ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 64 del codice
di  procedura penale, promosso con ordinanza del 15 febbraio 2002 dal
Tribunale  di  Monza,  nel  procedimento  penale  a  carico  di S.A.,
iscritta  al  n. 373  del  registro ordinanze 2002 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 35,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 26 marzo 2003 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Ritenuto  che  il Tribunale di Monza ha sollevato, in riferimento
agli  artt. 3  e  111  della  Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 64  del  codice di procedura penale, «nella
parte  in  cui non prevede che il giudice del dibattimento debba dare
all'imputato  in  sede  di  esame gli avvisi di cui alla disposizione
suddetta»;
        che il rimettente premette, in punto di fatto, che, terminata
l'escussione  dei  testi  della  accusa  nel dibattimento in corso di
celebrazione,  l'imputato  ha  acconsentito  a  sottoporsi all'esame:
pertanto  -  sottolinea il giudice a quo - dovendosi fare riferimento
alla  disciplina  che il codice detta in tema di esame dell'imputato,
verrebbe in rilievo l'impossibilita' di applicare all'esame stesso le
disposizioni  dettate  dall'art. 64  del  medesimo  codice in tema di
interrogatorio,  in  particolare per cio' che attiene all'obbligo del
giudice  di  dare,  fra l'altro, avviso all'imputato che, se rendera'
dichiarazioni  su  fatti  che  concernono la responsabilita' di altre
persone,  assumera'  in  ordine  a tali fatti l'ufficio di testimone,
salve  le  incompatibilita'  di cui all'art. 197 e le garanzie di cui
all'art. 197-bis cod. proc. pen;
        che,  infatti, dal testo del richiamato art. 64 del codice di
rito e dalla elencazione dei casi in cui si rende necessario l'avviso
anzidetto  (come  puo'  dedursi  dal  richiamo  espresso  che compare
nell'art. 210,  comma 6, cod. proc. pen.), «sembrerebbe evincersi che
la   disposizione   non   si   possa  applicare  nel  caso  di  esame
dell'imputato  che  si  svolga  nel  corso del processo a suo carico.
Questi infatti, non e' persona «sottoposta alle indagini», ed essendo
sentita  in  dibattimento non puo' dirsi soggetta a «interrogatorio»;
infine,  non  si  rientra  in  nessuno  dei  casi, pur estensivamente
interpretati, di cui all'art. 210 cod. proc. pen.»;
        che,  a  colmare  questa  lacuna  -  ad  avviso  del  giudice
rimettente   -   non  potrebbe  neppure  soccorrere  l'analogia,  cui
sarebbero   di   ostacolo   non  soltanto  considerazioni  di  ordine
sistematico,  nonche'  la  circostanza  che  lo  status di testimone,
attese  le  peculiarita'  che  lo  caratterizzano,  «non  puo' essere
attribuito  se  non  sul presupposto di una specifica disposizione di
legge»;  quanto,  e  soprattutto,  il  rilievo  che  la  sanzione  di
inutilizzabilita',  conseguente  alla  omissione  dell'avviso  di cui
innanzi  si  e'  detto, ha carattere tassativo, a norma dell'art. 191
cod.  proc.  pen.:  pertanto  - conclude il rimettente - «in forza di
tale  principio,  un'eventuale  applicazione  analogica dell'art. 64,
comma 3, lett. c), si risolverebbe in una norma senza sanzione, posto
che  l'inutilizzabilita'  comminata dal comma 3-bis dell'art. 64 cod.
proc. pen., per l'ipotesi di omesso avvertimento, non potrebbe essere
estesa per analogia»;
        che,  alla  luce  degli  accennati  rilievi, si profilerebbe,
pertanto,  un contrasto con il principio della ragionevole durata del
processo  sancito  dall'art. 111,  secondo comma, della Costituzione;
tale   principio  -  imponendo  di  «eliminare  tutti  quei  passaggi
procedimentali  che  non  rivestano  alcuna reale utilita' operativa,
ovvero  che  non  siano espressione di ulteriori valori o principi di
rilievo  costituzionale» - risulterebbe leso nel caso di specie dalla
circostanza  che  l'imputato,  ancorche'  dichiarante  erga alios nel
processo  a  suo  carico, non puo' assumere l'ufficio di testimone in
relazione a quelle dichiarazioni: con la conseguente necessita' - non
riconducibile  ad esigenze di garanzia o di carattere investigativo -
di  un  successivo interrogatorio da parte del pubblico ministero, al
fine  di  poter  effettuare  gli avvisi di cui all'art. 64 cod. proc.
pen., necessari per assumere tale ufficio;
        che,   secondo   il  rimettente,  sarebbe  violato  anche  il
principio   di   ragionevolezza   a  norma  dell'art. 3  della  Carta
fondamentale,  posto  che  risulterebbe  di  tutta evidenza la «grave
incoerenza   di   ordine  sistematico»  nel  configurare  il  diritto
dell'imputato,  nel  corso  del  processo  a  suo  carico, di rendere
dichiarazioni   accusatorie   erga   alios,   senza   contemplare  un
correlativo  obbligo  di  testimonianza  e nonostante egli abbia gia'
assunto  «naturaliter  il  ruolo  di  testimone»:  anzi - conclude il
giudice  a  quo  -  sotto questo profilo, l'accoglimento del quesito,
«lungi  dal  creare ex novo detta qualita' in capo al dichiarante, si
limiterebbe  in  realta' a rimuovere un ingiustificato privilegio che
sottrae l'imputato dichiarante erga alios a tale status»;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo dichiararsi non fondata la questione; a parere della
difesa   erariale,   infatti,   la   situazione  normativa  in  esame
consentirebbe  una  interpretazione estensiva dell'art. 64 cod. proc.
pen., atteso che «il coordinato disposto dell'art. 64, comma 3, lett.
c) e dell'art. 197, lett. b), impone di leggere il primo articolo con
estensione   alla   persona   dell'imputato»,   con   la  conseguente
applicabilita'  della norma censurata in sede di esame dibattimentale
ed eliminazione di ogni profilo di illegittimita' costituzionale.
    Considerato  che  il  giudice a quo impugna, per contrasto con il
principio  di  ragionevolezza  e  di ragionevole durata del processo,
l'art. 64  del  codice  di  procedura  penale, nella parte in cui non
prevede   che   gli   avvisi   ivi  prescritti  debbano  essere  dati
all'imputato anche in sede di esame dibattimentale;
        che  a  fondamento  della  questione  sollevata sta l'opzione
ermeneutica secondo la quale la disposizione oggetto di impugnativa -
essendo   relativa   alla   «persona   sottoposta  alle  indagini»  e
riguardando   «l'interrogatorio»   -  non  potrebbe  essere  riferita
all'esame  dibattimentale; sicche' gli avvertimenti che consentono al
dichiarante  erga alios di assumere l'ufficio di testimone, «salve le
incompatibilita'   previste   dall'art. 197  e  le  garanzie  di  cui
all'art. 197-bis»,  non  potendo  essere rivolti nel corso dell'esame
stesso,  determinano la conseguenza di imporre, per il raggiungimento
di quegli effetti, un «interrogatorio» in ipotesi del tutto superfluo
sul  piano investigativo e neppure giustificato da esigenze di tutela
del diritto di difesa;
        che  l'ulteriore  ragion  d'essere  della questione sta nella
ritenuta   inapplicabilita'   della   analogia  (che  condurrebbe  ad
estendere   la  disciplina  prevista  dall'art. 64  cod.  proc.  pen.
