La Suprema Corte ha evidenziato
come  la  normativa  sull'espulsione a richiesta, ora abrogata, fosse
rivolta   «a   tutelare  interessi  pubblici  -  attenuando  mediante
l'allontanamento di soggetti pericolosi gli oneri della collettivita'
ed  i  rischi  per  la  sicurezza,  sia  all'interno  degli  istituti
penitenziari   che,   in  genere,  nel  territorio  nazionale»  (cfr.
sen. Cass. 22 dicembre 1998-17 aprile 1999, n. 6595).
    A  parte  il  rilievo  che  le  esigenze di sicurezza e di ordine
pubblico  vengono  adeguatamente  assicurate  con  l'espulsione  come
misura  amministrativa  e  come  misura  di  sicurezza,  l'espulsione
disposta  dal  giudice - secondo l'attuale disciplina normativa - non
puo' assicurare un effetto di sfollamento delle carceri senza violare
il principio del finalismo rieducativo non solo perche' gli interessi
pubblici  di  cui  sopra non assurgono, in materia di pene, valore di
principi  costituzionali  ma anche e soprattutto perche' l'espulsione
come  attualmente  disciplinata finisce per premiare coloro che hanno
commesso  gravi  reati,  che  non  verranno espulsi dal Magistrato di
Sorveglianza  con  la  misura in oggetto e potranno fruire ancora del
trattamento  e  dei  benefici  di  legge  in  spregio  dei  soggetti,
certamente  meno  pericolosi,  pericolosita'  desunta  non  solo  dal
delitto   commesso   ma   soprattutto  dal  percorso  risocializzante
intrapreso.  E  allora,  delle  due l'una, o la normativa vuole avere
un'efficacia  deflattiva  di  fronte al fenomeno del sovraffollamento
carcerario  e  con  riferimento ai detenuti extracomunitari introduce
una  misura di allontanamento dal territorio dello Stato dei soggetti
meno  pericolosi ma cosi' non garantisce le esigenze di sicurezza, di
cui  sopra,  e certamente viola il finalismo rieducativo della pena o
piuttosto  introduce  una  misura  di  allontanamento  che colpisca i
soggetti  piu'  pericolosi, pericolosita' desumibile da vari indici e
quindi  non  solo  dal  reato  ma  anche  e soprattutto dai risultati
dell'osservazione  e  del  trattamento  in  Istituto, riconoscendo al
Magistrato   di   Sorveglianza   spazi   di  discrezionalita',  cosi'
salvaguardando  le  finalita'  proprie  della  pena in armonia con il
dettato costituzionale.
    2. - Violazione dell'art. 3 Cost.
    L'applicazione  della  normativa in oggetto presenta, a parere di
questo remittente, profili di illegittimita' costituzionale anche con
riferimento   all'art. 3   Cost.  per  violazione  del  principio  di
eguaglianza.
    Nessun dubbio in ordine all'estensione del principio de quo anche
ai cittadini extracomunitari: il principio di eguaglianza non tollera
discriminazioni  fra  il  cittadino italiano e lo straniero specie se
riferito  ad  un  diritto inviolabile, quale e' la liberta' personale
dell'individuo,  ma  e'  altrettanto evidente che occorre confrontare
fra  di  loro  unicamente  situazioni  paritetiche.  Il  principio di
eguaglianza  non  mira  a  realizzare  sempre  e comunque un medesimo
trattamento  giuridico  bensi' ad impedire discriminazioni arbitrarie
di   fronte   a   situazioni   paritetiche.   Sulla  base  di  queste
considerazioni,  il  giudice  delle  leggi  aveva  escluso profili di
incostituzionalita'  nella  citata  normativa,  oramai  abrogata, con
riferimento alla disparita' di trattamento fra il detenuto straniero,
che  su  sua istanza poteva ottenere una sospensione della pena, e il
cittadino  italiano al quale la legge non aveva attribuito un analogo
strumento (sent. n. 62 citata).
    La fattispecie in oggetto, invece, presenta profili di disparita'
di  trattamento  fra  detenuti extracomunitari, quindi fra situazioni
tra  di  loro  assimilabili.  Se  si ribadisce il carattere affittivo
della nuova misura pare del tutto irragionevole, ed in violazione del
principio  costituzionale  di uguaglianza, che il provvedimento debba
riguardare  solo  determinati detenuti stranieri e soprattutto coloro
che  hanno  commesso  reati  meno  gravi,  hanno  dato  prova di aver
partecipato efficacemente al trattamento e hanno concrete prospettive
di  risocializzazione,  in  conformita'  al  principio  del finalismo
rieducativo sancito dall'art. 27 della Costituzione.
    Nessun dubbio sussiste in ordine all'estensione anche ai detenuti
extracomunitari del diritto al trattamento, sancito dall'art. 1 della
legge  penitenziaria:  la  stessa disposizione, al comma 2, statuisce
espressamente   che   «il   trattamento  e'  improntato  ad  assoluta
imparzialita'   senza   discriminazioni  in  ordine  a  nazionalita',
razza...opinioni   religiose».  Peraltro,  il  nuovo  regolamento  di
esecuzione,   emanato  con  il  D.P.R.  30 giugno  2000,  n. 230,  ha
introdotto varie disposizioni a tutela dei detenuti stranieri (ad es.
l'art. 35  detenuti  ed internati stranieri e Iart. 58 manifestazioni
della liberta' religiosa).
    Un provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato che
tiene  conto  della  sola  natura del reato e dell'entita' della pena
residua e che invece prescinde da ogni valutazione della personalita'
del soggetto e dei risultati del trattamento, finisce inevitabilmente
per  colpire  anche  detenuti meritevoli di intraprendere un percorso
risocializzativo  o  che  addirittura  lo  hanno  da tempo intrapreso
positivamente e come tale non pare conforme al principio del quo. Non
solo,  ma  la  disparita'  di  trattamento  emerge  anche  laddove si
considera  che l'espulsione colpisce i soli detenuti identificati - e
non  potrebbe  essere  diversamente - cosi' favorendo coloro che sono
entrati  nel  territorio  italiano in condizione di clandestinita' ma
soprattutto  incentivando,  fra  i  soggetti  stranieri  detenuti, il
mantenimento   di   detta   condizione   rispetto   a   procedure  di
identificazione   che   ben   potrebbero   interrompere   i  progetti
risocializzanti, come sopra detto.
Violazione dell'art. 2 Cost.
    L'istituto  de  quo,  per  le  considerazioni sopra espresse, non
risulta in perfetta armonia neppure con il disposto costituzionale di
cui  all'art. 2  laddove  riconosce  e  tutela  i diritti inviolabili
dell'uomo  (e  quindi la liberta' personale) e richiede l'adempimento
dei doveri di solidarieta'.
    L'espulsione  di  soggetti  detenuti  secondo  un procedimento di
natura  automatica - sulla base di requisiti che determinano di fatto
disparita'   di   trattamento   ovvero   un   trattamento  del  tutto
irragionevole   fra  detenuti  stranieri - finisce  per  privilegiare
soggetti  che  hanno commesso gravi reati e che non hanno mai aderito
al trattamento proposto.
    Coloro  che  subiscono il provvedimento di espulsione (certamente
non  un  beneficio  visto  che non e' stato da loro richiesto, ne' vi
possono  rinunciare)  sono  proprio  i  soggetti nei cui confronti il
precetto costituzionale dovrebbe trovare attuazione.
    3. - Violazione dell'art. 25, secondo comma Cost.
    La  fattispecie di cui all'art. 15 citato presenta infine profili
di incostituzionalita' per violazione del divieto di irretroattivita'
della pena.
    L'art. 25,  comma  2,  che  stabilisce  che  «nessuno puo' essere
punito  se  non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del   fatto   commesso»   costituzionalizza  il  principio  enunciato
dall'art. 1  del  c.p. secondo cui «nessuno puo' essere punito per un
fatto  che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge ne'
con pene che non siano previste dalla legge». Si ritiene che la norma
costituzionalizzi  non  solo  il  principio di legalita' del reato ma
altresi'  della pena (nulla poena sine lege). Del resto difficilmente
sostenibile  appare  la  tesi  contraria  tenuto conto della espressa
estensione  del principio con riferimento alle misure di sicurezza ai
sensi dell'art. 25, ultimo comma.
    Il  principio  della  legalita'  si  articola  nei principi della
riserva    di    legge,    della   tassativita'   ed   infine   della
irretroattivita'.  In  materia  penale il divieto di irretroattivita'
della  legge  ha portata relativa e riguarda la sola irretroattivita'
della legge sfavorevole (art. 2, terzo comma c.p.). Orbene, la natura
di  sanzione,  come  sopra esplicitato, della misura introdotta dalla
novella  189  del  2002,  depone  per  l'incostituzionalita'  di  una
normativa  che introduce un trattamento sanzionatorio sfavorevole per
il  condannato  -  in  stato  di  detenzione  -  laddove  ne'  impone
l'applicazione in modo retroattivo.
    Cio'  posto, si deve ritenere che l'art. 15 della legge 30 luglio
2002,  n. 189, che ha modificato l'art. 16 del d.lgs. 25 luglio 1998,
laddove  ha introdotto «l'espulsione a titolo di sanzione alternativa
alla detenzione» risulti incompatibile con gli artt. 2, 3 e 27, terzo
comma e 25 secondo comma della Costituzione.
    Poiche'  trattasi  di  norma  sulla  cui  applicazione  verte  il
presente procedimento, la questione e' rilevante ai fini del presente
giudizio,  non  potendo  essere  definito se non l'applicazione della
norma citata.
    Per  le ragioni piu' sopra esposte gli atti devono essere inviati
alla  Corte  costituzionale  e il procedimento deve essere sospeso in
attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.