LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza. Esaminati gli atti della causa tra regione dell'Umbria, in persona del Presidente della giunta pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura dello Stato di Perugia, presso i cui uffici domicilia in Perugia, via degli Offici n. l4; appellante; e Rossi Silvio Francesco, elettivamente domiciliato in via Bartolo n. 54 presso lo studio dell'Avv.to Fabrizio D. Mastrangeli che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale estesa a margine della memoria difensiva; appellato. Premesso che con ricorso depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 15 febbraio 2002 e notificato assieme al decreto di fissazione dell'udienza in data 7 maggio 2002, la Regione dell'Umbria proponeva appello avverso la sentenza n. 2174/2001 resa inter partes dal giudice del lavoro del Tribunale di Perugia in data 25 gennaio 2002 e notificata il 5 febbraio 2002; che l'appellante rassegnava le seguenti conclusioni: «Voglia l'Ill.ma Corte adita, in accoglimento del presente gravame, dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in ordine alle pretese derivanti dal periodo di rapporto anteriore al 30 giugno 1998, dichiarando, in ogni caso ed in via gradata, che nulla e' dovuto dalla Regione dell'Umbria all'odierno appellato. Con vittoria di spese» che nel Giudizio di appello si costituiva il sig. Rossi Silvio Francesco, con memoria difensiva in data 29 ottobre 2002, rassegnando le seguenti conclusioni: «In tesi: voglia l'ecc.ma Corte rigettare integralmente l'avverso atto di appello, in quanto inammissibile e comunque infondato; voglia condannare l'appellante al pagamento delle spese tutte del presente grado di giudizio. In ipotesi subordinata: voglia dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli artt. 3, 36 e 97 Cost., dell'art.56 d.lgs. n. 29/1993, dell'art. 56 d.lgs. 165/2001 e dell'art. 15 d.lgs. n. 387/1998, e per l'effetto sospendere il presente giudizio rimettendo gli atti alla Corte costituzionale». che all'udienza del 13 febbraio 2003 le parti chiedevano che il giudizio venisse deciso e la Corte si ritirava in Camera di Consiglio per deliberare; che successivamente la Corte dava lettura di ordinanza con la quale si riservava in ordine alla eccezione di incostituzionalita' sollevata dalla difesa dell'appellato; Rilevato in fatto Il sig. Rossi Silvio Francesco chiedeva ed otteneva, nel giudizio di primo grado, che fosse accertato lo svolgimento da parte dello stesso di mansioni superiori alle dipendenze della Regione dell'Umbria - inquadrabili al IX livello di qualifica - dal 1° ottobre 1991 al 31 dicembre 1998; in virtu' di tale elemento, con la sentenza emessa dal giudice di prime cure, il sig. Rossi si vedeva anche riconoscere le differenze retributive tra il livello di qualifica riconosciuto dalla regione e quello afferente alle mansioni effettivamente svolte, accertate nel giudizio di primo grado, relativamente a due diversi periodi, ed in particolare: le differenze retributive fra il VI ed il IX livello di qualifica sino al 5 novembre 1992; fra il VII ed il IX livello di qualifica per il periodo successivo, fino al 31 dicembre 1998. Sosteneva infatti il sig. Rossi la diretta applicabilita', anche nell'ambito dei rapporti di pubblico impiego, del principio sancito all'art. 36 Cost. anche in relazione all'an. 3 Cost., in base al quale tutti i lavoratori, siano essi dipendenti da datori di lavoro pubblici o privati, hanno il pieno diritto ad essere retribuiti in base «alla quantita' ed alla qualita' del lavoro prestato», in conformita' alle mansioni effettivamente svolte dai medesimi. Argomentava inoltre il ricorrente, con riferimenti giurisprudenziali anche alle note pronunce della Corte costituzionale in materia (in particolare alle sentenze n. 23 febbraio 1989 n. 57 e 19 giugno 1990 n. 296) ed alla dottrina conforme alla tesi difensiva prospettata, che una diversa conclusione in ordine alla diretta applicabilita' della norma costituzionale in questione avrebbe comportato una violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale sancito dall'art. 3 Cost., con una ingiustificata ed illegittima disparita' di trattamento tra soggetti inconciliabile con i sopra ricordati principi. Gravando in Appello la sentenza di primo grado, la Regione dell'Umbria ribadisce in primo luogo il difetto di giurisdizione dell'A.G.O.; contesta inoltre la diretta applicabilita' del principio di cui all'art. 36 Cost. nell'ambito del pubblico impiego e, conseguentemente, disconosce ogni rilevanza, anche sotto il profilo retributivo, dello svolgimento di mansioni di fatto in tale settore, facendo riferimento agli artt. 97 e 98 Cost. che osterebbero a tale diretta applicabilita'. Sostiene inoltre l'appellante che, sulla base del disposto dall'art. 56 d.lgs. n. 29/1993 (come sostituito dall'art. 25 d.lgs. n. 80/1998), il riconoscimento della rilevanza economica e giuridica dello svolgimento delle mansioni superiori nel pubblico impiego privatizzato deve farsi decorrere dalla emanazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali previsti dai contratti collettivi. Da' atto l'appellante che, a seguito delle modifiche apportate al comma 6 del predetto art. 56 da parte dell'art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, la disciplina relativa alla rilevanza economica delle mansioni superiori eventualmente svolte dai pubblici dipendenti e' divenuta immediatamente operativa; tuttavia, secondo la prospettazione della regione, troverebbe applicazione solo per il futuro, cioe' solo dopo l'entrata in vigore del medesimo d.lgs. n. 387/1998, e quindi non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie. Sul punto, osserva la difesa del sig. Rossi che, ove fosse ritenuto insussistente il diritto alle variazioni retributive reclamato dall'appellato ed ove tale insussistenza fosse fatta derivare dall'applicazione dell'art. 56 d.lgs. n. 29/1993 e dall'art. 15 d.lgs. 387/1998, si prospetterebbe l'illegittimita' costituzionale delle predette norme con riferimento agli artt. 36, 3 e 97 Cost., anche in considerazione del fatto che nel caso di specie lo svolgimento delle mansioni superiori da parte del sig. Rossi si e' protratto anche oltre la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 378/1998. Ritenuto in diritto Va in primo luogo disattesa l'eccezione sollevata dalla parte appellante relativa al difetto di giurisdizione di questa autorita' giurisdizionale. Correttamente ha infatti evidenziato il giudice di prime cure che l'art. 47 comma 17 d.lgs. n. 80/1998 affida al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro le controversie di cui all'art. 68 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998; nel caso di specie le richieste dell'appellato fanno riferimento al periodo settembre 1991 - dicembre 1998, quindi si riferiscono ad un periodo sia anteriore che successivo al 30 giugno 1998; l'elemento temporale, quindi, anche alla luce delle recenti pronunce sia della giurisprudenza di legittimita' che di merito, risulta di per se' decisivo ai fini della sussistenza di gurisdizione in capo al giudicante. Infatti, secondo la Suprema Corte, quando la causa petendi dell'azione giudiziaria esercitata dall'impiegato si fonda su una situazione di fatto permanente, il criterio di economia dei giudizi, aderente all'art. 24 Cost. e' idoneo ad evitare il contrasto di giudicati in ordine a pretese eguali nel contenuto, seppure differenziate ratione temporis, e comporta che, ove la pretesa del dipendente abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si debba aver riguardo al momento di cessazione del comportamento medesimo (Cass. 24 febbraio 2000 n. 41). Orbene, nel caso di cui trattasi, la destinazione allo svolgimento di mansioni indubbiamente superiori da parte del sig. Rossi e' cessato dopo il 30 giugno 1998 per cui appare confermata la piena giurisdizione del giudice ordinario. La questione della Giurisdizione e' poi definitivamente superata a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 69 d.lgs. n. 165/2001, il quale ha statuito che le controversie relative a questioni attinenti al periodo di rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte a pena di decadenza entro il 15 settembre 2000. Ritiene quindi la Corte di aderire alla opinione espressa da altra giurisprudenza di merito (cfr.Tribunale di Catanzaro, sent. 31 marzo 2002), secondo la quale esiste la «chiara volonta' della norma di conservare la giurisdizione del giudice amministrativo