all'esame  dibattimentale),  posto  che  l'assunzione dell'ufficio di
testimone  non  puo' che derivare direttamente dalla legge; mentre la
sanzione   della   inutilizzabilita'  delle  dichiarazioni,  ove  non
precedute  dall'avviso  -  avendo  tale  sanzione, ex lege, carattere
tassativo  -  non  potrebbe  mai  operare  in riferimento ad un «caso
analogo»,   rendendo,   dunque,  quest'ultima  ipotesi  sguarnita  di
conseguenze, nel caso di inosservanza delle prescrizioni;
        che  la  duplice e concorrente premessa interpretativa di cui
innanzi  si  e'  detto,  fa  leva,  principalmente,  su  elementi  di
carattere  formale,  per  porre in risalto i tratti differenziali che
separerebbero  fra  loro  l'interrogatorio,  da  un  lato, e l'esame,
dall'altro,  giacche'  essa finisce per concentrarsi essenzialmente -
nell'evocare  gli  elementi  tipizzanti  del primo - sul destinatario
dell'atto   (la   «persona   sottoposta   alle   indagini»)  e  sulla
peculiarita'  del  relativo  nomen  («interrogatorio», appunto, e non
esame);
        che,  peraltro, cosi' facendo, il giudice a quo ha trascurato
di   considerare   -   nel  quadro  della  prospettata  ricostruzione
interpretativa  e  degli effetti che da essa ha preteso di desumere -
la  consistente  serie di dati sostanziali i quali, invece, depongono
per l'appartenenza dei due atti processuali ad un medesimo genus;
        che  da un lato, infatti, e' ben vero che l'interrogatorio ha
di  regola sede all'interno della fase delle indagini preliminari, ma
cio'   non  rappresenta  certo  una  caratteristica  ineluttabile  di
quell'atto,  ben  potendo l'imputato (e non piu', dunque, la «persona
sottoposta alle indagini») essere interrogato nel corso della udienza
preliminare  (artt. 420-quater,  comma 3,  e 422, comma 4, cod. proc.
pen.)  e  financo  nel corso del giudizio, ove sia stata disposta una
misura cautelare (art. 294, commi 1 e 4-bis, cod. proc. pen.); mentre
per  contro  -  aspetto,  questo,  che sembra essere stato totalmente
negletto  dal giudice a quo - l'esame, proprio sul fatto altrui, puo'
anche  aver  sede  nella  fase delle indagini preliminari, attraverso
l'istituto  dell'incidente probatorio (art. 392, comma 1, lett. c), a
dimostrazione  di  come la qualita' del dichiarante, in rapporto allo
stadio raggiunto dal procedimento (imputato o persona sottoposta alle
indagini),  non possa assumersi a decisivo parametro di distinzione -
agli  effetti  che  qui  interessano  -  al  punto da far ritenere la
disciplina   dell'interrogatorio  concettualmente  incompatibile  con
quella dell'esame;
        che,  d'altro  lato,  tanto  l'interrogatorio  che l'esame si
iscrivono  agevolmente  nella  categoria  degli  atti  processuali  a
contenuto dichiarativo; entrambi possono essere ugualmente inquadrati
nel novero degli strumenti difensivi; comune e', inoltre, la presenza
di   connotazioni   probatorie;  tanto  l'uno  che  l'altro,  infine,
risultano  caratterizzati dalla identica garanzia del nemo tenetur se
detegere: e' lo stesso rimettente, infatti, a sottolineare, proprio a
questo  riguardo,  come  nessun  problema  si  ponga, in realta', «in
relazione  agli  avvertimenti sub lettere a) e b), di cui all'art. 64
c.p.p.,  essendo  questi  ultimi  sostanzialmente  desumibili gia' in
forza  degli  artt. 208  e  209,  comma 2,  c.p.p.,  che disciplinano
l'esame dell'imputato»;
        che,  pertanto,  risultando  possibili  letture  del  sistema
diverse  da quella posta a base della questione, e tali da vanificare
la premessa su cui essa si radica - potendosi legittimamente far leva
su  di  una  interpretazione  che  consente di rendere applicabile la
disciplina  degli  avvisi  anche all'istituto dell'esame - i dubbi di
legittimita'  costituzionale  prospettati  dal rimettente si rivelano
manifestamente infondati.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.