IL TRIBUNALE

    All'esito  dell'udienza  preliminare nel procedimento a carico di
Glauco  Zaniolo e Giovanni Zonin, imputati per i reati di cui ai capi
B e C della rubrica (allegata), osserva quanto segue.
    Agli  imputati  e'  contestata la violazione dell'art. 136 d.lgs.
n. 385/1993  per  avere  indirettamente contratto obbligazioni con la
banca di cui erano amministratori.
    La  difesa  degli  imputati  ha sostenuto che la detta norma (che
richiama  quoad  poenam  l'art. 2624 c.c.) sarebbe stata abrogata per
effetto della modifica intervenuta con il d.lgs. n. 61/2002. Cio' sul
presupposto  che  la  nuova disposizione dell'art. 2624 sarebbe norma
del  tutto  eterogenea  rispetto  alla previgente. «Il fatto che dopo
l'entrata  in  vigore  del  d.lgs  n. 61/2002  la norma dell'art. 136
T.U.B.   faccia  rinvio  per  il  trattamento  sanzionatorio  ad  una
fattispecie  sostanzialmente  eterogenea rispetto a quella previgente
costituisce un indice univoco che l'art. 136 T.U.B. deve considerarsi
implicitamente  abrogato  ex  art. 115 delle disp. prel. al c.c. «per
incompatibilita'   fra   le  nuove  disposizioni  e  le  precedenti».
Comunque,  ha  proseguito  la  difesa,  anche a ritenere non abrogato
l'art. 136 T.U.B. lo stesso avrebbe assunto natura contravvenzionale,
per  il  mutamento  di pena che comporta il rinvio al nuovo art. 2624
c.c.  con  conseguente  mutamento della struttura dell'illecito e con
ultima  conseguenza la «discontinuita» tra la vecchia forma del reato
e quella che cosi' sarebbe sorta».
    Il  p.m.  e  la  difesa delle parti civili, hanno dal canto loro,
escluso  una abrogazione della fattispecie di cui all'art. 136 T.U.B.
mettendo  l'accento sulle diversita' strutturali del due reati, ed in
particolare  sulla  maggiore  ampiezza  della  previsione della norma
bancaria  (obbligazioni  di  qualsiasi  natura) rispetto a quella del
2624 (prestiti e garanzie).
    Ad  avviso  del  giudicante,  la  tesi  dell'abrogazione, seppure
suggestiva,  non puo' essere accolta poiche' il mero rinvio alla pena
stabilita da altra norma non implica necessariamente un rinvio mobile
a  quella  norma  (con  conseguente  assorbimento  delle modifiche di
quella),  ben  potendo  essere  espressione  di tecnica normativa che
individua  una tantum la pena edittale con un rinvio, fisso, ad altra
disposizione.
    Oltre  a  cio',  l'abrogazione  di  una  norma  deve  pur  sempre
trasparire  dalla  volonta' del legislatore, volonta' che puo' essere
anche   inespressa   mediante   l'incompatibilita'   tra   una  nuova
disposizione  e  quella precedente, secondo le regole di cui all'art.
15 prel.
    Nel  caso, non puo' desumersi, dall'avvenuta modifica della norma
alla quale altra faceva rinvio per la sola determinazione della pena,
una  volonta'  di  regolamentare  diversamente  o  non  regolamentare
affatto  la  materia della responsabilita' penale per le obbligazioni
degli esponenti bancari, perche' nessuna regolamentazione sostanziale
incompatibile si rinviene nella riforma, cosicche' deve desumersi che
in  nessun  modo,  neppure  «indiretto»  il  legislatore abbia voluto
eliminare  o  diversamente  costruire  quel  reato.  Tra l'altro, col
d.lgs.  n. 61/2002,  in  attuazione  a  importante  legge  delega, il
legislatore ha nuovamente regolato l'intera disciplina degli illeciti
societari,  prevedendo  anche  la  specifica  abrogazione  di ipotesi
delittuose previste dal d.lgs. n. 385/1993 (T.U.B.). Se avesse voluto
abrogare  anche l'art. 136, lo avrebbe detto, visto che ha cancellato
il  mendacio  (art.  137)  e l'aggiotaggio (art. 138). Proprio questo
ultimo  reato,  nuovamente  scritto  con  l'attuale  art.  2637 c.c.,
dimostra  che  nessuna  abrogazione  implicita era nella volonta' del
legislatore.