solo per quelle controversie afferenti questioni anteriori al 30 giugno 1998 che siano state gia' azionate dinanzi allo stesso entro il 15 settembre 2000, mentre le questioni non azionate vengono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Chiara volonta' che emerge con forza dal tenore dell'inciso "solo qualora", che condiziona inevitabilmente la scelta ermeneutica qui privilegiata. Tale interpretazione appare anche costituzionalmente orientata, atteso che consente una piena realizzazione dell'art. 24 Cost., recuperando alla tutela giurisdizionale posizioni giuridiche per le quali invece sarebbe intervenuta la decadenza. Decadenza che, quale limite all'esplicazione del diritto di azione, costituisce eccezione al principio e come tale di stretta interpretazione. Ne' vale in senso contrario, ad avviso del giudicante, sostenere che la norma avrebbe violato altro principio costituzionale, essendo incorso il decreto legislativo in esame in un eccesso di delega rispetto al dettato della legge delega. Ed infatti, anche a voler ammettere tale violazione, nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, ritiene il giudicante, che quello della tutela ed azionabilita' dei diritti debba avere prevalenza perche' posto a presidio di diritti fondamentali della persona». Quanto alla eccezione di illegittimita' costituzionale sollevata da parte dell'appellato, la Corte ritiene la stessa meritevole di accoglimento, palesandosi la stessa non solo rilevante ai fini della decisione del presente giudizio, ma anche non manifestamente infondata con riferimento particolare agli artt. 3 e 36 Cost, per i motivi che seguono. Quanto alla rilevanza della questione Occorre in primo luogo osservare che e' pacifico in causa il fatto che Rossi Silvio Francesco abbia svolto le mansioni di segretario del «Centro di studi giuridici e politici» della Regione dell'Umbria dal 1° ottobre 1991 al 30 dicembre 1998. E' inoltre documentalmente dimostrato (e del resto le obiezioni della regione, sul punto, apparivano di mero stile) che tali mansioni fossero inquadrabili al IX° livello di qualifica, livello pari a quello nel quale era inquadrato il dr. Luciano Rossi, che aveva ricoperto il ruolo di segretario sino al 30 settembre 1991 allorche' era cessato dal rapporto per quiescenza. Assume la Regione dell'Umbria che osta all'accoglimento della domanda del Rossi Silvio Francesco il disposto dell'art. 56 d.lgs. 29/1993 (come sostituito dall'art. 25 d.lgs. 80/1998) che, «pur riconoscendo una rilevanza economica e giuridica allo svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego privatizzato, ha pero' rimandato l'applicazione della nuova normativa alla emanazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali previsti dai contratti collettivi». Sostiene inoltre la regione che e' pur vero che «a seguito della modifica operata sul comma 6 di detto art. 56, dall'art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 e' divenuta immediatamente operativa (ancor prima della stipula dei predetti contratti collettivi) la disciplina relativa alla rilevanza economica delle mansioni superiori eventualmente svolte dai dipendenti; tuttavia.. tale normativa trova applicazione solo pro futuro onde saranno retribuibili ex art. 56 comma 6 d.lgs. 29/1993 solo le mansioni superiori svolte dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387». Invero la norma di legge invocata dall'ente territoriale per opporsi all'accoglimento della domanda del ricorrente cosi' recitava nell'originaria formulazione: d.lgs. n. 29/1993 art. «56. Mansioni. 1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, nelle quali rientra comunque lo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro. 2. Il dipendente puo' essere adibito a svolgere compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore ovvero, occasionalmente e ove possibile con criteri di rotazione, compiti o mansioni immediatamente inferiori, se richiesto dal dirigente dell'unita' organizzativa cui e' addetto, senza che cio' comporti alcuna variazione del trattamento economico.» 57. Attribuzione temporanea di mansioni superiori. 