LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Esaminati  gli  atti  della  causa  tra  regione  dell'Umbria, in
persona  del  Presidente  della  giunta  pro tempore, rappresentata e
difesa per legge dall'Avvocatura dello Stato di Perugia, presso i cui
uffici  domicilia  in  Perugia, via degli Offici n. l4; appellante; e
Rossi  Silvio  Francesco,  elettivamente  domiciliato  in via Bartolo
n. 54  presso  lo  studio  dell'Avv.to Fabrizio D. Mastrangeli che lo
rappresenta  e  difende in forza di procura speciale estesa a margine
della memoria difensiva; appellato.
    Premesso  che  con  ricorso  depositato  presso la cancelleria di
questa Corte in data 15 febbraio 2002 e notificato assieme al decreto
di   fissazione  dell'udienza  in  data  7 maggio  2002,  la  Regione
dell'Umbria  proponeva  appello avverso la sentenza n. 2174/2001 resa
inter  partes dal giudice del lavoro del Tribunale di Perugia in data
25 gennaio 2002 e notificata il 5 febbraio 2002;
        che  l'appellante rassegnava le seguenti conclusioni: «Voglia
l'Ill.ma   Corte   adita,   in  accoglimento  del  presente  gravame,
dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in ordine alle pretese
derivanti  dal  periodo  di  rapporto  anteriore  al  30 giugno 1998,
dichiarando,  in  ogni  caso  ed  in via gradata, che nulla e' dovuto
dalla  Regione  dell'Umbria  all'odierno  appellato.  Con vittoria di
spese»
        che  nel  Giudizio  di  appello  si  costituiva il sig. Rossi
Silvio  Francesco,  con  memoria  difensiva  in data 29 ottobre 2002,
rassegnando  le seguenti conclusioni: «In tesi: voglia l'ecc.ma Corte
rigettare   integralmente   l'avverso  atto  di  appello,  in  quanto
inammissibile e comunque infondato; voglia condannare l'appellante al
pagamento  delle  spese  tutte  del  presente  grado  di giudizio. In
ipotesi subordinata: voglia dichiarare rilevante e non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale, in relazione
agli   artt. 3,   36  e  97  Cost.,  dell'art.56  d.lgs.  n. 29/1993,
dell'art. 56 d.lgs. 165/2001 e dell'art. 15 d.lgs. n. 387/1998, e per
l'effetto  sospendere  il  presente giudizio rimettendo gli atti alla
Corte costituzionale».
        che  all'udienza del 13 febbraio 2003 le parti chiedevano che
il  giudizio  venisse  deciso  e  la  Corte  si ritirava in Camera di
Consiglio per deliberare;
        che successivamente la Corte dava lettura di ordinanza con la
quale  si  riservava  in ordine alla eccezione di incostituzionalita'
sollevata dalla difesa dell'appellato;

                          Rilevato in fatto

    Il sig. Rossi Silvio Francesco chiedeva ed otteneva, nel giudizio
di  primo  grado,  che  fosse accertato lo svolgimento da parte dello
stesso   di   mansioni   superiori   alle  dipendenze  della  Regione
dell'Umbria   -  inquadrabili  al  IX  livello  di  qualifica  -  dal
1° ottobre  1991 al 31 dicembre 1998; in virtu' di tale elemento, con
la sentenza emessa dal giudice di prime cure, il sig. Rossi si vedeva
anche  riconoscere  le  differenze  retributive  tra  il  livello  di
qualifica riconosciuto dalla regione e quello afferente alle mansioni
effettivamente   svolte,  accertate  nel  giudizio  di  primo  grado,
relativamente a due diversi periodi, ed in particolare: le differenze
retributive  fra  il  VI  ed  il  IX  livello  di  qualifica  sino al
5 novembre  1992;  fra  il  VII  ed il IX livello di qualifica per il
periodo successivo, fino al 31 dicembre 1998.
    Sosteneva  infatti il sig. Rossi la diretta applicabilita', anche
nell'ambito  dei  rapporti di pubblico impiego, del principio sancito
all'art. 36  Cost.  anche  in  relazione  all'an. 3 Cost., in base al
quale  tutti  i lavoratori, siano essi dipendenti da datori di lavoro
pubblici  o  privati,  hanno il pieno diritto ad essere retribuiti in
base  «alla  quantita'  ed  alla  qualita'  del  lavoro prestato», in
conformita' alle mansioni effettivamente svolte dai medesimi.
    Argomentava    inoltre    il    ricorrente,    con    riferimenti
giurisprudenziali anche alle note pronunce della Corte costituzionale
in  materia (in particolare alle sentenze n. 23 febbraio 1989 n. 57 e
19 giugno  1990 n. 296) ed alla dottrina conforme alla tesi difensiva
prospettata,  che  una  diversa  conclusione  in  ordine alla diretta
applicabilita'   della  norma  costituzionale  in  questione  avrebbe
comportato  una  violazione  del  principio  di uguaglianza formale e
sostanziale  sancito  dall'art. 3  Cost.,  con  una ingiustificata ed
illegittima disparita' di trattamento tra soggetti inconciliabile con
i sopra ricordati principi.
    Gravando  in  Appello  la  sentenza  di  primo  grado, la Regione
dell'Umbria  ribadisce  in  primo  luogo  il difetto di giurisdizione
dell'A.G.O.; contesta inoltre la diretta applicabilita' del principio
di   cui  all'art. 36  Cost.  nell'ambito  del  pubblico  impiego  e,
conseguentemente,  disconosce  ogni rilevanza, anche sotto il profilo
retributivo,  dello svolgimento di mansioni di fatto in tale settore,
facendo  riferimento  agli artt. 97 e 98 Cost. che osterebbero a tale
diretta applicabilita'.
    Sostiene  inoltre  l'appellante  che,  sulla  base  del  disposto
dall'art. 56  d.lgs.  n. 29/1993 (come sostituito dall'art. 25 d.lgs.
n. 80/1998),  il riconoscimento della rilevanza economica e giuridica
dello  svolgimento  delle  mansioni  superiori  nel  pubblico impiego
privatizzato  deve  farsi  decorrere  dalla  emanazione  della  nuova
disciplina  degli  ordinamenti  professionali  previsti dai contratti
collettivi.
    Da' atto l'appellante che, a seguito delle modifiche apportate al
comma  6 del predetto art. 56 da parte dell'art. 15 d.lgs. 29 ottobre
1998  n. 387,  la  disciplina relativa alla rilevanza economica delle
mansioni  superiori  eventualmente  svolte dai pubblici dipendenti e'
divenuta    immediatamente    operativa;    tuttavia,    secondo   la
prospettazione  della  regione,  troverebbe  applicazione solo per il
futuro,  cioe'  solo  dopo  l'entrata  in  vigore del medesimo d.lgs.
n. 387/1998,  e  quindi non potrebbe trovare applicazione nel caso di
specie.
    Sul  punto,  osserva  la  difesa  del  sig. Rossi  che, ove fosse
ritenuto   insussistente   il  diritto  alle  variazioni  retributive
reclamato  dall'appellato  ed  ove  tale  insussistenza  fosse  fatta
derivare   dall'applicazione   dell'art. 56   d.lgs.   n. 29/1993   e
dall'art. 15  d.lgs.  387/1998,  si  prospetterebbe  l'illegittimita'
costituzionale  delle predette norme con riferimento agli artt. 36, 3
e  97 Cost., anche in considerazione del fatto che nel caso di specie
lo svolgimento delle mansioni superiori da parte del sig. Rossi si e'
protratto  anche  oltre  la  data  di  entrata  in  vigore del d.lgs.
n. 378/1998.

                         Ritenuto in diritto

    Va  in  primo  luogo  disattesa l'eccezione sollevata dalla parte
appellante  relativa  al difetto di giurisdizione di questa autorita'
giurisdizionale.
    Correttamente ha infatti evidenziato il giudice di prime cure che
l'art. 47  comma  17 d.lgs. n. 80/1998 affida al giudice ordinario in
funzione  di  giudice  del  lavoro le controversie di cui all'art. 68
d.lgs.  3 febbraio  1993,  n. 29  relative  a  questioni attinenti al
periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998; nel caso
di  specie  le  richieste dell'appellato fanno riferimento al periodo
settembre  1991  - dicembre 1998, quindi si riferiscono ad un periodo
sia anteriore che successivo al 30 giugno 1998; l'elemento temporale,
quindi,   anche   alla   luce   delle   recenti  pronunce  sia  della
giurisprudenza  di  legittimita'  che  di  merito, risulta di per se'
decisivo  ai  fini  della  sussistenza  di  gurisdizione  in  capo al
giudicante.
    Infatti,  secondo  la  Suprema  Corte,  quando  la  causa petendi
dell'azione  giudiziaria  esercitata  dall'impiegato  si fonda su una
situazione  di fatto permanente, il criterio di economia dei giudizi,
aderente  all'art. 24  Cost.  e'  idoneo  ad  evitare il contrasto di
giudicati   in   ordine  a  pretese  eguali  nel  contenuto,  seppure
differenziate  ratione  temporis,  e comporta che, ove la pretesa del
dipendente  abbia origine da un comportamento illecito permanente del
datore di lavoro, si debba aver riguardo al momento di cessazione del
comportamento medesimo (Cass. 24 febbraio 2000 n. 41).
    Orbene,   nel   caso   di  cui  trattasi,  la  destinazione  allo
svolgimento   di   mansioni  indubbiamente  superiori  da  parte  del
sig. Rossi   e'  cessato  dopo  il  30 giugno  1998  per  cui  appare
confermata la piena giurisdizione del giudice ordinario.
    La  questione della Giurisdizione e' poi definitivamente superata
a  seguito dell'entrata in vigore dell'art. 69 d.lgs. n. 165/2001, il
quale  ha statuito che le controversie relative a questioni attinenti
al periodo di rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite
alla  giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora
siano state proposte a pena di decadenza entro il 15 settembre 2000.
    Ritiene  quindi  la  Corte  di  aderire alla opinione espressa da
altra  giurisprudenza  di  merito  (cfr.Tribunale di Catanzaro, sent.
31 marzo  2002),  secondo  la  quale esiste la «chiara volonta' della
norma  di conservare la giurisdizione del giudice amministrativo solo
per  quelle  controversie  afferenti questioni anteriori al 30 giugno
1998  che  siano  state  gia'  azionate  dinanzi allo stesso entro il
15 settembre  2000, mentre le questioni non azionate vengono devolute
alla giurisdizione del giudice ordinario.
    Chiara volonta' che emerge con forza dal tenore dell'inciso "solo
qualora",  che  condiziona  inevitabilmente la scelta ermeneutica qui
privilegiata.  Tale  interpretazione  appare anche costituzionalmente
orientata,  atteso  che consente una piena realizzazione dell'art. 24
Cost.,  recuperando  alla tutela giurisdizionale posizioni giuridiche
per  le quali invece sarebbe intervenuta la decadenza. Decadenza che,
quale  limite  all'esplicazione  del  diritto  di azione, costituisce
eccezione  al  principio  e come tale di stretta interpretazione. Ne'
vale  in  senso contrario, ad avviso del giudicante, sostenere che la
norma avrebbe violato altro principio costituzionale, essendo incorso
il  decreto  legislativo in esame in un eccesso di delega rispetto al
dettato della legge delega.
    Ed   infatti,  anche  a  voler  ammettere  tale  violazione,  nel
bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, ritiene il
giudicante,  che  quello  della  tutela  ed azionabilita' dei diritti
debba   avere   prevalenza   perche'  posto  a  presidio  di  diritti
fondamentali della persona».
    Quanto  alla eccezione di illegittimita' costituzionale sollevata
da  parte  dell'appellato,  la  Corte ritiene la stessa meritevole di
accoglimento,  palesandosi la stessa non solo rilevante ai fini della
decisione   del   presente  giudizio,  ma  anche  non  manifestamente
infondata  con  riferimento particolare agli artt. 3 e 36 Cost, per i
motivi che seguono.
                Quanto alla rilevanza della questione
    Occorre  in  primo  luogo  osservare  che e' pacifico in causa il
fatto  che  Rossi  Silvio  Francesco  abbia  svolto  le  mansioni  di
segretario  del  «Centro di studi giuridici e politici» della Regione
dell'Umbria dal 1° ottobre 1991 al 30 dicembre 1998.
    E'  inoltre  documentalmente dimostrato (e del resto le obiezioni
della regione, sul punto, apparivano di mero stile) che tali mansioni
fossero  inquadrabili  al  IX°  livello  di qualifica, livello pari a
quello  nel  quale  era  inquadrato  il  dr. Luciano Rossi, che aveva
ricoperto  il ruolo di segretario sino al 30 settembre 1991 allorche'
era cessato dal rapporto per quiescenza.
    Assume  la  Regione  dell'Umbria  che osta all'accoglimento della
domanda  del  Rossi  Silvio Francesco il disposto dell'art. 56 d.lgs.
29/1993  (come  sostituito  dall'art. 25  d.lgs.  80/1998)  che, «pur
riconoscendo  una rilevanza economica e giuridica allo svolgimento di
mansioni  superiori  nel  pubblico  impiego  privatizzato,  ha  pero'
rimandato  l'applicazione della nuova normativa alla emanazione della
nuova   disciplina   degli  ordinamenti  professionali  previsti  dai
contratti collettivi».
    Sostiene  inoltre la regione che e' pur vero che «a seguito della
modifica  operata  sul  comma 6 di detto art. 56, dall'art. 15 d.lgs.
29 ottobre  1998  n. 387  e' divenuta immediatamente operativa (ancor
prima  della stipula dei predetti contratti collettivi) la disciplina
relativa   alla   rilevanza   economica   delle   mansioni  superiori
eventualmente  svolte dai dipendenti; tuttavia.. tale normativa trova
applicazione  solo  pro  futuro  onde saranno retribuibili ex art. 56
comma  6  d.lgs.  29/1993  solo  le  mansioni  superiori  svolte dopo
l'entrata in vigore del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387».
    Invero  la  norma  di  legge  invocata dall'ente territoriale per
opporsi  all'accoglimento della domanda del ricorrente cosi' recitava
nell'originaria formulazione: d.lgs. n. 29/1993 art. «56. Mansioni.
        1.  Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni
proprie della qualifica di appartenenza, nelle quali rientra comunque
lo   svolgimento   di   compiti   complementari   e   strumentali  al
perseguimento degli obiettivi di lavoro.
        2.  Il  dipendente  puo'  essere  adibito  a svolgere compiti
specifici   non   prevalenti   della   qualifica   superiore  ovvero,
occasionalmente  e  ove possibile con criteri di rotazione, compiti o
mansioni   immediatamente   inferiori,  se  richiesto  dal  dirigente
dell'unita'  organizzativa  cui  e'  addetto, senza che cio' comporti
alcuna variazione del trattamento economico.»
    57. Attribuzione temporanea di mansioni superiori.
        1.  Per  obiettive  esigenze  di  servizio,  il prestatore di
lavoro puo' essere adibito a mansioni immediatamente superiori:
          a) nel caso di vacanza di posto in organico, per un periodo
non  superiore  a  tre  mesi  dal  verificarsi  della  vacanza, salva
possibilita'  di attribuire le mansioni superiori ad altri dipendenti
per non oltre tre mesi ulteriori della vacanza stessa;
          b) nel caso di sostituzione di altro dipendente con diritto
alla  conservazione del posto per tutto il periodo di assenza, tranne
quello per ferie.
        2.   Nel  caso  di  assegnazione  a  mansioni  superiori,  il
dipendente   ha   diritto  al  trattamento  economico  corrispondente
all'attivita'  svolta  per il periodo di espletamento delle medesime.
Per  i dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, in deroga all'art. 2103
del  codice  civile  l'esercizio temporaneo di mansioni superiori non
attribuisce il diritto all'assegnazione definitiva delle stesse.
        3. L'assegnazione alle mansioni superiori e' disposta, con le
procedure previste dai rispettivi ordinamenti, dal dirigente preposto
all'unita'  organizzativa  presso  cui il dipendente presta servizio,
anche  se  in  posizione  di fuori ruolo o comando, con provvedimento
motivato,   ferma   restando   la   responsabilita'   disciplinare  e
patrimoniale   del  dirigente  stesso.  Qualora  l'utilizzazione  del
dipendente  per lo svolgimento di mansioni superiori sia disposta per
sopperire  a vacanze dei posti di organico, contestualmente alla data
in  cui  il  dipendente  e'  assegnato  alle predette mansioni devono
essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti.
        4.   Non   costituisce   esercizio   di   mansioni  superiori
l'attribuzione  di  alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni
stesse disposta ai sensi dell'art. 56, comma 2.
        5.  In deroga a quanto previsto dal comma 1, gli incarichi di
presidenza  di  istituto secondario e di direzione dei conservatori e
delle  accademie  restano  disciplinati  dalla  legge  14 agosto 1971
n. 821,   e   dall'art. 2,  terzo  comma,  del  regio  decreto  legge
2 dicembre  1935  n. 2081,  convertito  dalla  legge  16 marzo  1936,
n. 498.
        6.  Le  disposizioni  del  presente  articolo  si applicano a
decorrere  dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei
provvedimenti  di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche
di  cui agli articoli 30 e 31 e, comunque a decorrere dal 31 dicembre
1996.
        7.  Sono  abrogati  il  decreto  legislativo  19 luglio  1993
n. 247,   nonche'   l'art. 10,   comma  2,  del  decreto  legislativo
10 novembre  1993, n. 470, e sono fatti salvi tutti gli atti connessi
al  conferimento e allo svolgimento di mansioni superiori adottati ai
sensi delle disposizioni stesse.
    Il  d.lgs.  31 marzo  1998  n. 80 (artt. 25 e 43, comma 1) ha poi
apportato  le  seguenti  modifiche ai due articoli teste' citati: 56.
Disciplina delle mansioni.
        1.  Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni
per le quali e' stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti
nell'ambito   della   classificazione   professionale   prevista  dai
contratti  collettivi  ovvero  a quelle corrispondenti alla qualifica
superiore  che  abbia  successivamente  acquisito  per  effetto dello
sviluppo  professionale  o  di  procedure  concorsuali  o  selettive.
L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di
appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore
o dell'assegnazione di incarichi di direzione.
        2. Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro
puo' essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente
superiore:
          a)  nel  caso di vacanza di posto in organico, per non piu'
di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le
procedure  per la copertura dei posti vacanti come previsto dal comma
4;
          b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con
diritto  alla conservazione del posto con esclusione dell'assenza per
ferie, per la durata dell'assenza.
        3.  Si  considera  svolgimento di mansioni superiori, ai fini
del  presente  articolo,  soltanto l'attribuzione in modo prevalente,
sotto  il  profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti
propri di dette mansioni.
        4.  Nei  casi  di cui al comma 2. per il periodo di effettiva
prestazione,  il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la
qualifica  superiore.  Qualora  l'utilizzazione  del  dipendente  sia
disposta   per   sopperire   a   vacanze   dei   posti  in  organico,
immediatamente e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla
data in cui il dipendente e' assegnato alle predette mansioni, devono
essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti.
        5.  Al  di  fuori  delle  ipotesi di cui al comma 2, e' nulla
l'assegnazione  del  lavoratore  a  mansioni proprie di una qualifica
superiore,   ma   al  lavoratore  e'  corrisposta  la  differenza  di
trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha
disposto  l'assegnazione  risponde  personalmente  del  maggior onere
conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave.
        6. le disposizioni del presente articolo si applicano in sede
di  attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali
prevista  dai  contratti  collettivi  e  con  la decorrenza da questi
stabilita.   I   medesimi   contratti   collettivi  possono  regolare
diversamente  gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4. Fino a tale data,
in  nessun  caso  lo  svolgimento di mansioni superiori rispetto alla
qualifica  di  appartenenza  puo'  comportare il diritto a differenze
retributive    o   ad   avanzamenti   automatici   nell'inquadramento
professionale del lavoratore.
    [57. Attribuzione temporanea di mansioni superiori.] (Abrogato).
    Infine  l'art. 15  del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 ha soppresso
le  parole  «a  differenze  retributive  o» contenute nel comma 6 del
citato  art. 56  come  modificato  dall'art. 25  d.lgs. 31 marzo 1998
n. 80.
    Tutto  cio'  premesso,  ritiene  questa Corte che le disposizioni
normative  sopra richiamate (artt. 56 e 57 del d.lgs. 3 febbraio 1993
n. 29  nella  formulazione  originaria  e  nella  successiva modifica
introdotta  dagli  art. 25  e  43,  comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998
n. 80) risulterebbero effettivamente ostative al riconoscimento della
qualifica  e  delle  spettanze  rivendicate  dal  ricorrente,  almeno
qualora  si  accedesse  alla  interpretazione  sostenuta  dalla parte
appellante secondo cui le mansioni superiori eventualmente svolte dai
dipendenti   avrebbero  rilevanza  economica  solo  a  seguito  della
modifica  apportata dal citato art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387.
Onde  -  quantomeno  sotto  tale  profilo  interpretativo  -  ricorre
sicuramente  il  primo requisito richiesto per sollevare la questione
di costituzionalita'.
               Quanto alla non manifesta infondatezza
    La  questione  oggetto  di  disamina  da parte di questa Corte di
appello  ha  per  oggetto uno dei temi piu' disquisiti e controversi,
vale a dire la diretta applicabilita' o meno dell'art. 36 della Carta
Costituzionale  anche  in  riferimento  ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni    e   quindi   la   questione   della   legittimita'
costituzionale  delle norme che si pongano in apparente contrasto con
tale principio.
    Il  punto  di  partenza  dal  quale deve muovere ogni disamina e'
ovviamente  l'art. 36  della  Costituzione,  che, ad avviso di questa
Corte   territoriale,   deve   essere  valutato  anche  in  relazione
all'art. 3 Cost.
    Va  subito  evidenziato che la norma di rango costituzionale, nel
prevedere  che  «ogni  lavoratore  ha  diritto  ad  una  retribuzione
proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a se' ed alla famiglia una esistenza libera
e  dignitosa»,  non  opera alcun distinguo ricollegato alla qualifica
del   datore   di   lavoro,   sia  esso  cioe'  soggetto  privato  od
amministrazione pubblica.
    Infatti,  appare  evidente che l'art. 36 della Costituzione si e'
mosso  nell'ottica  di  tutelare  qualsiasi  soggetto  che svolga una
attivita'  lavorativa  di carattere subordinato, a prescindere quindi
dalla tipologia del datore di lavoro.
    Tale  interpretazione,  oltre  che  dall'esame del dato letterale
inequivocabilmente  fornito dalla norma costituzionale, e' confermato
dalla lettura in combinato disposto con l'art. 3 della Costituzione.
    Infatti,  la  dottrina  piu'  autorevole  ha  sempre rilevato che
l'art. 3  costituisce un corollario del principio di proporzionalita'
di  cui  all'art. 36, onde per cui a fronte della medesima condizione
di  lavoratore  subordinato  -  appare  incongrua anche rispetto allo
stesso art. 3 una interpretazione che introduca distinzioni a seconda
che  il  rapporto  .sia  instaurato con un soggetto privato o con una
pubblica amministrazione.
    Va  infatti  rilevato  che la stessa Corte costituzionale, con le
gia'  citate sentenze 23 febbraio 1989 n. 57 e 19 giugno 1990 n. 296,
ha  affermato  il principio per cui il pubblico dipendente che svolga
mansioni   superiori   ha   diritto  ad  ottenere  le  variazioni  di
trattamento economico conseguenti all'espletamento delle stesse e che
il  riconoscimento di tale diritto discende dall'applicazione diretta
dell'art. 36  Cost.  e  dell'art. 2126  c.c.  anche  a  seguito della
cosiddetta  «privatizzazione  del pubblico impiego» operata a seguito
del  d.lgs.  n. 29/1993,  a prescindere dalla eventuale irregolarita'
dell'atto  e  invero  anche  dalla natura formale o meno dell'atto di
assegnazione;  e  cio'  in  quanto la utilizzazione del dipendente in
tali   superiori   funzioni   produce   all'ente   un  «arricchimento
ingiustificato,  che,  alla  stregua  dell'art. 36 della Costituzione
direttamente   applicabile,   determina  l'obbligo  di  integrare  il
trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla
qualita' del lavoro effettivamente prestato» (cfr. C. cost. 57/1989).
    Sulla  base  di  quanto  detto  non  sarebbe rilevante nemmeno la
mancanza  di  un  atto  formale,  in  quanto  la  mancanza  di questa
condizione  «viene  supplita dal principio di cui all'art. 2126 c.c.,
applicabile  anche  ai  rapporti  di pubblico impiego» (cfr. C. Cost.
ult. cit.).
    Tra  l'altro  il  principio  enunciato  dalla  Consulta ha subito
trovato  varie  conferme  nella stessa giurisprudenza amministrativa:
tra  le  tante  si  veda,  ad  esempio, Cons. Giust. Amm. per la Reg.