    Non  puo',  pero',  non  osservarsi  come  vi  fosse, prima della
novella,  una  stretta correlazione tra l'art. 2624 c.c. e l'art. 136
T.U.B. (e le norme che lo hanno preceduto); la dottrina ha pressoche'
unanimamente  ritenuto  che  le  due  norme  fossero  in  rapporto di
specialita',  l'una  costituendo  la  regola  generale,  l'altra  una
eccezione  meno  rigorosa.  Come rilevavano gli interpreti, mentre la
norma  dell'art. 2624  faceva divieto assoluto agli amministratori di
contrarre prestiti e garanzie con la propria societa', l'art. 136, in
ragione   della  attivita'  svolta  dalle  banche,  permetteva  cio',
condizionando la liceita' della operazione al rispetto di determinate
procedure. La detta tesi va sicuramente condivisa, trovando riscontro
puntuale  nella  genersi  storica delle due norme, nella ratio che le
accomuna, nel dato testuale del secondo comma dell'abrogato art. 2624
e nel terzo comma dell'art. 136 T.U.B.
    Il  fatto  che  la disposizione dell'art. 136 T.U.B. sia in parte
piu'  ampia  (qualsiasi  obbligazione  al  posto  dei soli prestiti e
garanzie)  non  altera  quella  che  era  la  funzione  e la ratio di
entrambe  le  norme,  ed  e'  giustificato dalla garanzia posta dalle
modalita' di autorizzazione.
    Deve  pur sempre rilevarsi come la previsione dell'art. 2624 c.c.
fosse  comunque  piu rigorosa, piu' severa della disposizione per gli
esponenti   bancari,  ponendo  un  divieto  assoluto,  a  fronte  del
«permesso condizionato» stabilito dall'art. 136 citato.
    A  parere  del  giudice, a fronte della completa ridefinizione di
tutta  la  materia  dei  reati  societari  operata con la novella del
d.lgs.  n. 61/2002,  la  cui  aurea  regola  ispiratrice  e' stata la
riduzione   dell'ambito  dell'intervento  penale  nel  settore  delle
societa'  e  una  maggiore  specificazione  delle ipotesi di reato (a
favore  delle  fattispecie  di danno e dell'intensita' della volonta'
dell'agente),   la  mancata  abrogazione  della  fattispecie  di  cui
all'art. 136   T.U.B.,  allorquando  si  e'  abrogata  la  disciplina
dell'art.  2624  e  reso  libero  cio' che un tempo era assolutamente
vietato  per  la  generalita'  degli  amministratori,  crea  una  non
giustificata  disparita'  di  trattamento  tra  gli amministratori di
societa' non «creditizie» e quelle «creditizie».
    La  nuova  normativa, infatti, considera reato solamente cio' che
un  tempo  costituiva  ipotesi  meno  grave.  Come sottolineato dalle
difese,  «si  giungerebbe  al  paradossale risultato ermeneutico che,
venuta  meno  la  norma  generale,  la  quale  proibiva  il ricorso a
prestiti  e garanzie per gli organi di amministrazione e controllo di
una  societa',  resta  ancora  vigente la norma eccezionale, la quale
dettava un particolare regime per gli esponenti bancari».
    Ne' puo' dirsi che vi sia continuita' con la disciplina di cui al
novellato   art.  2634,  che  regola  le  ipotesi  di  «conflitto  di
interesse»,  per  la diversita' strutturale delle due norme. Inoltre,
detta  disposizione  e'  applicabile, in virtu' dell'art. 135 T.U.B.,
anche agli amministratori di banche, consentendo, quindi, la medesima
«copertura» penale nelle ipotesi di «infedelta' patrimoniale».
    Tale  disparita'  di  trattamento  (in  assoluto  e alla luce dei
principi  ispiratori  della  riforma  dei  reati societari) non trova
ragionevole   giustificazione  ed  e',  pertanto,  in  contrasto  con
l'art. 3  della Costituzione sia sotto l'aspetto della violazione del
principio di uguaglianza sia di quello del difetto di ragionevolezza,
per l'incongruo voluto permanere di una norma incriminatrice a fronte
di un totale riassetto della materia, che la pone in contrasto con la
sistematicita' della stessa.
    La  questione  e'  rilevante  nel caso attesa l'imputazione mossa
agli   odierni   imputati   (che  debbono  rispondere  proprio  della
violazione   di   cui  all'art.  136  T.U.B.)  e  non  manifestamente
infondata, per quanto si e' detto.
    In  presenza  di un tale dubbio, questo giudice deve rimettere la
questione  al giudice delle leggi, ritenendo che l'art. 8 del decreto
legislativo  11  aprile  2002, n. 61 sia incostituzionale laddove non
prevede  la  abrogazione  anche dell'art. 136 del d.lgs. 1° settembre
1993, n. 385.
    Il  processo  va  conseguentemente sospeso con trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale.