ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel   giudizio   di   legittimita'  costituzionale  dell'articolo 64,
commi 1,  2 e 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali   sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze  delle
amministrazioni pubbliche), promosso con ordinanza del 17 luglio 2002
dal  Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Bracuto
Maria  Rita  e  il  Comune di Genova, iscritta al n. 446 del registro
ordinanze  del  2002  e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale della
Repubblica italiana n. 40, 1ª serie speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 26 marzo 2003 il giudice
relatore Romano Vaccarella.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con  ordinanza  del  17 luglio  2002 il Tribunale di Genova,
sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale
dell'articolo 64,  commi 1,  2  e 3, del decreto legislativo 30 marzo
2001,   n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento  del  lavoro  alle
dipendenze  delle  amministrazioni pubbliche), in riferimento, quanto
ai  primi  due  commi, agli articoli 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111 e,
quanto al terzo, agli articoli 3, 76 e 111 della Costituzione.
    Espone  il  rimettente che il giudizio de quo e' stato introdotto
da  Maria Rita Bracuto nei confronti del Comune di Genova con ricorso
volto ad ottenere il riconoscimento del suo diritto alla progressione
economica,  previo  accertamento della nullita', per contrasto con il
contratto collettivo di comparto, della clausola di quello decentrato
che esclude dalla relativa valutazione i dipendenti con anzianita' di
servizio inferiore a due anni.
    Il  rimettente, premesse diffuse argomentazioni sulla delicatezza
del  nodo  interpretativo  dal  quale  dipende  l'accoglimento  o  la
reiezione   della   domanda   attrice,  rileva  che  tale  questione,
concernendo  la portata di un contratto sottoscritto dall'agenzia per
la  rappresentanza  negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN),
fa  scattare  il  complesso  meccanismo  delineato nei commi 1, 2 e 3
dell'art. 64  del  d.lgs.  n. 165  del 2001: in base a tali norme il,
enucleata  la questione, deve darne comunicazione all'ARAN e rinviare
la  trattazione  della causa a non prima di centoventi giorni. Spetta
poi all'ARAN convocare le organizzazioni sindacali stipulanti per una
eventuale  interpretazione  autentica della clausola o delle clausole
in  contestazione  o,  se  del caso, per una loro modifica. Peraltro,
l'interpretazione  autentica  o  la  modifica, una volta intervenute,
sono  tout court applicabili anche al processo in corso, in quanto il
secondo  comma  dell'art. 64  del  d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che
«all'accordo  sull'interpretazione  autentica  o sulla modifica della
clausola si applicano le disposizioni dell'art. 49», norma che, a sua
volta,  recita:  «l'eventuale  accordo ... sostituisce la clausola in
questione sin dall'inizio della vigenza del contratto».
    Rileva  anche  il  giudice  a  quo che il contratto collettivo si
configura,   almeno  nel  settore  dell'impiego  presso  la  pubblica
amministrazione,  quale  fonte  di  diritto oggettivo, posto che, tra
l'altro, contiene norme generali ed astratte; e' efficace erga omnes;
e'    soggetto   a   pubblicazione   nella   Gazzetta   Ufficiale   e
conseguentemente  all'operativita'  del  principio  iura novit curia,
nonche',  in  caso  di  contrasto  con altri contratti collettivi, al
principio  gerarchico,  ex  art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001, quale
criterio  di  soluzione  dei  conflitti  tra fonti operanti a livelli
diversi;  non e' derogabile ne' in peggio, ne' in meglio e si applica
automaticamente  al  posto  delle  clausole  difformi  del  contratto
individuale;  la  violazione o falsa applicazione delle norme in esso
contenute  costituisce,  ai  sensi  dell'art. 63, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, motivo del ricorso per cassazione.
    Cio'   posto,  ritiene  il  rimettente  che  i  primi  due  commi
dell'art. 64,  laddove impongono al giudice il temporaneo arresto del
giudizio,  violino:  gli  artt. 101,  102  e  111 Cost., configurando
l'interferenza  di  un  potere  normativo in un processo in corso, al
punto  che  la  decisione,  almeno  su un profilo della controversia,
viene  trasferita dalla sede giudiziaria ad altra sede e condizionata
a  un  intervento che sara' espressione di discrezionalita' normativa
o,  se  si  preferisce,  di  autonomia  negoziale,  ma non di uno ius
dicere;  l'art. 3  Cost.,  perche',  in  contrasto con il criterio di
fondo  ispiratore  della disciplina del pubblico impiego - volto alla
omogeneizzazione del trattamento sostanziale e processuale del lavoro
dipendente nel settore pubblico e in quello privato -, riservano alle
controversie  promosse  dai dipendenti della pubblica amministrazione
una regolamentazione diversa da quella dettata per altre categorie di
lavoratori;  l'art. 24  Cost.,  atteso  che privano di fatto la parte
della  facolta' di avvalersi della tutela cautelare, per la manifesta
incompatibilita' del meccanismo delineato nelle norme impugnate, vuoi
con  le  esigenze di celerita', proprie dei mezzi d'urgenza, vuoi con
una  valutazione  positiva  del  fumus boni iuris; gli artt. 24 e 111
Cost.  -  da  riguardarsi a questi fini in connessione tra loro e con
l'art. 6  della  Convenzione  europea  di  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo  e  delle  liberta' fondamentali - per essere il lavoratore
del tutto escluso dal tavolo delle trattative sindacali, sul quale in
definitiva  si  gioca  l'esito  della controversia, in violazione del
principio  della  «parita'  delle  armi»  delle  parti  nel processo;
l'art. 39  Cost.,  atteso che mentre la pubblica amministrazione puo'
far  valere  le  proprie  ragioni  anche  attraverso  l'ARAN,  che la
rappresenta e nei cui confronti essa esercita un potere di indirizzo,
tale  possibilita'  e'  preclusa  al singolo lavoratore, il quale del
resto  ben  potrebbe  non essere iscritto ad alcun sindacato o essere
portatore  di  un  interesse  in  contrasto  con  quello  collettivo;
l'art. 76  Cost., per eccesso di delega, in quanto l'art. 64 - che e'
norma  di  legge  delegata - senza alcuna specifica autorizzazione da
parte  del  delegante  innova  la  disciplina  del  processo  civile,
introducendo   un'ipotesi   di  arresto,  sia  pure  temporaneo,  del
processo.
    Rilevato  inoltre  che la caducazione di questa parte della norma
impugnata  imporrebbe  al  giudice  di  applicare tout court il terzo
comma dell'art. 64, osserva il rimettente che anche tale disposizione
e'  in  contrasto  con  l'art. 76,  perche',  imponendo al giudice di
emettere  una sentenza non definitiva su un determinato profilo della
controversia,  introduce,  ancora  una  volta, una rilevante modifica
della   preesistente   disciplina   processuale,   senza  una  delega
sufficientemente  specifica;  con  l'art. 3  Cost.,  sia alla stregua
delle  considerazioni  gia'  svolte  in  ordine  ai  primi  due commi
dell'art. 64,  sia  per  la  manifesta  irragionevolezza  del sistema
delineato;  con  l'art. 111 Cost., atteso che il processo, per essere
equo,   va   definito   entro  un  termine  ragionevole,  laddove  la
disposizione   censurata   impone   un  enorme  spreco  di  attivita'
giurisdizionale.
    2.1. - Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, costituitosi a
mezzo     dell'Avvocatura    generale    dello    Stato,    eccepisce
l'inammissibilita' o comunque la manifesta infondatezza del dubbio di
costituzionalita'.
    Ricordato  preliminarmente  che  il Tribunale di Genova ripropone
una   questione  gia'  sollevata  in  altra  occasione  e  dichiarata
inammissibile  dalla  Corte  costituzionale  con ordinanza n. 233 del
2002, per difetto di adeguata motivazione sul problema interpretativo
concernente la norma del contratto collettivo che in quel caso veniva
in  rilievo,  sostiene che l'incidente dovrebbe avere lo stesso esito
di quello precedente.
    Evidenzia,  poi,  l'insussistenza  del  lamentato contrasto delle
norme  censurate  con  gli artt. 24 e 111 Cost., sia perche' il mezzo
predisposto  dal  legislatore comporta solo un breve differimento del
processo,  sia in quanto esso presuppone un testo contrattuale oscuro
al  punto  che  «l'eventuale  accordo mai potrebbe essere accusato di
produrre  effetti ablatori di diritti gia' acquistati dalle parti del
rapporto»,  sia,  infine, (con riferimento alle argomentazioni svolte
in  punto di incompatibilita' della disciplina impugnata con i rimedi
di  urgenza)  perche'  alcuna  domanda cautelare risulta attivata nel
giudizio a quo.
    Sostiene, inoltre, che proprio la ratio sottesa al riconoscimento
alle  norme  pattizie del regime proprio degli atti normativi - ratio
connessa al rilievo della speciale posizione del datore di lavoro nel
momento della loro applicazione - spunta la fondatezza della denunzia
di  disparita' di trattamento, rispetto al diverso regime processuale
vigente  per  gli  atti  di autonomia collettiva del settore privato,
perche'  da'  conto della sostanziale disomogeneita' delle situazioni
poste  a  raffronto,  come  ritenuto  anche dalla Corte di cassazione
nella sentenza n. 10974 del 2000.
    In  ordine  alla seconda questione di costituzionalita', inerente
al  terzo comma dell'art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001, l'Avvocatura
evidenzia  l'assoluta  ragionevolezza della disciplina impugnata e la
sua congruenza rispetto alla divisata finalita' di evitare sprechi di
attivita' processuale.
    2.2. - Il    Presidente    del   Consiglio   dei   ministri   ha,
successivamente,  depositato  memoria  nella  quale  ha ulteriormente
illustrato  le  ragioni  addotte  a  sostegno  delle  sopra  riferite
conclusioni.

                       Considerato in diritto

    1. - Il   Tribunale   di   Genova   dubita   della   legittimita'
costituzionale  dell'art. 64, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo
30 marzo  2001,  n. 165  (Norme  generali sull'ordinamento del lavoro
alle  dipendenze  delle  amministrazioni  pubbliche)  in riferimento,
quanto  ai  primi due commi, agli artt. 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111
Cost. e, quanto al terzo comma, in riferimento agli artt. 3, 76 e 111
Cost.
    2. - Le  questioni  sollevate  sono  in parte inammissibili ed in
parte infondate.
    2.1. - Premesso  che  il  rimettente  espone di aver sollevato la
questione   di  legittimita'  costituzionale  non  appena  sorto  «un
delicato  problema  di interpretazione» relativamente al contratto di
comparto,  deve  essere,  in  primo  luogo, valutata la rilevanza nel
giudizio  a quo della questione posta, in riferimento agli artt. 101,
102   e  111  Cost.,  relativamente  alla  idoneita'  dell'accordo  -
raggiunto  dall'ARAN  e  dalle organizzazioni sindacali stipulanti il
contratto  collettivo circa l'interpretazione autentica o la modifica
della  clausola  controversa  -  ad  incidere sulla controversia gia'
insorta  davanti al giudice, imponendosi con efficacia retroattiva al
giudice  stesso  e,  quindi,  «configurandosi come interferenza di un
potere normativo in un processo in corso».
    Il  rimettente,  inoltre,  censura  -  in  relazione al combinato
disposto  degli  artt. 24 e 111, commi primo e secondo, Cost. (questi
ultimi  trasposizione  -  osserva  il rimettente - dei principi sulla
«parita'  delle  armi» di cui all'art. 6 della Convenzione europea di
salvaguardia  dei  diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali) -
l'art. 64,  commi 1  e  2,  del  d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto il
pubblico  dipendente  «non  dispone  piu'  ... di una sede in cui far
valere  il  proprio  punto di vista, mentre la controparte attraverso
l'ARAN,  che  e'  un  rappresentante  della  p.a., puo' far valere le
proprie  ragioni  nella sede delle trattative sindacali, sede che ...
viene, sia pure in via eventuale, a sostituire quella processuale».
    La  norma  censurata, ancora, confliggerebbe con l'art. 39 Cost.,
laddove   il  principio  della  liberta'  sindacale  (  primo  comma)
comporterebbe  «la  facolta' per il singolo di prospettare, in ordine
ai  prodotti della contrattazione collettiva, le proprie esigenze, il
proprio  punto  di  vista,  e  di  manifestare  il proprio dissenso»;
facolta'   della   quale   sarebbe   «spogliato   persino   in   sede
giurisdizionale». Violati sarebbero altresi' i commi secondo, terzo e
quarto  dell'art. 39  Cost.,  in quanto l'accordo di cui all'art. 64,
comma 2,  del  d.lgs.  n. 165  del  2001  potrebbe  intervenire,  con
efficacia  erga omnes, con le organizzazioni sindacali firmatarie del
contratto  da  interpretare  o  modificare, «a prescindere dalla loro
attuale  rappresentativita»,  e, quindi, con violazione del principio
di  maggioranza  al  quale,  viceversa,  si ispira (in relazione alla
stipula  di  contratti  collettivi efficaci erga omnes) l'art. 43 del
d.lgs. n. 165 del 2001.
    E'  del  tutto  evidente  il carattere meramente ipotetico, e con
cio'  stesso  l'irrilevanza,  delle  questioni  fin  qui esposte, non
essendosi  certamente  verificata nel giudizio a quo - per non essere
stata  rimessa  all'ARAN,  ex art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 165 del
2001,  la  questione  interpretativa  e per non essere stata, quindi,
nemmeno  avviata  la  procedura eventualmente idonea a sfociare in un
accordo  - la paventata «situazione caratterizzata da una commistione
fra  il  piano  normativo  e  quello  giudiziario»  ed il conseguente
(asserito) trasferimento della «decisione ... dalla sede del processo
in  corso  ...  ad  altra  sede»;  cosi'  come  non si e' in concreto
verificata  la  situazione  suscettibile di dar luogo agli ulteriori,
pretesi contrasti con i precetti costituzionali.
    2.2. - Gli   altri   profili   della  questione  di  legittimita'
costituzionale,  in  quanto  investono la disciplina del procedimento
quale   segue   al   sorgere  della  questione  interpretativa,  sono
ammissibili   -   essendo  rilevante  il  modus  procedendi,  in  se'
considerato,  al  quale  il  giudice e' tenuto ad uniformarsi, quando
sorga una questione interpretativa -, ma, come si e' detto, essi sono
infondati per le considerazioni che seguono.
    3. - L'art. 64,   comma 2,  del  d.lgs.  n. 165  del  2001  viene
censurato,  in  riferimento  all'art. 3  Cost.,  per l'ingiustificata
disparita'  della  disciplina  processuale  applicabile  al  pubblico
dipendente   rispetto   al  lavoratore  privato;  disparita'  che  si
concreterebbe in un trattamento deteriore per il pubblico dipendente,
nonostante   la   riforma   del   pubblico   impiego   tendesse  alla
«omogeneizzazione  della  disciplina  sostanziale  e  processuale» di
tutto il lavoro dipendente, pubblico e privato.
    La censura e' priva di fondamento.
    Premesso che di tendenziale «omogeneizzazione» puo' parlarsi solo
con  riguardo  alla disciplina sostanziale (art. 11, comma 4, lettera
a,  legge  15 marzo  1997,  n. 59), laddove per quella processuale la
citata  legge  delega  si  limitava  a prevedere la devoluzione delle
controversie  al  giudice ordinario (art. 11, comma 4, lettera g), e'
evidente  che  - come questa Corte ha piu' volte statuito (da ultimo,
con  sentenza  n. 82  del  2003)  -  non  puo' parlarsi di una totale
identita' di situazioni che renderebbe irrazionale ogni diversita' di
disciplina processuale.
    Le  peculiarita'  del  contratto collettivo nel pubblico impiego,
sulle quali ampiamente il rimettente indugia - «efficace erga omnes»,
«funzionale   all'interesse   pubblico  di  cui  all'art. 97  Cost.»,
inderogabile sia in pejus che in melius, oggetto di diretto sindacato
da   parte   della   Corte  di  cassazione  per  violazione  o  falsa
applicazione (art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001) - rendono
evidente   l'impossibilita'  di  ritenere  a  priori  irrazionali  le
peculiarita'  della  disciplina  del  processo  in cui quel contratto
collettivo  -  ben  diverso da quelli cosiddetti di diritto privato -
deve essere applicato.
    Quelle  peculiarita'  sarebbero,  pertanto, sindacabili da questa
Corte non gia' in se' e per cio' solo che segnano differenziazioni di
disciplina,  ma  solo  se  irragionevoli;  il  che, con la censura in
esame, non e' in alcun modo dedotto.
    4. - L'art. 64,   comma 1,  del  d.lgs.  n. 165  del  2001  viene
censurato,   in   riferimento  all'art. 24  Cost.,  perche'  «la  sua
macchinosita»,   con  l'arresto  del  processo  per  120  giorni,  lo
renderebbe incompatibile con la tutela cautelare.
    Anche tale censura e' destituita di fondamento.
    La  tesi  secondo  la  quale  al  giudice, in quanto vincolato ad
investire  della  questione interpretativa l'ARAN, sarebbe inibito di
valutare - se richiesto di una misura cautelare - il fumus boni juris
appare  non  solo  intesa  ad  ignorare  il  dovere  del  giudice  di
interpretare  le  norme  in  senso,  finche' possibile, conforme alla
Costituzione,  ma  anche  palesemente  errata,  atteso  che la natura
sommaria  della  valutazione  e'  ben compatibile con una (anteriore,
coeva   o   successiva)  rimessione  della  questione  interpretativa
all'ARAN  ai  fini della (successiva) decisione di merito; senza dire
che   il   vigente   art. 412-bis  del  codice  di  procedura  civile
(introdotto  dal medesimo provvedimento - d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80
- trasfuso nel d.lgs. n. 165 del 2001) prospetta un'ipotesi in cui un
istituto  di generale applicazione in ogni controversia di lavoro (il
tentativo  obbligatorio  di  conciliazione) si arresta in presenza di
un'istanza   cautelare,  prevalendo  -  sulle  altre  perseguite  dal
legislatore - le esigenze proprie della tutela cautelare.
    5. - Altrettanto  infondato  e'  il  dubbio  di costituzionalita'
sollevato, in riferimento all'art. 76 Cost., per avere il legislatore
delegato   -   autorizzato  ad  introdurre  «misure  organizzative  e
processuali  anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni
dovute   al   sovraccarico   del   contenzioso»   (art. 11,  comma 4,
lettera g),  legge  n. 59  del  1997)  -  «innovato la disciplina del
processo  civile,  introducendo,  come  si  e'  visto,  un'ipotesi di
arresto,  sia pure temporaneo, del processo stesso». Analogo dubbio -
che merita, pertanto, di essere esaminato congiuntamente - solleva il
rimettente  con  riguardo alla norma (art. 64, comma 3) che impone al
giudice,  ove non intervenga l'accordo tra l'ARAN e le organizzazioni
sindacali, di «emettere una sentenza non definitiva su un determinato
profilo   della   controversia,   privandolo   di   ogni  valutazione
discrezionale   sull'opportunita'   di  rinviare  ogni  decisione  al
definitivo», laddove - in assenza di una specifica prescrizione della
legge  delega  -  andrebbe  «restituita  al  giudice ogni valutazione
discrezionale  in  merito all'opportunita' di emettere allo stato una
sentenza  non  definitiva,  o  di  rinviare  ogni decisione a seguito
dell'ulteriore trattazione del processo».
    Questa  Corte  ha  costantemente  affermato  che  il  giudizio di
conformita'  della  norma  delegata  alla  norma delegante si esplica
attraverso  il  confronto  tra  gli esiti di due processi ermeneutici
paralleli,  tenendo  conto delle finalita' che, attraverso i principi
ed   i  criteri  enunciati,  la  legge  delega  si  prefigge  con  il
complessivo  contesto  delle  norme  da essa poste e tenendo altresi'
conto  che  le  norme  delegate  vanno  interpretate  nel significato
compatibile  con  quei  principi e criteri (sentenze n. 425 del 2000;
n. 15  del  1999), in quanto «la delega legislativa non fa venir meno
ogni  discrezionalita'  del  legislatore delegato, che risulta piu' o
meno ampia a seconda del grado di specificita' dei principi e criteri
fissati  nella  legge  delega»  (ordinanza n. 490 del 2000); sicche',
«per  valutare  di  volta  in  volta se il legislatore delegato abbia
ecceduto  tali  -  piu'  o  meno  ampi - margini di discrezionalita',
occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma
delegata sia ad essa rispondente» (sentenza n. 163 del 2000).
    Alla  luce  di  questi principi vanno considerate le «innovazioni
processuali»   attraverso   le   quali  il  legislatore  delegato  ha
realizzato  le «misure organizzative e processuali anche di carattere
generale  atte  a  prevenire  disfunzioni  dovute al sovraccarico del
contenzioso»,  affidategli  dalla  legge  delega:  disfunzioni temute
quale effetto, da un lato, della devoluzione del contenzioso non piu'
ad   un  ristretto  numero  di  giudici  di  legittimita'  (Tribunale
amministrativo  regionale)  bensi' ad un elevato numero di giudici di
merito  (Tribunali)  e,  dall'altro  lato,  quale conseguente effetto
delle possibili, divergenti interpretazioni del contratto collettivo.
    Proprio la peculiare natura - quale sopra (n. 3) si e' illustrata
-  del  contratto  collettivo disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001
rende  evidente l'esigenza, avvertita dal legislatore delegante anche
per  i riflessi sui valori protetti dall'art. 97 Cost., di meccanismi
idonei ad evitare il rischio di una «polverizzazione» delle decisioni
che,  nel  concreto,  avrebbe  vanificato  la  perseguita uniformita'
dell'applicazione  del  contratto  collettivo;  meccanismi  di natura
preventiva  che,  attesa  la  rilevanza  fondamentale  delle esigenze
considerate  dalla  legge  delega, il legislatore delegato ben poteva
(ed anzi era tenuto ad) individuare. Invero, questa Corte ha statuito
che la disposizione di cui all'art. 76 Cost. «non osta all'emanazione
di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche
un  completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante; va
escluso,  infatti,  che  le  funzioni  del legislatore delegato siano
limitate ad una mera «scansione linguistica» delle previsioni dettate
dal  delegante, essendo consentito al primo di valutare le situazioni
giuridiche  da  regolamentare  e di effettuare le conseguenti scelte,
nella  fisiologica  attivita' di «riempimento» che lega i due livelli
normativi,  rispettivamente,  della  legge di delegazione e di quella
delegata» (cosi', sentenza n. 308 del 2002; conformi: sentenze n. 198
del 1998, n. 117 del 1997, n. 4 del 1992).
    Inteso,  come  deve  essere, nel complessivo contesto delle norme
poste  dalla legge delega, il principio da questa fissato in subiecta
materia  del  tutto  adeguamente  e'  stato tradotto, dal legislatore
delegato,  in  una  disciplina  che,  in presenza di una (ovviamente,
«seria»)  questione interpretativa, fa della controversia individuale
l'occasione  per  pervenire ad una definitiva, perche' potenzialmente
generale,  soluzione  della  questione e, quindi, alla rimozione erga
omnes   della  situazione  di  incertezza  posta  in  evidenza  dalla
controversia.
    Disciplina  che,  del  tutto razionalmente, affida tale risultato
ora  alla  contrattazione  collettiva  ora,  in difetto dell'efficace
funzionamento   del  primo  strumento,  ad  un  meccanismo  puramente
processuale   (sentenza  non  definitiva)  teso  a  provocare  (anche
attraverso  la  pluralita'  dei  legittimati al ricorso) l'intervento
della  Corte  di  cassazione  con  una pronuncia che, senza ledere il
principio  della  soggezione  del giudice alla legge, tendenzialmente
vincola  tutti i giudici, contestualmente o in futuro investiti della
medesima questione.
    Checche' si pensi della opportunita' della scelta del legislatore
delegato,  il  meccanismo  e'  certamente  in  sintonia  con lo scopo
perseguito  dalla  legge  delega e con il generale contesto normativo
che  quello  scopo  ha suggerito; e deve, pertanto, escludersi che il
legislatore delegato abbia ecceduto rispetto alla delega.
    6. - E'  del  tutto  ovvio, per quanto si e' appena detto, che un
meccanismo  inteso  ad  utilizzare  la controversia individuale quale
occasione   per   diradare,  in  termini  generali  e  potenzialmente
definitivi,  ogni incertezza sull'interpretazione ed applicazione del
contratto   collettivo   possa   in   qualche   misura  «sacrificare»
l'interesse  del singolo lavoratore dedotto nel giudizio individuale:
sacrificio  consistente  sia  nella  «pausa»  di  120 giorni concessi
all'ARAN ed alle organizzazioni sindacali per pervenire ad un accordo
sulla  clausola  controversa, sia nella previsione che, in difetto di
accordo,  il giudice si astenga, comunque, dal decidere nel merito la
controversia,   ma   provveda   a   risolvere   la   sola   questione
interpretativa   con   sentenza   non   definitiva,  ricorribile  per
cassazione.
    Premesso  e  ribadito  che  siffatto  meccanismo  (e  conseguente
«sacrificio»  per  il  singolo)  opera  soltanto  in  presenza di una
«seria»  questione interpretativa (e, puo' aggiungersi, sempre che la
domanda  sia  concludente  e  non  sussistano eccezioni, di rito e di
merito, che ne impongano l'immediato rigetto), appaiono destituite di
fondamento  le  censure di illegittimita' costituzionale sollevate in
riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.
    Esclusa  in  radice l'irragionevolezza del meccanismo (e, quindi,
anche del diverso trattamento rispetto al lavoratore privato), e' del
pari da respingere la tesi secondo la quale vi sarebbe «uno spreco di
attivita'  giurisdizionale»  e una «non ragionevole, e quindi iniqua,
durata  del  processo»:  che  la singola controversia possa subire un
iter piu' lungo di quello (che sarebbe stato) normale e' indubbio, ma
appartiene   altrettanto   indubbiamente  alla  discrezionalita'  del
legislatore  optare  per  una  soluzione  che, a fronte di un modesto
sacrificio  del singolo, sia idonea a produrre in termini di certezza
(e, quindi, tra l'altro, di prevenzione di imponenti contenziosi e di
piu'  agevole  definizione  di altre controversie pendenti) rilevanti
vantaggi di carattere generale.