Siciliana,  Sez.  riunite, 12 novembre 1992 n. 318, in giurisprudenza
amministrativa  siciliana  1992,  195,  in cui e' stato affermato che
«alla  luce  delle  sentenze  della  Corte  costituzionale  n. 57 del
23 febbraio  1989 e n. 296 del 19 giugno 1990, deve ritenersi che, ai
sensi  dell'art. 36, primo comma della Costituzione, e dell'art. 2126
c.c..   al   dipendente  pubblico  spetti  il  trattamento  economico
corrispondente all'attivita' svolta quando l'esercizio delle mansioni
superiori  si  protragga  nel  tempo; tale principio e' applicabile a
tutti  i  dipendenti pubblici ed, in particolare, ai dipendenti degli
enti locali».
    E'   stato   anche  ribadito  che  «il  diritto  alle  differenze
retributive per mansioni superiori va riconosciuto non solo in favore
del  personale  sanitario, ma di tutti i pubblici impiegati, anche in
difetto  di  formale conferimento dell'incarico, discendendo cio' sia
dal  principio  di  cui all'art. 2126 c.c., sia dal principio di equa
retribuzione  sancito  dall'art. 36 Cost.» (cfr. in materia Tribunale
amministrativo  regionale  Sicilia,  sez.  lI, 20 gennaio 1993, n. 3;
Tribunale amministrativo regionale Campania, sez. III, 22 luglio 1994
n. 254; Tribunale amministrativo regionale Sardegna 16 settembre 1993
n. 115,  Foro Amministrativo 1993, 678; cosi' anche Cons. Stato, sez.
V, 20 marzo 1992 n. 234, Foro Amministrativo 1992, 516).
    Nello  stesso  senso,  cfr.  TAR Campania. Sez. V, 17 giugno 1997
n. 1548;  Foro  Amministrativo 1998, 922, secondo cui «l'espletamento
di mansioni superiori, anche in via di fatto, da parte del lavoratore
determina  il  diritto di questi alla retribuibilita' delle stesse ai
sensi dell'art. 2126 c.c. e dell'art. 36 Cost.».
    Infine,  tale  orientamento e' stato ribadito anche dal Consiglio
di  Stato  che  con  sentenze  18 luglio  1997  n. 119  (Sez.  VI)  e
21 settembre  1996  n. 114  (Sez.  V)  ha  stabilito  che il pubblico
dipendente   che,   per   disposizione  dell'amministrazione,  svolga
mansioni  superiori  a quelle proprie della qualifica rivestita in un
posto   vacante   in   pianta  organica,  ha  diritto  alle  maggiori
retribuzioni  previste per tali mansioni, ai sensi dell'art. 2126 del
codice  civile;  e cio' anche se risulti superato il limite temporale
massimo  previsto  dall'ordinamento  per l'esercizio delle mansioni i
superiori,   determinandosi   una   situazione   illegittima  le  cui
conseguenze  non  possono ricadere sul dipendente che tale situazione
non ha posto in essere.
    Tale  orientamento e' tra l'altro riemerso anche dopo le pronunce
emesse  dall'Adunanza  Plenaria  del  Consiglio di Stato, che avevano
disconosciuto la fondatezza di tale orientamento (v. Cons. Stato, ad.
Plen. 18 novembre  1999  n. 22),  sulla  base  di  argomentazioni che
questa  Corte  non  ritiene condivisibili; in particolare, non sembra
corretto  affermare che la norma di cui all'art. 98 Cost., secondo la
quale   «i  pubblici  impiegati  sono  al  servizio  esclusivo  della
nazione»,    costituirebbe   ostacolo   alla   diretta   operativita'
dell'art. 36  Cost.  A ben vedere l'art. 98 non limita l'operativita'
dell'art. 36  Cost.,  dal momento che la norma invocata dal Consiglio
di  Stato  afferma  il  principio  giusta  il  quale  l'attivita' del
pubblico  impiegato  deve  tendere alla realizzazione degli interessi
superiori   della   nazione   (con  esclusione  quindi  di  interessi
particolari), ma non implica in alcun modo che il pubblico dipendente
non abbia diritto a ricevere un compenso proporzionato alla quantita'
e  qualita'  del  proprio lavoro (cfr. anche Tribunale amministrativo
regionale  Sicilia  Catania,  22 maggio  2000,  n. 981, in Lav. nella
p.a.,  2000,  900,  secondo  la  quale  «non e' possibile dedurre dal
dettato  dell'art. 97  Cost.  la  sussistenza  nell'ordinamento di un
principio  generale  per  cui  l'amministrazione viene, in ogni caso,
pregiudicata  dall'affidamento  ai  pubblici  dipendenti  di mansioni
superiori a quelle della propria qualifica di appartenenza).
    Come  gia' detto, anche dopo la decisione dell' adunanza plenaria
si  sono  registrare  affermazioni  di segno nettamente contrario: si
veda  a  titolo  esemplificativo  la recente Cons. Giust. Amm. per la
Regione  Sicilia 9 ottobre 2002 n. 583, che per l'appunto ha ribadito
la  diretta  applicabilita'  dell'art. 36  Cost. anche ai rapporti di
pubblico  impiego,  segno  evidente  che  le  pronunce  dell'Adunanza
Plenaria  del  Consiglio  di  Stato  non  hanno  fornito  adeguata  e
definitiva   risposta   al   problema   in  oggetto  (cfr.  Tribunale
amministrativo  regionale  Calabria,  13 settembre  2000, n. 1387, in
Riv.  cancellerie,  2001,  173,  secondo cui nell'ambito del pubblico
impiego deve riconoscersi la sussistenza del principio generale della
spettanza  della  maggiorazione  retributiva  per  le prestazioni che
eccedano  la  qualifica  formalmente  rivestita, in quanto a ritenere
diversamente  si  violerebbero  gli  art. 36  Cost. e 2126 del codice
civile,  che  sanciscono  la corrispondenza del trattamento economico
all'attivita' lavorativa concretamente svolta).
    Infine,  va  ricordato che recentemente anche lo stesso Consiglio
di Stato (vedi ordinanza 13 maggio 2002) ha ritenuto la non manifesta
infondatezza  della  questione  di legittimita' costituzionale di una
norma  della  Regione  Lombardia  che per l'appunto aveva precluso il
diritto  alle differenze salariali in caso di svolgimento di mansioni
superiori,  evidenziandone il palese contrasto con le gia' richiamate
pronunce della Corte costituzionale.
    Sulla  scorta  di  tali  riferimenti,  secondo  questa  Corte, il
principio    della    diretta   applicabilita'   dell'art. 36   della
Costituzione   non   soffre   deroga   in   relazione   ai   principi
costituzionali  di  imparzialita'  e  buon  andamento  della pubblica
amministrazione di cui all'art. 97 della Carta costituzionale, ne' di
quelli espresi dall'art. 98 Cost.
    Quanto   al   principio   del   buon   andamento  della  pubblica
amministrazione  ritiene  questa  Corte  che  ciascun  dipendente, in
quanto   risorsa   primaria  della  stessa  pa.,  debba  ricevere  un
trattamento  conforme a quello che e' il ruolo da lui di fatto svolto
nell'ambito  della  struttura organizzativa: in buona sostanza, se un
dipendente  di  una  pubblica  amministrazione  viene  chiamato - non
importa  se sulla base di una atto formale o semplicemente di fatto -
a svolgere mansioni di profilo superiore a quello di appartenenza, e'
segno  evidente  che  la stessa p.a. ha la esigenza indefettibile che
tali mansioni siano svolte nell'ambito della propria organizzazione.
    E  dal  momento  che  certe  mansioni  possono  comportare  anche
l'assunzione  di  responsabilita'  diverse  i  da  quelle del formale
profilo  di  appartenenza,  e'  del  tutto evidente che il dipendente
abbia  il pieno diritto a percepire un trattamento economico conforme
a quello del lavoro da lui svolto.
    Diversamente opinando - ove cioe' si negasse aprioristicamente un
siffatto  diritto  -  il  dipendente  potrebbe arrivare addirittura a
rifiutare  lo  svolgimento  delle  mansioni di livello superiore, non
volendo assumere responsabilita' in difetto di adeguata contropartita
economica;  in  questo  caso  -  allora  si'  - verrebbe vulnerato il
principio  del  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione, in
quanto  finirebbe  col  subire  un grave pregiudizio la funzionalita'
della  struttura  in  presenza  di  un legittimo rifiuto da parte del
dipendente.
    Del  resto  occorre  anche  rilevare  che, nel caso di specie, il
posto a cui le mansioni superiori inerivano risultava vacante (stante
il  pensionamento del precedente titolare) ed il ricorrente era stato
ad  esse  adibito  con  formali  delibere  (cfr. allegati 1 e 2 della
produzione  documentale  del Rossi Silvio Francesco); onde la Regione
dell'Umbria   non  puo'  sostenere  che  l'assegnazione  di  mansioni
superiori al ricorrente costituirebbe un vulnus al principio del buon
andamento  senza  incorrere  in  una  palese  contraddizione  (che e'
quella,  da  un lato, di affermare che le mansioni di un dato livello
devono  essere  svolte  «da  personale la cui maggiore qualificazione
professionale e' stata accertata con apposita selezione concorsuale»,
pag. 7  dell'atto di appello, e dall'altro di attribuire in concreto,
con  formale  delibera,  dette  mansioni  ad  un  lavoratore  la  cui
«maggiore  qualificazione  professionale»  non e' stata accertata con
concorso).
    Inoltre  osserva  questo Collegio che il principio costituzionale
dell'equa  retribuzione  e'  applicabile  a  tutti  i lavoratori (non
operando distinzioni, l'art. 36 Cost., tra lavoratori alle dipendenze
di  parti  datoriali  pubbliche o private) ed il dettato dell'art. 98
Cost., che afferma il dovere di fedelta' ed esclusivita' del pubblico
impiegato, non appare ostativo all'applicazione di quel principio.
    Da   tutto   quanto  argomentato  deriva  che  debbano  ritenersi
contrastanti  con  i predetti principi costituzionali disposizioni di
rango   sottordinato   che   impediscano   la   diretta  applicazione
dell'art. 36  della  Costituzione  anche  al  rapporto di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
    Del  resto,  appare  significativa  la evoluzione della normativa
piu' direttamente attinente la presente controversia.
    Infatti,  l'art. 56  del  decreto  legislativo  n. 29/1993,  come
modificato  dall'art. 25  d.lgs. n. 80 del 1998 e dall'art. 15 d.lgs.
n. 387   del  1998  (attualmente  trasfuso  nell'art. 52  del  d.lgs.
n. 165/2001)  prevede espressamente al comma 5 che «al di fuori delle
ipotesi  previste dal comma 2, e' nulla l'assegnazione del lavoratore
a  mansioni  superiori  proprie  di  una  qualifica  superiore, ma al
dipendente  e' corrisposta la differenza di trattamento economico con
la qualifica superiore».
    Da tale norma, viene fatto discendere dalla regione appellante il
principio  in  base  al quale - solo a partire dall'entrata in vigore
del  d.lgs.  n. 387/1998  - sarebbe possibile per il dipendente della
pubblica  amministrazione  ottenere  il  riconoscimento di differenze
retributive per lo svolgimento di mansioni superiori.
    A  tale  tesi  puo'  pero'  essere  replicato  che  la disciplina
previgente  non  contiene  disposizioni ostative al riconoscimento di
diritto analogo a quello azionato nella presente sede.
    Infatti,   l'art. 57   del   d.lgs.   n. 29/1993   prevedeva  che
l'assegnazione  a mansioni immediatamente superiori fosse possibile -
in  presenza di determinati condizioni - per un periodo non superiore
a  tre mesi (comma 1) e che il dipendente, nel caso di assegnazione a
dette    mansioni,    avesse   diritto   al   trattamento   economico
corrispondente all'attivita' svolta (comma 2).
    Nulla   pero'  veniva  detto  in  relazione  all'ipotesi  in  cui
l'adibizione  a  mansioni superiori si fosse protratta per un periodo
superiore  ai  tre  mesi,  per  cui  non esisteva alcuna disposizione
specificatamente preclusiva al diritto alle differenze retributive.
    L'entrata  in  vigore  di tale norma e' stata piu' volte rinviata
nel  tempo, sino a quando e' intervenuto l'art. 25 d.lgs. n. 80/1998,
che  ha  sostituito  il testo originale dell'art. 56; in particolare,
detta   norma   prevedeva   espressamente  la  retribuibilita'  della
svolgimento  delle  mansioni superiori, ma al sesto comma ne rinviava
l'applicazione  in  sede  di  attuazione della nuova disciplina degli
ordinamenti  professionali prevista dai contratti collettivi e con la
decorrenza  da questi stabilita («fino a tale data, in nessun caso lo
svolgimenti   di   mansioni  superiori  rispetto  alla  qualifica  di
appartenenza puo' comportare il diritto a differenze retributive o ad
avanzamenti    automatici    nell'inquadramento   professionale   del
lavoratore»),  in seguito le parole «a differenze retributive o» sono
state abrogate dall'art. 15, d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387.
    Orbene,  laddove  si  dovesse interpretare l'evoluzione normativa
registrata  in  subiecta  materia nel senso che solo con le modifiche
intervenute  con  l'art. 15, d.lg.s n. 387/1998, sia stato introdotto
il principio secondo il quale il dipendente pubblico abbia diritto ad
essere retribuito in relazione alle mansioni di fatto svolte, i dubbi
di  legittimita' costituzionale in ordine alla normativa previgente -
che   ha   principalmente  regolato  il  rapporto  del  sig. Rossi  -
risulterebbero vieppiu' rafforzati.
    Infatti,  in tale caso, non si comprenderebbero le ragioni per le
quali  identiche  mansioni  per  un  periodo  non darebbero diritto a
differenze  retributive  e  per  un  altro  periodo  si, con evidente
violazione   dell'art. 3   Cost.   anche  relativamente  al  generale
principio di ragionevolezza.
    Per  altro  verso,  sempre  seguendo  questa  tesi,  si  dovrebbe
concludere  che  dopo l'entrata in vigore del d.lg.s. n. 387 del 1998
il  diritto alle retribuzioni corrispondenti alle mansioni svolte non
rappresenterebbe  una  violazione  del  principio  del buon andamento
della  pubblica  amministrazione,  mentre invece lo costituirebbe per
l'epoca antecedente; analoga considerazione vale per quanto sostenuto
dall'adunanza   plenaria   del   Consiglio   di  Stato  in  relazione
all'art. 98 Cost..
    Ad  avviso  di  questa  Corte, quindi, se si vuole riconoscere al
sistema  una  intrinseca  razionalita',  si  deve  ritenere  che  gli
artt. 56  e  51  del d.lg.s n. 29 del 1993, nel testo previgente alle
modifiche    ora   citate,   debbano   ritenersi   costituzionalmente
illegittimi    qualora   vengano   interpretati   nel   senso   della
insussistenza   del   diritto   del   dipendente   di   una  pubblica
amministrazione  di  percepire la differenza di trattamento economico
in relazione alla qualifica superiore.
    Appare  quindi  evidente  nei caso di specie anche la sussistenza
del  requisito  della  non  manifesta  infondatezza,  che  impone  la
riinessione della questione alla Corte costituzionale.