1. Per obiettive esigenze di servizio, il prestatore di lavoro puo' essere adibito a mansioni immediatamente superiori: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per un periodo non superiore a tre mesi dal verificarsi della vacanza, salva possibilita' di attribuire le mansioni superiori ad altri dipendenti per non oltre tre mesi ulteriori della vacanza stessa; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente con diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo di assenza, tranne quello per ferie. 2. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all'attivita' svolta per il periodo di espletamento delle medesime. Per i dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, in deroga all'art. 2103 del codice civile l'esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisce il diritto all'assegnazione definitiva delle stesse. 3. L'assegnazione alle mansioni superiori e' disposta, con le procedure previste dai rispettivi ordinamenti, dal dirigente preposto all'unita' organizzativa presso cui il dipendente presta servizio, anche se in posizione di fuori ruolo o comando, con provvedimento motivato, ferma restando la responsabilita' disciplinare e patrimoniale del dirigente stesso. Qualora l'utilizzazione del dipendente per lo svolgimento di mansioni superiori sia disposta per sopperire a vacanze dei posti di organico, contestualmente alla data in cui il dipendente e' assegnato alle predette mansioni devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti. 4. Non costituisce esercizio di mansioni superiori l'attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse disposta ai sensi dell'art. 56, comma 2. 5. In deroga a quanto previsto dal comma 1, gli incarichi di presidenza di istituto secondario e di direzione dei conservatori e delle accademie restano disciplinati dalla legge 14 agosto 1971 n. 821, e dall'art. 2, terzo comma, del regio decreto legge 2 dicembre 1935 n. 2081, convertito dalla legge 16 marzo 1936, n. 498. 6. Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque a decorrere dal 31 dicembre 1996. 7. Sono abrogati il decreto legislativo 19 luglio 1993 n. 247, nonche' l'art. 10, comma 2, del decreto legislativo 10 novembre 1993, n. 470, e sono fatti salvi tutti gli atti connessi al conferimento e allo svolgimento di mansioni superiori adottati ai sensi delle disposizioni stesse. Il d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 (artt. 25 e 43, comma 1) ha poi apportato le seguenti modifiche ai due articoli teste' citati: 56. Disciplina delle mansioni. 1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali e' stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive. L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione. 2. Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro puo' essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non piu' di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto dal comma 4; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza. 3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l'attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni. 4. Nei casi di cui al comma 2. per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l'utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze dei posti in organico, immediatamente e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente e' assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti. 5. Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, e' nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore e' corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave. 6. le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita. I medesimi contratti collettivi possono regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4. Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza puo' comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore. [57. Attribuzione temporanea di mansioni superiori.] (Abrogato). Infine l'art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 ha soppresso le parole «a differenze retributive o» contenute nel comma 6 del citato art. 56 come modificato dall'art. 25 d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80. Tutto cio' premesso, ritiene questa Corte che le disposizioni normative sopra richiamate (artt. 56 e 57 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 nella formulazione originaria e nella successiva modifica introdotta dagli art. 25 e 43, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80) risulterebbero effettivamente ostative al riconoscimento della qualifica e delle spettanze rivendicate dal ricorrente, almeno qualora si accedesse alla interpretazione sostenuta dalla parte appellante secondo cui le mansioni superiori eventualmente svolte dai dipendenti avrebbero rilevanza economica solo a seguito della modifica apportata dal citato art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387. Onde - quantomeno sotto tale profilo interpretativo - ricorre sicuramente il primo requisito richiesto per sollevare la questione di costituzionalita'. Quanto alla non manifesta infondatezza La questione oggetto di disamina da parte di questa Corte di appello ha per oggetto uno dei temi piu' disquisiti e controversi, vale a dire la diretta applicabilita' o meno dell'art. 36 della Carta Costituzionale anche in riferimento ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi la questione della legittimita' costituzionale delle norme che si pongano in apparente contrasto con tale principio. Il punto di partenza dal quale deve muovere ogni disamina e' ovviamente l'art. 36 della Costituzione, che, ad avviso di questa Corte territoriale, deve essere valutato anche in relazione all'art. 3 Cost. Va subito evidenziato che la norma di rango costituzionale, nel prevedere che «ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa», non opera alcun distinguo ricollegato alla qualifica del datore di lavoro, sia esso cioe' soggetto privato od amministrazione pubblica. Infatti, appare evidente che l'art. 36 della Costituzione si e' mosso nell'ottica di tutelare qualsiasi soggetto che svolga una attivita' lavorativa di carattere subordinato, a prescindere quindi dalla tipologia del datore di lavoro. Tale interpretazione, oltre che dall'esame del dato letterale inequivocabilmente fornito dalla norma costituzionale, e' confermato dalla lettura in combinato disposto con l'art. 3 della Costituzione. Infatti, la dottrina piu' autorevole ha sempre rilevato che l'art. 3 costituisce un corollario del principio di proporzionalita' di cui all'art. 36, onde per cui a fronte della medesima condizione di lavoratore subordinato - appare incongrua anche rispetto allo stesso art. 3 una interpretazione che introduca distinzioni a seconda che il rapporto .sia instaurato con un soggetto privato o con una pubblica amministrazione. Va infatti rilevato che la stessa Corte costituzionale, con le gia' citate sentenze 23 febbraio 1989 n. 57 e 19 giugno 1990 n. 296, ha affermato il principio per cui il pubblico dipendente che svolga mansioni superiori ha diritto ad ottenere le variazioni di trattamento economico conseguenti all'espletamento delle stesse e che il riconoscimento di tale diritto discende dall'applicazione diretta dell'art. 36 Cost. e dell'art. 2126 c.c. anche a seguito della cosiddetta «privatizzazione del pubblico impiego» operata a seguito del d.lgs. n. 29/1993, a prescindere dalla eventuale irregolarita' dell'atto e invero anche dalla natura formale o meno dell'atto di assegnazione; e cio' in quanto la utilizzazione del dipendente in tali superiori funzioni produce all'ente un «arricchimento ingiustificato, che, alla stregua dell'art. 36 della Costituzione direttamente applicabile, determina l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualita' del lavoro effettivamente prestato» (cfr. C. cost. 57/1989). Sulla base di quanto detto non sarebbe rilevante nemmeno la mancanza di un atto formale, in quanto la mancanza di questa condizione «viene supplita dal principio di cui all'art. 2126 c.c., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego» (cfr. C. Cost. ult. cit.). Tra l'altro il principio enunciato dalla Consulta ha subito trovato varie conferme nella stessa giurisprudenza amministrativa: tra le tante si veda, ad esempio, Cons. Giust. Amm. per la Reg. Siciliana, Sez. riunite, 12 novembre 1992 n. 318, in giurisprudenza amministrativa siciliana 1992, 195, in cui e' stato affermato che «alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 57 del 23 febbraio 1989 e n. 296 del 19 giugno 1990, deve ritenersi che, ai sensi dell'art. 36, primo comma della Costituzione, e dell'art. 2126 c.c.. al dipendente pubblico spetti il trattamento economico corrispondente all'attivita' svolta quando l'esercizio delle mansioni superiori si protragga nel tempo; tale principio e' applicabile a tutti i dipendenti pubblici ed, in particolare, ai dipendenti degli enti locali». E' stato anche ribadito che «il diritto alle differenze retributive per mansioni superiori va riconosciuto non solo in favore del personale sanitario, ma di tutti i pubblici impiegati, anche in difetto di formale conferimento dell'incarico, discendendo cio' sia dal principio di cui all'art. 2126 c.c., sia dal principio di equa retribuzione sancito dall'art. 36 Cost.» (cfr. in materia Tribunale amministrativo regionale Sicilia, sez. lI, 20 gennaio 1993, n. 3; Tribunale amministrativo regionale Campania, sez. III, 22 luglio 1994 n. 254; Tribunale amministrativo regionale Sardegna 16 settembre 1993 n. 115, Foro Amministrativo 1993, 678; cosi' anche Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 1992 n. 234, Foro Amministrativo 1992, 516). Nello stesso senso, cfr. TAR Campania. Sez. V, 17 giugno 1997 n. 1548; Foro Amministrativo 1998, 922, secondo cui «l'espletamento di mansioni superiori, anche in via di fatto, da parte del lavoratore determina il diritto di questi alla retribuibilita' delle stesse ai sensi dell'art. 2126 c.c. e dell'art. 36 Cost.». Infine, tale orientamento e' stato ribadito anche dal Consiglio di Stato che con sentenze 18 luglio 1997 n. 119 (Sez. VI) e 21 settembre 1996 n. 114 (Sez. V) ha stabilito che il pubblico dipendente che, per disposizione dell'amministrazione, svolga mansioni superiori a quelle proprie della qualifica rivestita in un posto vacante in pianta organica, ha diritto alle maggiori retribuzioni previste per tali mansioni, ai sensi dell'art. 2126 del codice civile; e cio' anche se risulti superato il limite temporale massimo previsto dall'ordinamento per l'esercizio delle mansioni i superiori, determinandosi una situazione illegittima le cui conseguenze non possono ricadere sul dipendente che tale situazione non ha posto in essere. Tale orientamento e' tra l'altro riemerso anche dopo le pronunce emesse dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che avevano disconosciuto la fondatezza di tale orientamento (v. Cons. Stato, ad. Plen. 18 novembre 1999 n. 22), sulla base di argomentazioni che questa Corte non ritiene condivisibili; in particolare, non sembra corretto affermare che la norma di cui all'art. 98 Cost., secondo la quale «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione», costituirebbe ostacolo alla diretta operativita' dell'art. 36 Cost. A ben vedere l'art. 98 non limita l'operativita' dell'art. 36 Cost., dal momento che la norma invocata dal Consiglio di Stato afferma il principio giusta il quale l'attivita' del pubblico impiegato deve tendere alla realizzazione degli interessi superiori della nazione (con esclusione quindi di interessi particolari), ma non implica in alcun modo che il pubblico dipendente non abbia diritto a ricevere un compenso proporzionato alla quantita' e qualita' del proprio lavoro (cfr. anche Tribunale amministrativo regionale Sicilia Catania, 22 maggio 2000, n. 981, in Lav. nella p.a., 2000, 900, secondo la quale «non e' possibile dedurre dal dettato dell'art. 97 Cost. la sussistenza nell'ordinamento di un principio generale per cui l'amministrazione viene, in ogni caso, pregiudicata dall'affidamento ai pubblici dipendenti di mansioni superiori a quelle della propria qualifica di appartenenza). Come gia' detto, anche dopo la decisione dell' adunanza plenaria si sono registrare affermazioni di segno nettamente contrario: si veda a titolo esemplificativo la recente Cons. Giust. Amm. per la Regione Sicilia 9 ottobre 2002 n. 583, che per l'appunto ha ribadito la diretta applicabilita' dell'art. 36 Cost. anche ai rapporti di pubblico impiego, segno evidente che le pronunce dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non hanno fornito adeguata e definitiva risposta al problema in oggetto (cfr. Tribunale amministrativo regionale Calabria, 13 settembre 2000, n. 1387, in Riv. cancellerie, 2001, 173, secondo cui nell'ambito del pubblico impiego deve riconoscersi la sussistenza del principio generale della spettanza della maggiorazione retributiva per le prestazioni che eccedano la qualifica formalmente rivestita, in quanto a ritenere diversamente si violerebbero gli art. 36 Cost. e 2126 del codice civile, che sanciscono la corrispondenza del trattamento economico all'attivita' lavorativa concretamente svolta). Infine, va ricordato che recentemente anche lo stesso Consiglio di Stato (vedi ordinanza 13 maggio 2002) ha ritenuto la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale di una norma della Regione Lombardia che per l'appunto aveva precluso il diritto alle differenze salariali in caso di svolgimento di mansioni superiori, evidenziandone il palese contrasto con le gia' richiamate pronunce della Corte costituzionale. Sulla scorta di tali riferimenti, secondo questa Corte, il principio della diretta applicabilita' dell'art. 36 della Costituzione non soffre deroga in relazione ai principi costituzionali di imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 della Carta costituzionale, ne' di quelli espresi dall'art. 98 Cost. Quanto al principio del buon andamento della pubblica amministrazione ritiene questa Corte che ciascun dipendente, in quanto risorsa primaria della stessa pa., debba ricevere un trattamento conforme a quello che e' il ruolo da lui di fatto svolto nell'ambito della struttura organizzativa: in buona sostanza, se un dipendente di una pubblica amministrazione viene chiamato - non importa se sulla base di una atto formale o semplicemente di fatto - a svolgere mansioni di profilo superiore a quello di appartenenza, e' segno evidente che la stessa p.a. ha la esigenza indefettibile che tali mansioni siano svolte nell'ambito della propria organizzazione. E dal momento che certe mansioni possono comportare anche l'assunzione di responsabilita' diverse i da quelle del formale profilo di appartenenza, e' del tutto evidente che il dipendente abbia il pieno diritto a percepire un trattamento economico conforme a quello del lavoro da lui svolto. Diversamente opinando - ove cioe' si negasse aprioristicamente un siffatto diritto - il dipendente potrebbe arrivare addirittura a rifiutare lo svolgimento delle mansioni di livello superiore, non volendo assumere responsabilita' in difetto di adeguata contropartita economica; in questo caso - allora si' - verrebbe vulnerato il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto finirebbe col subire un grave pregiudizio la funzionalita' della struttura in presenza di un legittimo rifiuto da parte del dipendente. Del resto occorre anche rilevare che, nel caso di specie, il posto a cui le mansioni superiori inerivano risultava vacante (stante il pensionamento del precedente titolare) ed il ricorrente era stato ad esse adibito con formali delibere (cfr. allegati 1 e 2 della produzione documentale del Rossi Silvio Francesco); onde la Regione dell'Umbria non puo' sostenere che l'assegnazione di mansioni superiori al ricorrente costituirebbe un vulnus al principio del buon andamento senza incorrere in una palese contraddizione (che e' quella, da un lato, di affermare che le mansioni di un dato livello devono essere svolte «da personale la cui maggiore qualificazione professionale e' stata accertata con apposita selezione concorsuale», pag. 7 dell'atto di appello, e dall'altro di attribuire in concreto, con formale delibera, dette mansioni ad un lavoratore la cui «maggiore qualificazione professionale» non e' stata accertata con concorso). Inoltre osserva questo Collegio che il principio costituzionale dell'equa retribuzione e' applicabile a tutti i lavoratori (non operando distinzioni, l'art. 36 Cost., tra lavoratori alle dipendenze di parti datoriali pubbliche o private) ed il dettato dell'art. 98 Cost., che afferma il dovere di fedelta' ed esclusivita' del pubblico impiegato, non appare ostativo all'applicazione di quel principio. Da tutto quanto argomentato deriva che debbano ritenersi contrastanti con i predetti principi costituzionali disposizioni di rango sottordinato che impediscano la diretta applicazione dell'art. 36 della Costituzione anche al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Del resto, appare significativa la evoluzione della normativa piu' direttamente attinente la presente controversia. Infatti, l'art. 56 del decreto legislativo n. 29/1993, come modificato dall'art. 25 d.lgs. n. 80 del 1998 e dall'art. 15 d.lgs. n. 387 del 1998 (attualmente trasfuso nell'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001) prevede espressamente al comma 5 che «al di fuori delle ipotesi previste dal comma 2, e' nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori proprie di una qualifica superiore, ma al dipendente e' corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore». Da tale norma, viene fatto discendere dalla regione appellante il principio in base al quale - solo a partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 387/1998 - sarebbe possibile per il dipendente della pubblica amministrazione ottenere il riconoscimento di differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori. A tale tesi puo' pero' essere replicato che la disciplina previgente non contiene disposizioni ostative al riconoscimento di diritto analogo a quello azionato nella presente sede. Infatti, l'art. 57 del d.lgs. n. 29/1993 prevedeva che l'assegnazione a mansioni immediatamente superiori fosse possibile - in presenza di determinati condizioni - per un periodo non superiore a tre mesi (comma 1) e che il dipendente, nel caso di assegnazione a dette mansioni, avesse diritto al trattamento economico corrispondente all'attivita' svolta (comma 2). Nulla pero' veniva detto in relazione all'ipotesi in cui l'adibizione a mansioni superiori si fosse protratta per un periodo superiore ai tre mesi, per cui non esisteva alcuna disposizione specificatamente preclusiva al diritto alle differenze retributive. L'entrata in vigore di tale norma e' stata piu' volte rinviata nel tempo, sino a quando e' intervenuto l'art. 25 d.lgs. n. 80/1998, che ha sostituito il testo originale dell'art. 56; in particolare, detta norma prevedeva espressamente la retribuibilita' della svolgimento delle mansioni superiori, ma al sesto comma ne rinviava l'applicazione in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita («fino a tale data, in nessun caso lo svolgimenti di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza puo' comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore»), in seguito le parole «a differenze retributive o» sono state abrogate dall'art. 15, d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387. Orbene, laddove si dovesse interpretare l'evoluzione normativa registrata in subiecta materia nel senso che solo con le modifiche intervenute con l'art. 15, d.lg.s n. 387/1998, sia stato introdotto il principio secondo il quale il dipendente pubblico abbia diritto ad essere retribuito in relazione alle mansioni di fatto svolte, i dubbi di legittimita' costituzionale in ordine alla normativa previgente - che ha principalmente regolato il rapporto del sig. Rossi - risulterebbero vieppiu' rafforzati. Infatti, in tale caso, non si comprenderebbero le ragioni per le quali identiche mansioni per un periodo non darebbero diritto a differenze retributive e per un altro periodo si, con evidente violazione dell'art. 3 Cost. anche relativamente al generale principio di ragionevolezza. Per altro verso, sempre seguendo questa tesi, si dovrebbe concludere che dopo l'entrata in vigore del d.lg.s. n. 387 del 1998 il diritto alle retribuzioni corrispondenti alle mansioni svolte non rappresenterebbe una violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, mentre invece lo costituirebbe per l'epoca antecedente; analoga considerazione vale per quanto sostenuto dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato in relazione all'art. 98 Cost.. Ad avviso di questa Corte, quindi, se si vuole riconoscere al sistema una intrinseca razionalita', si deve ritenere che gli artt. 56 e 51 del d.lg.s n. 29 del 1993, nel testo previgente alle modifiche ora citate, debbano ritenersi costituzionalmente illegittimi qualora vengano interpretati nel senso della insussistenza del diritto del dipendente di una pubblica amministrazione di percepire la differenza di trattamento economico in relazione alla qualifica superiore. Appare quindi evidente nei caso di specie anche la sussistenza del requisito della non manifesta infondatezza, che impone la riinessione della questione alla Corte costituzionale.